DecadesCover story

Intervista a Adele Cambria

A cura di Valentina Dolciotti
01 Set 2021

La prima volta che ho incontrato gli occhi azzurri di Adele è stato sul pianerottolo di casa sua, a Roma, in via de’ Pettinari, parecchi anni fa.
Ero accaldata, zaino in spalla e un mazzetto di girasoli in mano, presi per ringraziarla dell’ospitalità. Adele aspettava all’ultimo piano del palazzo, davanti all’ascensore: quando si sono aperte le porte, mi ha sorriso.
Da quel momento ho avuto accesso al “meraviglioso mondo di Adele”, fatto di incontri, racconti, libri, scambi email, serate a teatro e pranzi in terrazza che oscillavano tra tempo passato e tempo presente: nata in una torrida estate calabrese, nel 1931, l’infanzia di Adele si è srotolata negli anni ’30 a Reggio Calabria. Aveva solo quattordici anni quando, da una finestra socchiusa, , ha intravisto i soldati americani attraversare la città nel giorno della Liberazione.
Fu l’ostinato desiderio di studiare per diventare giornalista a farle lasciare il Sud (“Tornerò, ma da turista”, diceva sin da ragazzina). Ma, per studiare, era necessario prendere il traghetto tutti i giorni e recarsi alla Facoltà di Messina (accompagnata dalla madre: non era opportuno che una ragazza viaggiasse da sola), allontanandosi già da una Calabria che, in quegli anni, non aveva né quotidiani né università.

Adele desidererebbe studiare Lettere ma, con la lucida visione che l’avrebbe per sempre guidata, capisce che non è la strada più breve per andarsene da casa. “Sarei rimasta incastrata lì, a fare la supplente nei paesini di periferia, in eterno”, così decide per la Facoltà di Giurisprudenza.
A 22 anni, conseguita la laurea (magna cum laude), Adele fa domanda per il concorso pubblico in Magistratura, ma la risposta che riceve dopo alcuni mesi è lapidaria: ha tutti i requisiti per partecipare, tranne uno: il sesso maschile. Infatti, prima del 1963, la Legge italiana precludeva alle donne la carriera di magistrato in quanto “inadatte al giudizio e all’equilibrio e soggette alla capacità di commozione.” Testualmente.

Ma Adele è ostinata, coraggiosa e scaltra: nel 1955 lascia la Calabria (caso più unico che raro, il suo, negli anni del caso Wilma Montesi) con il permesso di trasferirsi a Roma per partecipare a un concorso Inps per neolaureati/e in Legge. Armata di macchina da scrivere e borsa di vernice nera zeppa di articoli, persegue imperterrita l’obiettivo di diventare giornalista.

E giornalista diventa, una delle pochissime giornaliste in Italia alla fine degli anni Cinquanta, insieme alle grandissime Camilla Cederna e Oriana Fallaci.
…Ma solo io ho avuto il coraggio di fare due figli”, amava sottolineare sorridendo, ma non scherzando.
Proprio insieme alle due scrittrici la ritroveremo, alcuni anni dopo, intervistata dall’amico Pier Paolo Pasolini in “Comizi d’amore” (1965).

Adele si butta a capofitto nel lavoro, visita le gallerie d’arte (“Erano gli unici posti a cui potevo accedere anche senza invito”), incontra e frequenta intellettuali, scrittrici, editori, artiste.
Inizialmente scrive pezzi di costume e moda (unici argomenti accordati alle donne dalle redazioni) ma, piano piano, i suoi interessi crescono, lo sguardo si affina e la penna diventa inarrestabile.
Il primo articolo per un settimanale nazionale è edito da “Il Borghese” di Leo Longanesi nel 1955, dove tratteggia con sarcasmo e ironia le ragazze “bene” di Reggio Calabria. Per questo articolo verrà offesa in prima pagina da un settimanale calabrese vicino alla DC, mettendo in dubbio la virtù della neo-giornalista. Si insinua infatti che la sua presenza in un giornale così importante (Il Borghese, appunto) non sia dovuta esclusivamente alla competenza (allora, come oggi, il discredito di una donna in ambito professionale passa per ciò che di professionale non ha nulla). Il padre di Adele ne soffre terribilmente e decide di querelare il giornalista.
(La famiglia Cambria vincerà la causa; Adele chiederà, a titolo di risarcimento simbolico, 1 lira: che classe!).
Ma le querele continuano. Diciannove solo nel primo anno di praticantato! Adele prende alla lettera l’incarico datole dal Direttore Baldacci: “Cambria, lei vada, veda e scriva”. E lei, senza filtri e senza fronzoli, obbedisce.
Nei primi mesi tollera l’obbligo di firmare gli articoli con lo pseudonimo maschile Leone Paganini ma, con il passare del tempo, diventa “una firma” conosciuta e lavora per testate sempre più rilevanti quali Il Giorno, di Enrico Mattei (diretta da Gaetano Baldacci), importantissimo quotidiano che ha il merito di aver svecchiato la stampa italiana; Il Mondo (di Mario Pannunzio), Paese Sera, La Stampa, Il Messaggero, L’Espresso…

Adele coglie gli ultimi guizzi della società letteraria romana e ci si tuffa: è l’unica “gazzettiera” ammessa al tavolo di Elsa Morante, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Goffredo Parise, Luchino Visconti…

È il 1969 quando “torna a casa” per la prima volta, dopo quindici anni di lontananza, e lo fa per lavoro: vuole seguire la rivolta in atto nella sua terra, quella sollevazione popolare passata alla storia come “I cento giorni di Reggio”, scatenata dalla disputa tra Catanzaro e Reggio Calabria per l’assegnazione del Capoluogo. Una guerriglia urbana durata più di tre mesi che Adele segue per conto de l’Europeo, prestigioso settimanale, con il quale collabora (dopo aver rifiutato di diventarne Redattore inviato perché ha due figli e un divorzio sulle spalle).
In quell’occasione conosce e diventa amica di Adriano Sofri, condividendone il punto di vista sulla rivolta: l’articolo di Adele non supporta, perciò, il disconoscimento che la sinistra mostra nei confronti dei moti calabresi, lei non pensa si tratti di un rigurgito fascista, bensì di una ricerca d’identità… ma il suo scritto viene censurato e Adele allora decide di dimettersi. Questa non è la prima né l’ultima volta in cui, per principio o per solidarietà con altri/e, deciderà di rassegnare le dimissioni da una testata giornalistica.
A proposito di principi etici, giornalisti e dimissioni, invito tutti/e a leggere uno dei suoi ultimi libri, forse il più bello e ironico. L’autobiografia dal titolo Nove dimissioni e mezzo, [Donzelli editore, 2010], in cui tratteggia con maestria e sarcasmo l’alto prezzo che è necessario pagare per essere giornaliste e cittadine guidate dalla deontologia professionale e dalla coscienza. 
La carriera giornalistica di Adele va dagli anni Sessanta fino al 2015. Eppure… Adele Cambria non è rinomata come altre giornaliste del suo tempo. C’è chi non l’ha mai sentita nominare. È una donna che non ha fatto scalpore, non ha spintonato per far carriera, non ha “fatto le scarpe” a nessuno. È stata sobria, di una sobrietà elegante e paziente. 
Vorrei poterla definire “donna d’altri tempi”, ma sarebbe il peggior torto che potrei farle, poiché nessuna più di lei ha saputo essere contemporanea.
Contemporaneo, infatti, è “colui o colei che appartiene, vive e opera nell’età presente.”
E così, Adele è stata una madre amorevole anche quando essere madre significava smettere necessariamente di lavorare; è stata una lavoratrice appassionata quando questo significava, necessariamente, trascurare i figli.
È stata moglie ed ex moglie; è stata femminista quando il diritto all’autodeterminazione delle donne non era nemmeno preso in considerazione, ed è scesa in piazza per il diritto all’aborto e al divorzio quando il maschilismo e il patriarcato erano la prassi. 
È stata Direttrice responsabile del quotidiano “Lotta continua” negli anni Settanta, quando l’omicidio di Luigi Calabresi e l’articolo scritto da Adriano Sofri le costarono un processo per direttissima per apologia di reato e il ritiro del passaporto per sette anni.
È stata cofondatrice della Casa Internazionale delle Donne (che ha vinto il contenzioso con il Comune di Roma proprio tre giorni  fa, il 18 settembre 2021, e che, quindi, resterà “tranquilla” nella sede di Via della Lungara per un bel po’). E’ stata tra le fondatrici del teatro La Maddalena, insieme a Dacia Maraini e molte altre, e Direttrice responsabile di "Effe", settimanale di controinformazione al femminile.
E’ stata la prima in Italia a scrivere di procreazione assistita su un settimanale; il suo spettacolo teatrale “Nonostante Gramsci” arrivò in cartellone sino a New York. Ha recitato in due film di Pasolini (Accattone, del 1961 e Teorema, del 1968), è stata autrice di quattordici libri e di migliaia di interviste. Così era Adele. Sempre sul pezzo. Contemporanea.

Quando ero incinta di mia figlia ho trascorso l’estate a Roma, a casa di Adele, per lavorare insieme all’editing di un libro, mentre il mio futuro marito attraversava a piedi l’Italia. La mattina mi alzavo e lei era, ovviamente, già pronta. C’è chi si sveglia presto per comprare il pane. Adele comprava il giornale. O meglio, ne comparava tre: La Repubblica, Il Messaggero, L’Unità. (Ah, dimenticavo: Adele scrisse anche per l’Unità dal 2003 fino all’aprile 2009).
Leggeva, sottolineava i passaggi e li disponeva su un grande tavolo in corridoio, dopo aver posizionato vari postit utili a ritrovare gli articoli in ogni momento.
La trovavo in cucina, con una radiolina accesa nella tasca della vestaglia, che ascoltava la rassegna stampa bevendo una tazzina di caffè. Sorrideva e diceva “Buongiorno care”, rivolgendosi sia a me che al pancione, “ora mettiamoci al lavoro”.
Il ricordo di quell’estate romana, quell’ultima estate da non madre che apre a così tante sensazioni e riflessioni, è fatto di moltissime risate, di gelati al limone comprati dal siciliano sotto casa, di serate a teatro (ricordo, in particolare, una lettura di Iaia Forte ai giardini della fontana dell’Acqua Paola, sul Gianicolo), di Adele spericolata alla guida tra i viali della capitale (senza mai ingranare la seconda), di puntate di Ballarò la sera sul divano, di cene casalinghe con gâteau di patate e sgaloppine al vino bianco.
“Adele, si dice scaloppine”
“Scaloppine? Ma sei sicura?”
“Abbastanza”
“E scaloppine sia”

Ora che Adele non c’è più, ci manca, mi manca. Mi manca la sua capacità di essere contemporanea. Umana. Divertente. Pensarla e ripensarla oggi non muta la mia idea di lei, la rende solo più tenera e nostalgica. Vorrei avere il suo parere su un tale numero di questioni; vorrei ascoltarla raccontare di quando ha intervistato Cocteau, Fellini, Sartre, Susan Sontag, Peggy Guggenheim (in gondola),… di quando a 18 anni ha assistito a una Traviata con Maria Callas in carne e ossa e voce o della sua amicizia con Goliarda Sapienza o ancora di quando, a Milano, la sua vicina di stanza era Anna Maria Ortese e, di notte, la sentiva piangere.
Ho tantissimi ricordi di Adele e in tutti c’è la sua voce che narra, i suoi occhi che scrutano, arguti e limpidi. Custodisco stralci di racconti che non possono essere ancora condivisi, non qui. Una foto di mia figlia appesa sull’anta dell’armadietto della sua cucina, il cui pensiero mi commuove ogni volta.
Dedicare la cover story a qualcuno che non c’è più non è facile, e men che meno incasellare la relazione con Adele; moltissimi anni separavano la sua nascita dalla mia, in azienda questa amicizia prenderebbe forse il nome di “reverse mentoring”…
Ma lei amava definirmi/ci “il mio pezzo di famiglia del nord”, e penso sia questa la descrizione che amo di più.

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