Intervista a Giangi Milesi
Partiamo da oggi, dal tuo ruolo di Presidente della Confederazione italiana Parkinson. E partiamo da Non chiamatemi morbo.
La malattia mi è stata diagnosticata e all’inizio 2019 sono stato eletto Presidente della Confederazione che si prefigge di mettere in rete le centinaia di associazioni territoriali dei pazienti. Ho accettato proprio per dar vita a una campagna di sensibilizzazione sul Parkinson che faccia conoscere meglio questa malattia che colpisce lo 0,3% della popolazione mondiale (in Italia almeno 250.000 persone), ma è destinata a crescere. Colpisce soprattutto in una fascia d’età tra i 60 e gli 80 anni, ma è sempre più frequente fra i giovani e fra le donne. È la malattia multi-sintomatica di Michael Jay Fox e di Papa Woityla per intenderci.
Abbiamo immaginato una campagna educativa basata sulle fotografe di Giovanni Diffidenti, con cui lavoro da più di trent’anni perché è capace di raccontare un’intera storia in un solo scatto. Ogni racconto, oltre a far conoscere un aspetto della malattia, presenta un’esperienza di resistenza al Parkinson, per rovesciare la rassegnazione, l’isolamento e lo stigma associati al concetto di “morbo”. Denominazione che va abbandonata perché ingannevole, oltre che infondata. Una maggiore consapevolezza permette una diagnosi precoce e l’adozione di cure “sartoriali” che, unite a uno stile di vita consono, consentono, nella gran parte dei casi, di tenere a bada la malattia e normalizzare la qualità
e l’aspettativa di vita.
Il Covid ha peggiorato il quadro, ma, nel nostro piccolo, abbiamo reagito con un’alleanza pubblico-profit-non profit che grazie alla teleassistenza e alla telemedicina ha realizzato un’esperienza paradigmatica di
accesso alle cure, pubblicata sulle riviste scientifiche internazionali.
La pandemia non ha fermato nemmeno la mostra fotografica itinerante. Non sapendo quanti dei 15.000 visitatori del Festival della fotografa etica di Lodi l’hanno vista ed escludendo dal conteggio anche gli ottimi video di Silvia Chiodin, che raccontano in rete le medesime storie della mostra, conteggiamo oltre 7.000 persone che l’hanno vista e ascoltata in 27 luoghi stupendi: dal Piccolo Teatro di Milano al Museo MAXXI, dalle Gallerie di Trento all’istituto etnografico di Nuoro, dalla Gran Guardia di Verona al Teatro San Domenico di Crema, dalla Pescheria Vecchia di Este a La Carrara di Bergamo, a Palazzo Samone di Cuneo.
I numeri preannunciano il raggiungimento degli obiettivi quantitativi della campagna, ma è il suo impatto a sorprendere. La rassegna stampa è impressionante, ma sono soprattutto le reazioni dei “portatori” della malattia a colpire per le reazioni emotive, per il coming out e le promesse di emulare le buone pratiche che ci fanno definire la mostra “terapeutica”. Per riprodurre sul divano di casa la medesima “immersione” nelle storie, la mostra è diventata anche un libro, senza testi, un “libro che parla”; presentato in Senato da Mario Calabresi e al Circolo dei Lettori di Torino da Lella Costa. Alle inconfondibili voci di Lella e di Claudio Bisio è affidato un commento delle foto sorprendente: i due attori interpretano Mrs e Mr Parkinson, cioè la malattia che lamenta la resistenza delle vittime che hanno sviluppato una serie di competenze per convivere con il Parkinson, senza farsi dominare.
Testi emozionanti - teatrali, li ha definiti Sergio Escobar - scritti da Roberto Caselli, ascoltabili dal proprio cellulare con una app gratuita. Le 44 storie finora raccolte riguardano persone comuni e talvolta personaggi famosi, come Vincenzo Mollica o Edoardo Boncinelli, ma anche familiari “curanti” – i cosiddetti caregiver - come Paolo Fresco o Monsignor Francesco Beschi. Se la malattia degenerativa mette a dura prova l’equilibrio fisico e psichico della persona con difficoltà motorie, depressione, disagio, solitudine, isolamento, il percorso della mostra suggerisce la possibilità di contrastarla con la creatività e le abilità che possono addirittura accrescersi. (https://nonchiamatemimorbo.info/).
Vuoi fare qualche esempio?
Quando nel panorama internazionale del 1997, il piccolo e sconosciuto Cesvi fu la prima Ong operativa in Corea del Nord, nella più grave crisi alimentare del XX secolo, lanciammo SOS Nord Corea, campagna solidale che integrava gli strumenti tradizionali della raccolta fondi con quelli del marketing e delle relazioni pubbliche. Innanzitutto, consultammo Nando Pagnoncelli e coinvolgemmo i migliori pubblicitari creando campagne diversificate per ogni mezzo. Affiancammo alla raccolta postale quella telefonica (call center + numero verde 036.036). Mentre le Ong italiane rifiutavano le sponsorizzazioni, Cesvi importò da Londra il “cause related marketing” per lo sviluppo (etico) delle partnership profit-non profit. Si arrivò così all’emissione del primo social bond italiano. Reclutammo due famosissimi testimonial (Ezio Greggio e Lorella Cuccarini), ma scegliemmo Lella Costa come voce degli spot e i comici Zelig per gli eventi. Architettammo una cooperazione triangolare Italia-Vietnam-NordCorea che, risparmiando sul costo del trasporto, migliorò la qualità degli aiuti alimentari per Pyongyang e supportò lo sviluppo del Centro di Nutrizione Infantile di HoChiMinh City. La campagna ebbe un successo mediatico enorme e colmò il vuoto informativo sulla tragedia del paese-bunker, off-limits per i giornalisti. Nei primi dieci mesi raccogliemmo 1.471 milioni di vecchie lire, ma soprattutto fu riconosciuta come “la miglior campagna per innovazione, integrazione fra i mezzi e per trasparenza”.
Come socio della Ferpi, per promuovere una maggiore trasparenza del non profit, proposi di introdurre un’apposita categoria dell’Oscar di Bilancio. Cosa che avvenne grazie all’appoggio convinto di Toni Muzi Falconi. Cesvi era ancora una semplice associazione e all’inizio, l’Oscar non profit fu vinto da fondazioni ben più strutturate. Ma nel 2000 la giuria premiò l’impegno del Cesvi che aveva certificato volontariamente il bilancio, rendicontato gli interventi e pubblicato con trasparenza la propria governance; nomi e fotografe compresi.
Il bilancio di missione diventò occasione per promuovere e condividere il miglioramento organizzativo. Se l’Oscar del 2000 fu un riconoscimento alla buona volontà, le vittorie del 2011 e del 2017 furono stra- meritate. Fu così che le grandi non profit italiane si accorsero della creatività e dell’innovazione made in Cesvi che - con Airc, Aism, Fai, Save the Children, Telethon, Unicef e Wwf – costituì un coordinamento per il miglioramento, la crescita e l’indipendenza del non profit, modello anglosassone.
Innovazione anche tecnologica: nel 2002 per realizzare la sostenibilità economica dei progetti che la comunità internazionale non appoggiava, lanciammo uno strumento che si rivelò importantissimo: insieme a Omnitel creammo la possibilità di donare attraverso Sms solidale. A noi consentì di lanciare la sfida all’Aids in Africa, prima dell’istituzione del Global Fund e per tutti è stato uno strumento largamente adoperato fino a pochi anni fa.
Spesso citi, tra gli autori e le autrici che hanno segnato il tuo percorso, il nome di Ettore Tibaldi. Chi era Tibaldi?
Ettore Tibaldi ha insegnato zoologia per molti anni. È stato un precursore del biologico e degli studi ambientalisti; mentore di Licia Colò. Il mio incontro con lui ha segnato un momento importante perché grazie alle sue riflessioni, al suo punto di vista, ho capito l’importanza della sostenibilità ambientale. Voglio ricordare qui il suo libro fondamentale “Uomini e bestie: il mondo salvato dagli animali” (Milano: Feltrinelli, 1998). Il suo contributo nello sviluppo di progetti di cooperazione nel sud del mondo è stato fondamentale per la capacità di conciliare il nostro impatto, come uomini, sul mondo animale e vegetale.
È grazie alla lezione di Ettore che ho cominciato a riflettere sul nostro destino di specie. Già nei primi anni Novanta era chiaro che c’erano tutta una serie di indicatori, dallo scioglimento dei ghiacciai, al buco nell’ozono, all’aumento delle temperature, che hanno indotto molti scienziati e scienziate a lanciare un allarme. Voglio citare qui una frase emblematica di Ettore che ho fatto mia negli anni: “È meglio essere approssimativamente corretti che esattamente sbagliati”. Mi pare che anche questo pensiero abbia a che fare con la sostenibilità, in fondo.
È un modo abbastanza paradossale che ripeto spesso a chi lavora con me per fare capire che ci sono situazioni molto complesse. Le mie esperienze mi hanno portato ad avere un approccio molto laico e pragmatico rispetto ai grandi problemi: la trasmissione del sapere; la gestione dell’acqua; l’Aids in Africa; la deforestazione in Amazzonia; la fame, la siccità, gli scontri di religione o etnia. Non si risolvono in maniera ideologica, ma con un approccio creativo che tenga conto delle contraddizioni dell’animo umano; contraddizioni che a volte sfociano nella superstizione, nella follia, nell’auto distruttività, addirittura. Mi sento responsabile di non essere riuscito a dare il nome di Ettore al distretto bergamasco della biodiversità. Mi rimprovero, come bergamasco, di non curare le nostre radici. Non ricordiamo Tibaldi, come non ricordiamo Veronelli. Anche a lui Cesvi deve riconoscenza per aver tenuto a battesimo il Cesvino. Ma Cesvi a parte, dov’è il ricordo di Ernesto Rossi che aveva scelto Bergamo per viverci? Bergamo ha ricambiato con l’arresto – mentre insegnava al Vittorio Emanuele – e l’invio al confino di Ventotene. Al contrario di quanto sosteniamo, non siamo la città della riconoscenza.
Come sai il nostro numero parla di sostenibilità ambientale, ma soprattutto umana e sociale. Abbiamo deciso per altro di dividerlo in 4 elementi, prendendo spunto dal filosofo siciliano Empedocle che nel VII secolo avanti cristo aveva già individuato questi 4 grandi principi alla base dell’universo. Puoi indicarci un progetto per ognuno di questi elementi che il Cesvi ha sviluppato negli anni?
Cesvi gestisce mediamente più di un centinaio di progetti in Africa meridionale e in Corno d’Africa; in Indocina e in Asia centrale; in America latina. Alcuni durano pochi anni, altri sono nati più di venti, trent’anni fa e ancora sono presidiati dalle comunità che li hanno voluti e iniziati.
Ne scelgo uno per continente. Per l’acqua ricorderei i numerosi programmi lungo il fiume Limpopo. Digitando su Google Earth “Shashe irrigation scheme – Cesvi NGO ITA”si può osservare, alla confluenza fra i fumi Shashe e Limpopo, completamente secchi, il miracolo di un grande aranceto che rimpiazza l’economia del mais, vittima della desertificazione. In mezzo a un mare giallo di sabbia, quattro giganteschi anelli verdi ci dicono che il progetto funziona.
È una delle tante costole di un sogno di Mandela: l’istituzione del Gran Limpopo, il “parco della pace” più grande al mondo! Un parco transfrontaliero che supera i confini tra Sudafrica, Mozambico, Botswana, Zimbabwe per restituire le ricchezze delle terre alle comunità locali. Un progetto di sviluppo turistico, di contrasto alla caccia di frodo per proteggere i big 5. Gli animali più grandi a rischio di estinzione.
Per quanto riguarda il fuoco, sicuramente il progetto di lotta alla deforestazione dell’Amazzonia. La difesa dei diritti e dell’identità delle comunità locali, avviata 40 anni fa nella regione MAP, a cavallo fra Perù, Brasile e Bolivia ha fatto nascere un bellissimo progetto di estrazione sostenibile di un super-alimento: la castaña. Noi la conosciamo come noce amazzonica, ma è una bomba alimentare che cresce solo in quella parte del mondo su alberi giganteschi, alti oltre 30 metri. Alberi che farebbero gola ai saccheggiatori della foresta. Ma grazie alla geolocalizzazione ogni castagno viene affidato a un castegnero che, avendo il diritto di estrarre i frutti, lo protegge.
Per quanto riguarda l’aria, mi vengono in mente le zanzariere impregnate di insetticida biologico che uccidono le zanzare domestiche che diffondono la Malaria. Quando il mondo chiedeva un po’ di democrazia in Myanmar, noi eravamo là a organizzare, insieme al sistema sanitario mobile che raggiungeva i villaggi in motocicletta, le elezioni democratiche dei comitati di villaggio.
Infine, per quanto riguarda la terra, mi viene in mente la capacità di conoscere e operare sui territori. Perciò invece di citare l’Europa (troppo facile), torno in Africa a quando il mondo ancora non sapeva che pesci pigliare contro l’HIVAIDS.
In Africa, sviluppammo un protocollo che salvava dalla trasmissione i bambini delle madri sieropositive. Alle madri, che non venivano curate, importava solo che i loro figli fossero sani. Su quel sentimento d’amore costruimmo la prima campagna di prevenzione con antiretrovirali: “Fermiamo l’AIDS sul nascere”. La prima mamma-coraggio battezzò il figlio Takunda, che significa “abbiamo vinto”. E Takunda divenne per tutta l’Africa il simbolo della possibile vittoria.
Voglio tornare ad un’altra riflessione che fai spesso. Tu, come me, sei bergamasco. Mi ha sempre affascinato il modo in cui tu dividi i bergamaschi in due tipologie: gli stanziali e i girovaghi. Ma in fondo credo che queste caratteristiche si possano applicare anche a tutti gli italiani/e.
Si ci sono città di mare in cui i contadini costruiscono i Trabocchi per restare saldamente legati alla terra con un cordone ombelicale. Mentre spesso capita di incontrare naviganti che hanno preso il largo da città che non hanno il mare. Forse sono due vocazioni o forse sono solo due pulsioni legate alle diverse fasi della vita.
Abbiamo grandi imprenditori che nel dopoguerra si sono lanciati alla conquista dei mercati. E siamo un territorio ricco di quelle multinazionali-tascabili, leader mondiali di mercato nei loro micro-settori che tengono in piedi la nostra economia. Così come abbiamo avuto nel passato esploratori, scienziati, artisti, musicisti che hanno avuto fama lontano da Bergamo: Donizetti, Caravaggio, Tasso, Angelo Maj, Beltrami, Olmi, Papa Giovanni, solo per citare qualche nome famoso. Altri invece restano legati alle radici e sembrano voler risolvere qui tutte le vicende del mondo. Ci sono i girovaghi. E ci sono quelli che sanno decifrare il mondo e guardarlo da vicino, anche restando nella loro cameretta. Io non so a quale tipo appartengo. Forse a quel tipo un po’ incompreso che assomiglia molto al detto: nemo profeta in patria.
Chiudiamo questa intervista con un’ultima domanda anche per tornare al presente. Dalla tua esperienza personale e istituzionale con l’Associazione per il Parkinson hai ricavato ulteriori spunti di riflessione che valgono non solo per le persone che hanno il Parkinson ma che si possono estendere a tutti i malati: l’importanza di cure palliative. Vuoi parlarcene?
Sì, questo tema mi sta molto a cuore. Perché, sulla scorta dell’esperienza fatta all’interno dell’Associazione, in questi mesi molte altre Associazioni di malati ci stanno contattando. Siamo diventati una best practice. Ancora una volta siamo riusciti ad introdurre degli elementi di innovazione in un contesto che sembrava un po’ cristallizzato.
In fondo, ripercorrendo la mia carriera, o meglio la mia vita, posso riconoscere una costante volontà di superare gli egoismi, gli egocentrismi, le vanità accentratrici e autoreferenziali che talvolta caratterizzano le organizzazioni, per proporre un modello di sviluppo aperto, dialettico, dove tutti/e sono rappresentati/e. Una comunità di pratica e di memoria.