Intervista a Giorgio Armani
“La moda è come un sogno collettivo, nel quale gli altri sono sempre presenti come modello o oggetto dei nostri desideri e delle nostre paure: un sogno che coglie le intricate relazioni tra individuo, gruppo e società, tra il desiderio di essere accettati e quello di essere ammirati, tra individualismo e appartenenza ad un gruppo”.
Paola Pizza, Psicologia sociale della moda: abbigliamento e identità, 2010.
Giorgio Armani, Lei oggi rappresenta la memoria storica della moda italiana nel mondo. “La moda va fatta per il momento in cui si vive”, ha dichiarato. Come è cambiato il mondo della moda negli ultimi 60 anni?
Il mondo della moda è cambiato moltissimo negli ultimi sessant’anni. Iniziata come una piccola industria - per quanto con fatturati consistenti - è diventata fenomeno di massa negli anni 80 e 90 e più di recente con l’esplosione dei social media. Oggi mi sembra addirittura che si stia trasformando in un’industria di entertainment più che di produzione di capi di abbigliamento e accessori, allontanandosi dalla materialità del fare gli abiti. Personalmente, penso che la moda serva a vestire il momento, è una risposta a quello che succede nella società ed è così che io ho inteso il mio lavoro fin dall’inizio. L’attenzione che negli anni si è creata intorno al nostro ambiente è enorme e in parte lo ha distorto. Questo è forse il cambiamento principale. Ultimamente stiamo assistendo anche a un altro importante mutamento che riguarda più l’estetica, ed è l’affermazione di un’inclusività nuova, in cui uomini e donne sono sullo stesso piano. Credo di poter affermare di avere anticipato questo fenomeno, perché da sempre nella mia visione estetica uomo e donna sono affiancati.
Lei che ha sempre innovato, in che momento si è reso conto che i canoni della bellezza classica, che dominano in Occidente, non erano esaustivi e rappresentativi della varietà e delle diversità di tutte le identità possibili?
Non saprei precisare il momento esatto, ma quasi subito ho percepito che i canoni occidentali della bellezza classica erano troppo angusti e troppo rigidi e andavano abbattuti o almeno allargati.
Sicuramente il mio mondo è sempre stato intessuto di una fitta rete di riferimenti ad altre culture. L’esotismo è una parte fondamentale della mia estetica, a questo tema ho dedicato un’intera sezione della collezione permanente nel mio spazio espositivo, Armani/Silos. E per me guardare ad altre culture significa naturalmente guardare anche ad altre forme di bellezza, ad altri aspetti dell’apparire, ad altre fisicità. La mia moda si contraddistingue per le linee morbide che accompagnano il corpo: non mi è mai piaciuta l’idea del vestito che nasconde il corpo, che lo costringe o che lo camuffa. Piuttosto mi piace l’idea di un abito che accompagna il movimento sottolineando la personalità e facendola risaltare, mi piace l’dea di una persona sicura ed elegante, con un’interiorità che deve trapelare. In questo mi sento inclusivo fin dagli inizi, anche se all’epoca non usavamo ancora questo aggettivo, perché era una riflessione forse ancora lontana dalle nostre coscienze. Direi che la mia consapevolezza della vastità e della cangiante idea di bellezza è stata ed è un processo di continuo arricchimento. Il bello del mio lavoro è che non si finisce mai di imparare e di evolversi, creo delle cose e nel frattempo apprendo e assorbo dal mondo che mi circonda.
Tra le innovazioni di cui sopra, Lei è stato il primo ad ammorbidire il confine di demarcazione nelle creazioni di abiti tra donna e uomo. Vede anche Lei una relazione tra quella anticipazione e la fluidità di genere di cui si parla oggi (in riferimento, ad esempio, a chi si riconosce come persona non binaria, oppure appartenente a entrambi i generi)?
Non so se posso ritenermi l’antesignano della fluidità di genere, cioè l’etichetta che si usa oggi nella moda per indicare il fenomeno per cui uomini e donne si vestono realmente alla stessa maniera. Il fondamento della mia moda, il principio su cui ho sempre lavorato, parte dalla realtà di abiti fatti per essere indossati, abiti quindi che creano nuovi atteggiamenti, nuovi modi di porgersi e nuovi modi di essere. L’ho fatto in un momento in cui le donne avanzavano sul posto di lavoro, erano donne in carriera che avevano bisogno di rappresentarsi in una maniera nuova e di apparire con la stessa dignità e la stessa autorevolezza di un uomo. L’androginia è parte della mia estetica, in una maniera molto fluida e naturale che credo rifletta ciò che succede davvero nel mondo esterno. Non sono convinto però che se ne parli nel modo giusto, con un’interpretazione, almeno in passerella, che tende a essere un po’ sensazionalistica. Credo che le vere rivoluzioni avvengano dal basso e con la consuetudine, e vedo questa fluidificazione di costumi semplicemente come il modo in cui la gente usa le cose, anche le mie. Quindi mi fa sorridere questo voler mettere a tutti i costi delle etichette a cose che avvengono comunque.
I corpi raccontano storie: la moda le ascolta e le ripropone in che modo?
Assolutamente. I corpi raccontano storie e senza i corpi non ci sarebbe la moda. Perché un abito appeso a una gruccia è semplicemente un pezzo di stoffa. Diventa un vestito quando viene indossato da una persona e vissuto nel quotidiano. La moda ascolta il corpo. Per lungo tempo lo ha idealizzato costringendo tutti a piegare la propria fisicità al modello dominante. Oggi questa imposizione dall’alto non c’è più e i modelli si sono frammentati. Siamo sempre più attenti alla coralità di quel che ci accade intorno e la moda non può che continuare ad ascoltare i corpi, rispondendo in una maniera che li esalti tutti, ciascuno per la sua specificità.
Lei come è riuscito a far convivere regole risolute e libertà di espressione nella Sua proposta creativa? È mai stato necessario violare una regola “sacra” per scoprire una bellezza nuova?
Il lavoro di un creativo si muove esattamente nello spazio che separa la libertà di espressione dalle regole. Il progresso parte dalla lettura delle regole perché le regole – essendo spesso il frutto dell’esperienza – aiutano a modellare un’idea in qualcosa di possibile. Forse la prima rottura che ho dovuto e che ho voluto imporre è stata quando ho letteralmente disfatto la giacca e dalla giacca aperta ho tolto imbottiture e spalline, modellandola quasi come una camicia, in modo che seguisse le linee vere del corpo non quelle ideali. Questa è stata la rottura di una regola a lungo imposta dal sistema che mi ha portato alla creazione della mia estetica. Quindi direi che l’equilibrio tra libertà di espressione e rigore del rispetto del codice sia quanto di più stimolante possa esserci per un creativo.
In un’intervista ha detto: “L’abito non deve prevaricare mai il corpo”. Questa “laicità”, a mio modesto avviso, ha molto a che vedere con il concetto di imperfezione: come si trova dunque un equilibrio tra il modello di bellezza cui ci si ispira e l’amore per sé?
Il quesito è molto sottile e complesso, perché è insieme fisico ed esistenziale. È vero l’abito non dovrebbe mai prevaricare il corpo. È l’imperfezione che ci rende realmente unici e speciali. Credo che dovremmo scostarci da parametri assoluti per non reiterare un modello di pensiero superato. La moda in questo può svolgere un ruolo importantissimo, mettendo in discussione vecchi preconcetti e suggerendo nuovi paradigmi. La perfezione personale è un parametro che ognuno dovrebbe avere ma che non può essere imposto dall’alto, né da me come designer, né dalla società come fonte di modelli di riferimento. Penso che ciascuno di noi aspiri a un’espressione alta di sé, senza per questo dover aderire o conformarsi a un modello generalista. Da una parte c’è una più diffusa accettazione delle imperfezioni, perché fanno parte dell’esistere, e forse sono la parte più bella dell’esistere, dall’altra c’è la consapevolezza che, qualunque sia il corpo, impegno e cura di sé producono un’espressione aggraziata, bella, completa di quel che si è o che si desidera essere.
Che responsabilità ha - e ruolo può svolgere - il mondo della moda nel promuovere i valori dell’inclusione? Penso alle differenti età, agli orientamenti sessuali, alle religioni, alle disabilità…, tematiche queste su cui, le grandi aziende internazionali, stanno investendo parecchie energie, ultimamente.
C’è una grande apertura in corso sul tema della diversità – che si tratti di fisico, di età o di bellezza – e in questo penso che la moda sia in assoluto all’avanguardia. E non è un caso perché la moda è una sorta di laboratorio estetico nel quale spesso i cambiamenti avvengono e vengono registrati prima che altrove. E vengono elaborati in maniera rapida perché sono mutamenti essenzialmente estetici, e in quanto tali immediatamente visibili. Quindi, per quel che riguarda età e bellezza, la moda sta compiendo un grandissimo lavoro di abbattimento delle barriere pregresse di schemi culturali ormai stantii, e può fare ancora molto per la diversità, nei casting per esempio, ma non solo. Credo che la trasversalità di inclusione di cui oggi tanto si parla debba estendersi a tutti gli ambiti, fino al prodotto. Nel mio caso quello che creo non ha un limite di età, né in termini di utilizzo né relativamente al tempo in cui verrà utilizzato. È un equilibrio molto sottile di componenti, ma è importante che questo avvenga all’interno del linguaggio della moda e che il desiderio di aprirsi sia onesto e non soltanto la reazione a una percepita apertura di mercato.