Intervista a Cristina Tajani
I cambiamenti in corso spingono nella direzione di una città policentrica, dove i servizi e i centri
di aggregazione sono decentrati. Pensiamo ad esempio alla nascita di commerci di vicinato e
di hub nelle periferie (…) Questo scossone diventerà un fenomeno stabile nel tempo soltanto se ci sarà una scelta strategica di attori pubblici e privati nel supportare il cambiamento voluto dai cittadini.
Le città si muovono. Direzione futuro e oltre. Il viaggio e le premesse sono nel presente, prossimo al domani, nella partecipazione dei cittadini e nelle politiche pubbliche di oggi.
“L’esperienza del Covid ha messo in discussione la crescita verticale e vorticosa delle città”, spiega Cristina Tajani, consigliera esperta al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e docente a contratto presso il Politecnico di Milano, autrice di “Città Prossime. Dal quartiere al mondo: Milano e le metropoli globali” (2021).
Il libro, frutto anche dell’esperienza come assessora del Comune di Milano, dal 2011 nella giunta Pisapia e nuovamente dal 2016 nella giunta Sala, propone al lettore la sfida di ripensare il ruolo delle città alla luce degli “shock” a cui è stata sottoposta l’umanità. Dalla transizione digitale alla pandemia.
I confini non sono più tali né lo sono i pilastri su cui si basava il successo delle metropoli prima che l’emergenza sanitaria li ribaltasse contro di esse. Oggi non solo le città sono in movimento, quanto mai dinamiche e flessibili, ma le direzioni si sono ribaltate.
Le città non crescono in verticale. Ora l’estensione è orizzontale, si assiste a un decentramento dei luoghi di lavoro e a una crescente spinta dal basso animata dall’attivismo dei cittadini.
Dott.ssa Tajani, nel suo libro racconta la “città che sale”. Qual è il motore di questo movimento verticale?
La formula della città che sale è stata spesso utilizzata negli ultimi anni per descrivere la fase di sviluppo di Milano prima dell’arrivo del Covid.
In realtà questa formula è una citazione di un famoso dipinto di Umberto Boccioni del 1911, che rappresenta un movimento di uomini e cavalli come a indicare che, oltre alla verticalità degli edifici sullo sfondo, il vero motore delle città è costituito dalla capacità delle persone di produrre connessioni tra loro con il resto del mondo. “La città che sale” è la rappresentazione dello sviluppo urbano che ha caratterizzato l’evoluzione dei centri urbani fino allo scoppio della pandemia e della guerra attuale.
Oggi lo sviluppo urbano è arrivato ad attrarre la maggioranza della popolazione mondiale che vive in città dopo l’abbandono delle aree extra urbane. Nel libro parlo della crescita verticale delle città che hanno saputo trainare lo sviluppo dei paesi in tutto il mondo.
Dopo la pandemia sembrerebbe che le città abbiamo invertito la direzione del loro sviluppo, non più verticale ma orizzontale. È così?
Lo scoppio della pandemia ha messo in discussione la crescita vorticosa delle città perché gli stessi fattori positivi di sviluppo delle aree urbane (la concentrazione di molte persone in poco spazio) sono diventati fattori negativi in termini di diffusione del virus.
Oggi Milano e altre città stanno vivendo una fase di riorganizzazione degli spazi e dei tempi del vivere urbano. Una riorganizzazione che è destinata a perdurare. Lo vediamo nel mondo lavoro: questo è un cambiamento destinato a rimanere rispetto a quello vissuto durante le fasi più critiche della pandemia.
Da questo punto di vista lo sviluppo urbano potrebbe creare connessioni anche con aree non urbane. Lo sviluppo è quindi più orizzontale e meno verticale; può costruire legami diversi tra aree urbane e non, tra Milano e le aree interne della nostra regione. Lo shock pandemico sembrerebbe destinato a portare una riconfigurazione dello spazio e del tempo del vivere la città, attraverso processi di evoluzione più orizzontali.
Dopo la spinta verticale e lo sviluppo orizzontale, un altro movimento, forte e sentito, sta emergendo nei centri urbani: quello dal basso. Qual è la direzione delle politiche sociali?
La pandemia ha indotto le persone a ragionare in termini di prossimità e di sviluppo policentrico dei servizi sul territorio.
Questo viene richiesto soprattutto nella “città dei 15 minuti”, in cui sta emergendo anche la domanda di maggior inclusione da parte dei cittadini sulla scorta di alcuni processi innovativi, come quelli legati all’ambiente e alla rigenerazione urbana.
Il movimento verso l’inclusione non è un movimento scontato, e, per questo, va promosso attraverso politiche pubbliche che premino l’attivissimo dei cittadini. L’esito di questo movimento dipende e dipenderà dalle politiche pubbliche capaci di coinvolgere gli innovatori sociali. La spinta c’è, ma l’esito dipende da quanto gli innovatori sociali, persone che operano nel terzo settore e della cooperazione, verranno coinvolti nella creazione della città del futuro.
Ogni movimento porta con sé delle trasformazioni. Che cosa vediamo all’orizzonte delle città del futuro?
I cambiamenti in corso spingono nella direzione di una città policentrica, dove i servizi e i centri di aggregazione sono decentrati. Pensiamo ad esempio alla nascita di commerci di vicinato e di hub nelle periferie che diventano sempre più diffusi sul territorio. L’attenzione non sarà più rivolta solo al cuore della città e ai suoi uffici. Questo scossone diventerà un fenomeno stabile nel tempo soltanto se ci sarà una scelta strategica di attori pubblici e privati nel supportare il cambiamento voluto dai cittadini.
Dopo questo “scossone” come evolverà il rapporto tra città e aree circostanti? Che ruolo gioca quello che lei definisce il “doppio movimento del near working e del lavoro agile”?
Dal punto di vista dell’organizzazione urbana, uno sviluppo del lavoro agile in termini non emergenziali potrebbe condurre a una valorizzazione policentrica dei territori, dentro e attorno la città. A Milano, ad esempio, abbiamo promosso il near working dedicando spazi appositi degli hub che si mettono a disposizione delle persone come luogo di appoggio nelle “giornate agili”.
Tutto questo può consentire uno sviluppo sul territorio più armonioso tra città e ciò che città non è. Come detto prima, queste politiche devono essere accompagnate da un intervento normativo che favorisca uno sviluppo del lavoro e una contrattazione che limiti gli effetti negativi, come l’isolamento e la difficile connessione, e favorisca quelli positivi come la creazione di luoghi di comunità.
Nelle conclusioni del suo libro invita a riconciliarsi con i luoghi che, apparentemente, non contano: quelli fuori dalle città. È possibile farlo tra il nord e il sud del nostro Paese?
Purtroppo, le disuguaglianze territoriali tra nord e sud del Paese sono tornate a crescere dopo una fase di riduzione, sia nel settore pubblico che privato. Nelle conclusioni del libro faccio riferimento alle aree del paese che hanno subito lo spopolamento. Si tratta di aree all’esterno delle città o in altri punti del nostro paese che hanno subito gli esiti della forza attrattiva e centripeta di città più grandi.
Questo fenomeno di impoverimento delle aree interne non è positivo perché, oltre a generare diseguaglianze territoriali, ha anche generato fenomeni sociali di risposta a uno sviluppo non bilanciato e di rabbia. Uno sviluppo economico più equo e una idea di ricerca di uguaglianza tra le persone sono sicuramente auspicabili.
Riconciliarsi significa costruire cooperazioni che favoriscano lo sviluppo territoriale e uguaglianza tra le persone e lo sviluppo umano. È un’idea che va perseguita con politiche pubbliche adeguate e visione complessiva dell’equilibrio.
Umberto Boccioni ha dipinto La città che sale a cavallo tra il 1910 e il 1911. Il titolo originale del dipinto, che rappresenta una visione di Milano, era Il lavoro. Distante da una rappresentazione naturalistica del paesaggio, al centro dell’opera non vi sono i cantieri e le ciminiere tipici delle periferie urbane, ma uomini e cavalli in movimento. La formula della città che sale è stata utilizzata da molti a ridosso di Expo 2015 per rappresentare la Milano verticale delle nuove realizzazioni urbanistiche e dei molti cantieri che a partire dal 2014 hanno acceso la città di una nuova, a volte frenetica vitalità. Questa stessa immagine, però, ha una forza generale perché è capace di catturare lo slancio con cui diverse metropoli globali, nel corso degli ultimi decenni, si sono imposte sulla scena mondiale tanto da meritarsi l’appellativo di superstar cities.
Ho ragionato molto su questa immagine, insieme anche al gruppo di persone che dall’interno e intorno all’amministrazione cittadina si sono ritrovate nel progetto politico culturale di Innovare per Includere, l’associazione che ho contribuito a far nascere. Come ho argomentato già a maggio del 2015, in una riflessione ospitata sulla rivista online Gli Stati Generali®, l’immagine della città che sale cattura bene alcuni dei processi sociali, culturali ed economici che hanno investito Milano ma ha una forza universale e può forse adattarsi a descrivere l’ascesa di ogni città di successo.
Nel nostro caso, la città verticale dei grattacieli e dei nuovi processi di rigenerazione urbana è stata solo lo sfondo di un movimento che ha al suo centro, come motore della trasformazione (e come in Boccioni) gli uomini e i cavalli: strumenti tecnologici, relazionali, flussi di persone e di conoscenza.
Da “Città Prossime. Dal quartiere al mondo: Milano e le metropoli globali”, di C. Tajani (2021)