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INTERCULTURA E GLOBALIZZAZIONE

La saggezza è saper stare con la differenza senza voler eliminare la differenza Gregory Bateson
A cura di Lucilla Rizzini
02 Apr 2018

È possibile restare diversi nell’era dell’industria 4.0? La globalizzazione, la tecnologia sopra ogni cosa, consentono ancora di poter stare nella differenza senza eliminarla?

Sono fortemente convinta di sì.

È vero, viviamo nell’era della globalizzazione e questo processo, ormai irreversibile, vede tutti noi protagonisti.

È vero anche che l’incontro tra realtà diverse non sempre è facile, fluido; differenze culturali alla base, possono creare intoppi o innescare conflitti sia in ambito locale che tra relazioni di business internazionali.

Nonostante le proporzioni senza precedenti, il processo di globalizzazione in corso presenta molte analogie con l’intensa attività economica internazionale registrata tra il 1850 e il 1914. Le origini di tale fenomeno, però, sembra siano ancora più antiche. Possiamo dire che già a partire dal XVI secolo vi furono intensi scambi tra Cina, Occidente e mondo turco/islamico. Tuttavia, solo a partire dal XIX secolo iniziò a realizzarsi un processo di unificazione coadiuvato dalla rivoluzione industriale. Dopo le prime resistenze doganali di Inghilterra, Germania, Francia e Stati Uniti, e dopo il dopoguerra e la crisi del ‘29, la globalizzazione è, ormai, fenomeno destinato a durare. Dal 1989 in poi tale processo ha ricevuto una fortissima accelerazione e ha confermato il verificarsi della profezia di McLuhan, del 1964, inerente l’avvento del “villaggio globale”, riconoscendo anche caratteri non del tutto positivi.

Da allora l’economia di mercato o capitalistica, propria dell’Occidente, si è vista aprire nuovi spazi, quelli del colosso sovietico e del lontano Oriente. Il modello della globalizzazione è, quindi, risultato un modello vincente e tendenzialmente universale.

Due sono gli elementi da prendere in considerazione parlando di globalizzazione: possiamo distinguere, infatti, tra globalizzazione di conoscenze e globalizzazione di prodotti.

La prima, grazie alle incredibili conquiste della tecnologia, ha creato condizioni per cui informazioni di diversa natura sono trasmesse da un angolo all’altro del mondo, in tempo reale.

Un avvicinamento virtuale di tutte le popolazioni della Terra.

La seconda consiste nella circolazione, a livello mondiale, di beni prodotti da Aziende ed è finalizzata alla ricerca di profitto.

Si ha, quindi, una globalizzazione del prodotto resa possibile dal processo di deculturazione, ove l’articolo perde i propri confini culturali e statali.

Se, realmente, siamo dinnanzi ad una perdita di identità culturale, ciò significa che questa ha ceduto il passo ad una civiltà universale? A livello mondiale, quante persone condividono una civiltà universale?

Secondo il sociologo Baumann, solo un’élite intellettuale transnazionale, la cosiddetta “classe dei turisti”, si aggrega liberamente in quella che potremmo definire una civiltà universale.

Civiltà universale o diversità culturale, quindi?

L’Unesco definisce la diversità culturale come il patrimonio comune dell’umanità. “La cultura assume forme diverse attraverso tempo e spazio. Questa diversità s’incarna nell’unicità e nella pluralità delle identità di gruppi e società che costituiscono l’umanità. Come fonte di scambio, innovazione e creatività, la diversità culturale è necessaria per l’umanità quanto la biodiversità per la natura. In questo senso, è patrimonio comune dell’umanità e dovrebbe essere riconosciuta e affermata per il bene delle generazioni, presenti e future ”Per cogliere l’imprescindibilità della diversità culturale è necessario riprendere il significato reale dei termini cultura e inter cultura.“

La cultura di un gruppo è l’insieme delle caratteristiche che distinguono i suoi membri da quelli di un altro gruppo.

”Quali sono queste caratteristiche comuni?

Troppo spesso la nazionalità è l’unico fattore preso in considerazione per definire la cultura di uno o più individui. Nulla di più fuorviante.

Parlare di italiani, americani, indiani, cinesi, ecc. è estremamente limitante rispetto alla pluralità di variabili che definiscono la diversità culturale di una persona, o di un gruppo di persone.

Come coach interculturale vorrei porre attenzione sulla dualità esistente tra cultura implicita ed esplicita, laddove la prima identifica l’insieme di norme e valori quali ideali condivisi da un gruppo, la seconda artefatti e prodotti di una cultura (linguaggio, alimentazione, usi e costumi).

Nella mia lunga esperienza di export manager in Paesi molto diversi tra loro, ho sperimentato come non esista garanzia di interpretazione degli atteggiamenti altrui in base a schemi predefiniti e come, di conseguenza, sia importante isolare – temporaneamente – le proprie frameworks per poter sentire e accogliere la diversità nell’approccio ad una cultura “altra”.

In questo quadro, appare ovvio che la diversità culturale altro non è che una gamma di opzioni posta alle basi dello sviluppo individuale e collettivo: sviluppo intellettuale, morale, emotivo, spirituale e anche economico.

L’Unesco sottolinea come “… la diversità tra esseri umani è una componente dell’uguaglianza, in un certo senso, perché è essa stessa un diritto”.

Tuttavia, purtroppo, basta porsi in osservazione per appurare quanto il mondo in cui viviamo non la consideri, purtroppo, una ricchezza, ma piuttosto una forma di inferiorità, inadeguatezza, disadattamento… e spesso la prima forma di confitto.

Come possiamo, quindi, trasformare la diversità in valore? Davanti a una diversità, quasi sempre l’emozione prende il sopravvento. Il disagio di fronte a qualcuno differente da noi (per orientamento sessuale, religione, stato sociale, ecc.) porta a distogliere lo sguardo, realmente o metaforicamente, ad evitare contatto e confronto per paura di destabilizzare cultura, valori, convinzioni… noi stessi.

Eppure, la diversità culturale è il principale elemento d’identità personale, unica forma di resistenza all’appiattimento culturale del sistema occidentale. Solo riconoscendo il diritto ad essere diversi, ad essere riconosciuti come tali, rivendichiamo il nostro essere unici. Le parole di Charles Taylor, in chiusura, ci inducono a un viaggio che volge allo scardinamento di ogni

paura del confronto: “La premessa di fondo […] è che il riconoscimento forgia l’identità: i gruppi dominanti tendono a consolidare la propria egemonia inculcando nei soggiogati un’immagine d’inferiorità. Perciò, la lotta per la libertà e l’uguaglianza deve passare per una revisione di tale immagine”.

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