Intervista a Chiara Bisconti
Ho conosciuto Chiara Bisconti nel 2015 ad un convegno organizzato dal Comune di Bergamo dal titolo Smart Working Smart Companies e mi è piaciuta all'istante, io funziono così.
Mi ha colpita e, nella noia che a volte i lunghi convegni portano con sé, ha avuto la mia attenzione. Ricordo chiaramente che mi era piaciuto il modo che aveva di parlare: chiaro, sintetico, diretto e non per questo superficiale. Mi era piaciuto l'atteggiamento deciso ma cortese, sicuro di sé ma mai supponente. Mi era piaciuta, più di ogni altra cosa, la sua faccia “tosta”, bella… ma tosta, nel venire a proporre alla città di Bergamo, alle aziende di Bergamo (la mia arroccata città!) di ribaltare quasi due secoli di tradizione imprenditoriale, storia aziendale, cultura d'impresa solida, efficiente ma notoriamente patriarcale, famigliare e ahimè maschilista, proponendo una modalità di lavoro diversa. Spiegando come non avesse alcun senso premiare chi sta in ufficio fino a tardi a discapito di chi rincasa prima, se quest'ultimo/a si organizza meglio; motivando che non necessariamente il tempo di presenza paga più degli obiettivi raggiunti; sottolineando che un capo deve saper delegare, che un rapporto di fiducia reciproca non si basa su cartellini timbrati e ferie obbligatorie a ferragosto (ma mi raccomando la reperibilità sotto l'ombrellone!) ma su feedback costanti, obiettivi chiari, trasparenza nelle valutazioni. Coraggiosa, ammettiamolo. Coraggiosa.
A distanza di sei anni Chiara mi viene incontro a piedi nudi nel suo luminoso appartamento milanese, è fine giugno, fa caldo e quando mi dice: - Se vuoi togliere le scarpe anche tu, fai pure! - accetto con gratitudine.
Chiara Bisconti è nata a Novara nel 1966 da genitori milanesi, la mamma professoressa di lettere e prima segretaria donna del PCI per la sezione milanese, e il papà dirigente d'azienda. Cresciuta, insieme alla sorella maggiore, in questa famiglia molto poco tradizionale (- Per farti un esempio: non festeggiavamo il natale! -) ha frequentato prima le scuole sperimentali milanesi, poi il Collegio delle Fanciulle scegliendo l'indirizzo liceale linguistico, infine l'Università Bocconi.
Il primo incarico lavorativo post laurea è in Nestlé (multinazionale svizzera del settore alimentare), dove si occupa per circa otto anni di trade marketing e vendita e, tra le righe, scorge quelli che saranno gli albori dello smart working.
- Del resto il ruolo del venditore è flessibile da sempre, no? - In seguito diventa consulente, per un arco temporale di due anni, ruolo che le permette di conciliare meglio la presenza dei due figli nati nel frattempo. Rientra poi in Sanpellegrino S.p.A. (assorbita dal Gruppo Nestlé già dal 1999) lavorando nelle Risorse Umane accanto ad un manager che le offre “carta bianca” per risolvere le difficoltà di conciliazione lavoro-famiglia che si evidenziavano tra le donne. Un uomo e un professionista che, a distanza di parecchi anni, definisce ancora stellare per la capacità d'innovazione e di visione. Dal 2002 al 2006 Chiara districa lentamente ma costantemente la matassa del work life balance, e affonda le maini in quello che è, ancora oggi, il tema che credo le stia più a cuore, tra i molti: il tempo.
La gestione del tempo, il valore del tempo, la struttura del tempo e le energie che un tempo ben utilizzato sprigiona.
Che ricordi hai di quegli anni?
Ricordi densi di passione, idee, proposte e confronto. Molteplici iniziative che hanno visto la luce: il progetto Primavera, inizialmente dedicato alle donne e pensato a supporto della gestione del tempo lavorativo e privato. Così è diventato lampante come la sotto rappresentazione del genere femminile, in molti e variegati ambiti lavorativi, fosse dovuta anche alla non equa possibilità di gestire liberamente le proprie giornate e di partecipare alla vita lavorativa, almeno tanto quanto lo era per la controparte maschile. Creammo un network di donne in Sanpellegrino vivace e collaborativo, pronto a ragionare, discutere, creare. Ricordo la prima corsa non competitiva in città organizzata dal gruppo, con tanto di maglietta “brandizzata”, e la riunione plenaria (ben 250 donne) organizzata in un albergo per confrontarci sullo stato dell'arte della parità (di genere) e delle opportunità che un modello di lavoro più “smart” avrebbe potuto offrire a tutt*.
Come sono andati i primissimi tentativi?
Un giorno entrando in ufficio abbiamo trovato due cartelli incollati sullo schermo del pc un paio di colleghe che stavano lavorando da remoto. “Noi ci siamo!!!”, dicevano.
- Ride -
Stavamo proponendo un delicato cambio di paradigma, non facile. Eppure le prime sperimentazioni di smart working, rivolte sia agli uomini sia alle donne, dimostrarono quanto - disporre del proprio tempo e del proprio spazio - rendesse più fruttuoso il lavoro stesso, oltre a riconsegnare a ciascun* un tempo di vita privata più gestibile e fluido.
Non è stato immediato - non lo è tuttora - scardinare dalla mente di colleghi e colleghe che una persona non presente fisicamente in ufficio sta comunque lavorando.
Non è stato scontato - non lo è tuttora - instillare il dubbio che chi lavora fino a tardi la sera rende di più. (Magari semplicemente non si sa organizzare e perde tempo in sciocchezze, soggiunge strizzando l'occhio).
La popolazione aziendale come ha reagito a questi cambiamenti?
Il supporto della Comunicazione interna è stato fondamentale.
Era necessario passare in modo chiaro il messaggio che il lavoro agile regala vantaggi non banali, umani, economici, logistico-organizzativi… a tutt*, non solo ad alcune categorie privilegiate e, importantissimo, non solo a chi lo utilizza!
Tra le soddisfazioni più grandi vorrei citare il primo contratto collettivo sindacale, ottenuto quando non esisteva ancora la Legge (pubblicata infatti successivamente come Legge 22 maggio 2017 n.8, NdR).
Risultato non banale se solo si pensa, ad esempio, ai temi della sicurezza del lavoratore e della disconnessione telematica, imprescindibili dalla postazione lavorativa. Uno dei focus di maggiore attenzione, quando è stata preparata la legge, era assicurarsi infatti che il contratto non identificasse nella persona che usufruisce del lavoro agile un lavoratore/ una lavoratrice particolare, bensì che la normativa si concentrasse sulla pratica in sé, legittimando lo smart working come una (delle) modalità di lavoro possibili e tutelate.
Infine, riuscire ad inserire nella policy aziendale le denominazioni “genitore 1” e “genitore 2” è stata un'altra conquista di quel periodo, diretta a focalizzare l'attenzione sui ruoli e non sulla vita privata di ciascun*.
E a proposito di vita privata… quando è arrivata la tua terza ed ultima figlia?
Nel 2008 insieme alla possibilità di lavorare part time, caratteristica insolita per una manager… ma, come detto, non è la quantità di tempo dedicato a fare al differenza, ma la qualità.
E poi è arrivato il Sindaco!
Esatto! O meglio, nel giugno del 2011 è arrivata la proposta, veicolata dalla giornalista Cinzia Sasso, di entrare a far parte della giunta Pisapia, che ho accettato con entusiasmo e un po' di timore… così, per cinque anni, sono stata assessora al benessere e alla qualità della vita per il Comune di Milano.
E in cinque anni si può fare molta strada. Sostituire le “o” con le “a” ad esempio.
Sai meglio di me il peso che hanno le parole, ho visto il nuovo Pay Off della rivista (because words matter, NdR) e ne sono contenta. Non è stato semplice ottenere che mi chiamassero assessora ma era un passaggio obbligato. Inoltre, lavorare nel settore pubblico non è come lavorare nel settore privato, non c'è una cultura manageriale precisa e diffusa, non si assegnano obiettivi di lavoro specifici e le carenze strutturali sono moltissime. La consapevolezza (del proprio ruolo, della propria importanza, dei propri obiettivi) non è alta e spesso anche la trasparenza dei processi lascia a desiderare. Quindi, nonostante nel settore privato lo smart working sia incappato nelle resistenze sopra citate, la fatica di trasferirlo in ambito pubblico è stata davvero notevole.
Eppure, il pubblico, è il settore lavorativo che Chiara ama maggiormente e in cui il suo senso civico trova soddisfazione. Ricordo la prima Giornata del Lavoro Agile inaugurata da lei, perché in quel momento stavo lavorando con Philips.
La ricordo anche io e dopo tre anni di sperimentazione è diventato un appuntamento consolidato. Le Giornate del lavoro Agile (perché nel frattempo “si sono allungate” e, oggi, sono supportate a livello organizzativo da ben cinque Università) sostengono, incentivano e permettono una misurazione precisa dei vantaggi dello smart working: la produttività, il risparmio dei costi, l'uso dei mezzi pubblici, il traffico, la CO2 emessa, gli orari dei negozi… Ora abbiamo la Settimana del Lavoro Agile, è un buonissimo risultato.
Cosa hai fatto dopo l'esperienza amministrativa?
Al termine del mandato e dopo un anno sabbatico, sono tornata in Nestlé come D&I Leader, ma dopo due anni il richiamo della collettività è stato talmente forte da lasciare nuovamente l'azienda per assumere il ruolo di presidente di Milano Sport, che tuttora porto avanti insieme all'attività di consulenza (naturalmente a tema di smart working e leadership femminile) e di docenza in un master D&I al Politecnico di Milano.
Cosa intendi per leadership femminile? Sai che io sono un po' restia a queste definizioni, ritengo che una leadership debba essere inclusiva e stop, al di là del genere di appartenenza di chi la conduce.
Sì… sì. In fin dei conti son d'accordo, riguardo alla femminilità: sono convinta che ci siano alcune caratteristiche che – solitamente – afferiscono alla donna su cui dovremmo migliorare ma, davvero, vorrei passasse il concetto che non siamo da “aggiustare”.
Il mio mantra è stop fixing women! L'idea che ci sia qualcosa in noi che non va, ed è da sistemare, mi ha davvero stufata. Non c'è un'ideale, né maschile né femminile, a cui mirare. Semplicemente, nella formazione sulla leadership, credo sia essenziale creare consapevolezza riguardo al tema dell'equità, sensibilizzare le donne su quanto sia importante trasformare in punti di forza quelle che, talvolta o spesso, ci vengono restituite come debolezze. È poi fondamentale delineare un quadro dello stato dell'arte della parità comune e condiviso, perché la situazione è in continuo cambiamento.
Tema caldo: dimmi cosa pensi dei detrattori dello smart working, soprattutto durante/dopo l'emergenza Covid-19.
Penso che questa crisi mondiale abbia generato uno scarto fortissimo e, forzando la diffusione della pratica ,ha dimostrato come non era mai stato fatto finora che il lavoro agile è fattibile e utile. Il test - cui siamo stati sottoposti - ha retto. Indubbiamente, però, lo strumento utilizzato in questi difficili mesi non è uno smart working “puro”, bensì annacquato in quanto coatto e continuativo. Due caratteristiche lontanissime dall'idea originaria di lavoro agile. Il lavoro agile è una scelta che va presa e per aiutare le persone a comprenderla bisogna ricollocarlo nella narrazione pubblica. Va rispiegato, raccontato meglio, diffuso con attenzione e precisione. È sostenibile su scala nazionale e questo ci dà un'occasione unica e, forse, irripetibile. Potrebbe creare un nuovo, virtuoso equilibrio tra nord e sud. Tra periferia e città. La geografia dell'intero Paese potrebbe essere ripensata: cosa ce ne facciamo, ora, dei grattacieli costruiti in città per ospitare centinaia di dipendenti, quando abbiamo scoperto che si può lavorare da dovunque e con migliori risultati?
Il nodo centrale, quindi, qual è?
Questo. In molti dicono che non tutti possono usufruire del lavoro agile – ad esempio a causa delle proprie mansioni specifiche – e, quindi, che non è da considerarsi un'opportunità democratica spendibile per la collettività. In realtà, il valore dello smart working è proprio questo almeno, questo dovrebbe essere): il plusvalore che si crea (e mi sto riferendo proprio agli “utili”) grazie al fatto che alcune persone possono beneficiare di una modalità di lavoro differente, va ridistribuito a tutt*. Ovvero sia a coloro che l'hanno generato “lavorando agile”, sia a chi non ha potuto. È un cost saving che deve ricadere sulla collettività intera (aziendale o pubblica che sia).
Sono convinta che si possa fare; un'operazione del genere coinvolgerebbe una massa critica enorme, preziosa anche per raccogliere critiche, suggerimenti, migliorie da quante più voci e parti in causa possibili. Dobbiamo darci da fare, this change everything!