Intervista a Alessia Mosca
È nella sede di Italia-ASEAN in Corso Buenos Aires che incontro Alessia Mosca, classe 1975. Laureata in Filosofia e PhD in scienze della politica, è stata europarlamentare fino a maggio 2019, oggi è se gretario generale di Italia-ASEAN e invited professor a SciencesPo di Parigi, dove tiene un corso in European Trade Policy. Pochi giorni fa nel nostro Paese è stata prorogata una legge a cui Alessia Mosca ha dato i natali e che, a mio modestissimo parere, ha scavato una linea di fuoco nella tradizione della cultura – aziendale, ma non solo – italiana. Vediamo perché.
Ci sono alcune leggi, dette “leggi temporanee”, destinate ad operare per un periodo limitato di tempo, la cui vigenza è sottoposta ad un termine prefissato, scaduto il quale cessano di esistere (senza bisogno di una legge abrogativa).
È questo il caso della legge 120/2011 Golfo-Mosca, entrata in vigore il 12 agosto 2011 e programmata per “spegnersi” nel 2022. Cosa prevedeva? Che gli organi sociali (CdA) delle aziende quotate e partecipate fossero rinnovati riservando al genere sottorappresentato una quota di almeno 1/5 dei propri membri. Per aumentare poi al secondo e terzo rinnovo, diventando di almeno 1/3. E in caso di totali non divisibili, l’arro tondamento doveva avvenire per eccesso, a favore del genere meno rappresentato. (1/3 di 11 consiglieri non è 3 bensì 4). Impatto previsto su circa 300 grandi Aziende quotate, più altre 6.500 tra controllate e partecipate pubbliche.
Potete immaginare lo spavento. Eppure la legge fu approvata. Il resto è storia.
Pochissimi giorni fa, il 5 dicembre, è stato approvato alla Camera il decreto fiscale collegato alla legge di Bilancio con cui si è deciso, anche, di prorogare la legge “Golfo-Mosca” (che sarebbe scaduta tra due anni).
Ecco quindi la prima domanda per Alessia Mosca, la parlamentare che insieme a Lella Golfo, otto anni fa, diede vita alla legge che ne porta i nomi.
Capita spesso che si renda necessario porre un limite temporale ad una proposta di legge?
No. Anzi, a mia memoria questa è una delle pochissime leggi nate così, forse l’unica, recentemente. La sua durata limitata è uno dei motivi per cui ha ottenuto ampio consenso. Ed io resto una forte sostenitrice di questa caratteristica.
E allora chiedo subito: perché una richiesta di proroga?
Otto anni fa, quando la legge ha visto la luce, avevamo immaginato che dieci anni fossero un tempo sufficiente per far sì che maturassero nel Paese cambiamenti strutturali tali e profondi da diventare irreversibili. In verità, nel corso del tempo abbiamo cambiato idea, principalmente per due ragioni: la prima è che, a conti fatti, i momenti in cui le aziende avrebbero incontrato la legge sul proprio cammino sarebbero stati 2 o 3 al massimo (ad ogni rinnovo di CdA), quindi nonostante la scadenza decennale della direttiva, i momenti di confronto con la norma sarebbero stati pochi per sfidare e modificare una cultura fortemente radicata, come quella italiana.
La seconda motivazione è l’aver visto che il cambiamento qualitativo e quantitativo portato dalla legge non è stato accompagnato, ahimè, da un cambiamento altrettanto significativo in altri ambiti: il management spesso è andato “in stallo”, la partecipazione delle donne al mondo del lavoro è altalenante, la rappresentazione pubblica dell’immagine femminile è addirittura peggiorata.
In sintesi, quindi, la mancanza di un cambiamento nel sistema avrebbe potuto minare i risultati positivi che l’attuazione della legge aveva (ha) portato.
Per tutti questi motivi la proroga era necessaria ed è stata sostenuta da molte e molti.
Quali risultati tangibili ha dato la legge in questi otto anni?
Quantitativamente i risultati ottenuti hanno superato i limiti che la legge aveva imposto, oggi la presenza di donne nei CdA è del 37% (prima della legge rasentava il 6%, eravamo il Paese con la percentuale più bassa in Europa).
Oggi siamo diventati un caso di studio mondiale per la rapidità con cui è avvenuto il cambiamento, anche grazie alle sanzioni molto dure per chi non adempie l’obbligo (sanzioni che sono state mantenute nella proroga).
La legge 120/2011 è una tra le più studiate e analizzate nella storia della giurisprudenza italiana e non lo dico con sarcasmo: è stato un bene! Questa attenzione ci ha dato oggi la possibilità di riproporla con forza e convinzione.
Qualitativamente i risultati ottenuti sono ancor più sorprendenti, poiché i CdA ne hanno beneficiato a tutto tondo. L’avvento delle donne nei boards ne ha abbassato l’età media, ha innalzato il livello di preparazione/educazione, ha aumentato il grado di esposizione internazionale, ha inciso sulla componente maschile rendendo i processi di selezione più trasparenti e fluidi.
La qualità della governance (come dimostrato dal XVmo rapporto dell’Osservatorio di The European House – Ambrosetti sull’Eccellenza dei Sistemi di Governo in Italia) è salita proprio in concomitanza con l’introduzione della legge. Infine, uno studio Consob del novembre 2018 per la prima volta ha correlato i fattori di performance economici delle aziende con la nuova composizione dei CdA, ottenendo un punteggio positivo da tutte le combinazioni di indicatori.
Avete quindi sfatato il mito della donna che rallenta il business dell’azienda…
Esattamente.
C’erano margini per eludere l’obbligo di legge?
Nessuna possibilità. Alle aziende quotate in Borsa è già richiesta una totale trasparenza nella rendicontazione e così è stato anche per l’elezione dei CdA. Per le Società partecipate (che sono migliaia in Italia e non ne esisteva alcuna mappatura!) avrebbe potuto sorgere qualche problema data la complessità del monitoraggio ma, presso la Presidenza del Consiglio - Dipartimento Pari Opportunità, è stato istituito un osservatorio che raccoglieva le (molte) segnalazioni di casi di inadempienza. L’intervento di Consob prevedeva lo scioglimento dell’organo di consiglio e la successiva rielezione del CdA.
Quanto è stato necessario e – direi – imperativo plasmare una legge del genere?
Totalmente. Altrimenti il cambiamento auspicato sarebbe giunto, forse, tra cent’anni e portando un aumento percentuale di rappresentanza decisamente minore. Tradizionalmente nel nostro Paese i CdA sono luoghi piuttosto opachi dal punto di vista delle nomine, che procedevano quasi per inerzia; il meccanismo delle quote (che, va ricordato a scanso di polemiche, considero un mezzo e non un fine) ha avuto l’effetto di uno shock e ha squarciato i precedenti meccanismi, automatismi.
E in virtù dei risultati ottenuti, quando i fatti sono venuti a supporto di quelle che erano le nostre aspettative originarie, molte persone (anche donne) contrarissime all’utilizzo delle quote si sono ricredute e oggi “i convertiti sono più accaniti dei sostenitori iniziali”… come spesso accade nelle religioni!
Immagino che all’interno dei CdA l’omologazione non fosse solo di genere.
No, infatti. Quindi, sempre più, accettare le differenze come elemento di arricchimento è valso e vale per tutti gli aspetti della cosiddetta diversity.
Pensi ci siano altre questioni di genere che, oggi, avrebbero bisogno di una proposta di legge “shock” in Italia?
Sì. Ad esempio, una legge che preveda un congedo di paternità obbligatorio retribuito di due settimane potrebbe dare un bel colpo di reni alla società, all’economia, agli equilibri.*
Sono convinta di questo: per far sì che la cultura cambi radicalmente in ambito lavorativo occorre che muti l’approccio di come viene considerato il lavoratore (e la lavoratrice), con una lente totalmente neutra rispetto alla sua appartenenza di genere.
Deve diventare “la norma” che lavoratori uomini o donne possano godere del rispetto dei loro tempi oltre l’ufficio. Non funziona per tutti il modello di lavoro 9.00-17.00, ma nemmeno deve essere accettabile aspettarsi la reperibilità 24/7 del dipendente, chiamato a essere sempre pronto, a rispondere alle email la notte o a attardarsi alla scrivania ben oltre il proprio orario.
Deve diventare inopportuno programmare riunioni senza dichiararne l’orario di chiusura o dare per scontato che possano sempre iniziare molto tardi nella giornata lavorativa.
Come deve diventare quasi scontato che sia possibile per i padri, come per le madri, assentarsi dal lavoro per accompagnare il figli dal medico o a scuola, per esempio permettendo e incoraggiando una diversa gestione degli orari di lavoro, senza che si venga penalizzati per questo.
Non si tratta di fantasie, ma di prassi già consolidate in molti paesi europei, per guardare vicino a noi.
Ti faccio un esempio: in Olanda chi resta alla scrivania troppo e troppo spesso oltre le proprie ore di lavoro è visto come incapace di organizzarsi. Quindi questo atteggiamento diventa penalizzante, un po’ l’opposto di quello che spesso succede in Italia. Ed è comune poi definire con il datore di lavoro la modifica o riduzione del proprio orario, magari solo per un periodo o per necessità particolari.
*[Ndr. Ricordiamo che per l’anno solare 2020, l’articolo 1, comma 342, della legge 27 dicembre 2019, n. 160 (legge di bilancio 2020) ha aumentato a 7 il numero dei giorni di congedo di paternità obbligatorio (per nascite, adozioni, affidamenti); e ha confermato la possibilità di fruire di 1 giorno di congedo facoltativo in alternativa alla madre.]
Chiarissimo. È per questo stesso motivo che lo smart working non è uno strumento di conciliazione rivolto e utile solo alle donne, bensì a coloro che lavorano.
Inoltre, rendere lungo e obbligatorio il congedo di paternità, sancirebbe una grande verità: quando nasce un/una bambino/a nella vita di un uomo cambia qualcosa anche a livello sociale non solo personale. Consapevolezza non sempre scontata in azienda.
Esatto. Su queste tematiche servirebbe una strategia all in. Non è sufficiente intervenire in modo frammentario, bisogna attivare un sistema d’inclusione a tutto tondo. Concedimi uno sbotto: basta proporre asili nido aziendali come esempio di “politiche per le donne”! Non è questo il tema. E poi, che senso ha la dichiarazione stessa “politiche per le donne”? … Insomma, il cambiamento non può venire solo dalle Istituzioni e dal Legislatore ma implica un coinvolgimento dell’organizzazione aziendale, delle abitudini di stakeholder e clienti… tutti devono essere ingaggiati e coinvolti.
Le Istituzioni, indubbiamente, hanno il compito di tracciare la rotta e promuovere il cambiamento ma questo non risolve tutto.
Quindi le leggi di un Paese devono anticipare il cambiamento culturale o esserne la conseguenza?
Penso che il Legislatore e le Istituzioni debbano avere un ruolo anche pedagogico. Non possono riflettere in toto la cultura di un Paese, anzi. Devono svolgere una funzione collettiva nel fornire regole per tutt*, limitando l’espressione di un esasperato individualismo per perseguire un bene comunitario. Un esempio: la normativa contro il fumo del 16 gennaio 2003 (n. 3 art. 51, Ndr). La società era pronta per un tale salto di qualità? Per niente! Eppure era necessario imporlo. Oppure l’obbligo delle cinture di sicurezza in auto…
Ho un’ultimissima domanda. Lo stereotipo di genere, sugli uomini, è molto più radicato, più pesante e meno conscio rispetto a quello che pesa sulle donne, eppure se ne parla meno. Hai in mente proposte di legge che potrebbero aiutare a sbrogliare la matassa?
Purtroppo in Italia siamo molto arretrati in materia, pregiudizi e stereotipi condizionano tremendamente i ruoli. Dovrei rifletterci parecchio ma non dimenticare che se un cambiamento è migliorativo per un genere non danneggia automaticamente l’altro. Anzi!