Il privilegio è tutto mio?
Quando parliamo di privilegio parliamo di diseguaglianza tra chi il privilegio lo ha e chi non lo ha, e quindi di una gerarchia, tra chi è sopra e chi è sotto, tra chi domina e chi subisce quel dominio.
J.-J. Rousseau si chiese da dove origini la diseguaglianza nel suo Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini: in un ipotetico stato di natura le persone erano tutte uguali; è stato il linguaggio a rendere possibili le astrazioni, le distinzioni e quindi le categorizzazioni che portano a costruire gerarchie. Quello stesso linguaggio che poi viene usato per dissimulare le strutture di potere e dominio, così da mascherarle e renderle invisibili, come in tempi più recenti ci hanno ricordato M. Foucault e P. Bourdieu.
Bourdieu, in particolare, nota che gli individui competono nella società per difendere, incrementare e tramandare le proprie dotazioni di capitale, nelle sue diverse forme (non solo il capitale economico, ma anche quello relazionale, culturale, simbolico, ecc.). Il privilegio è conseguenza della detenzione del capitale. Tra le strategie di difesa, incremento e trasmissione del capitale spicca, per Bourdieu, l’arte della distinzione, ossia la capacità di distinguersi – in base ai dispositivi più diversi (l’abbigliamento, il modo di parlare, lo stile di vita e di nutrirsi, gli sport praticati, le letture, i prodotti culturali consumati) – da chi possiede una dotazione inferiore delle medesime specifiche forme di capitale. Il privilegio, secondo questa lettura, non ha una dimensione solo statica ma anche una dinamica, che passa per strategie comportamentali ben precise di distinzione: il loro scopo è escludere altre persone per difendere o incrementare le dotazioni di capitale e dunque il privilegio a esse connesso. Queste strategie sono per lo più sottili e impalpabili, spesso simbolicamente rappresentate come dati di natura o ineluttabili, possono annidarsi in sfumature dei comportamenti, sono inscritte nei corpi sotto forma di habitus: per questa ragione è difficile smascherarle e non di rado ne sono inconsapevoli non solo coloro che appartengono al gruppo senza privilegio ma anche chi il privilegio lo ha. A. Honneth si è concentrato su una di queste pratiche: il disprezzo e il mancato riconoscimento, il rendere invisibili alcune caratteristiche delle persone. L’alleanza è una pratica che può scardinare i meccanismi più o meno invisibili di difesa e incremento del privilegio. Ma perché un agente sociale dovrebbe rinunciare ai propri privilegi? Possiamo immaginare che non si tratti solo di altruismo. Innanzitutto c’è la responsabilità nei confronti dell’Altro (Autrui) che incontriamo nella sua irriducibile alterità, il cui appello non può non riguardarci (Levinas).
C’è poi il tema della costruzione di un mondo comune con la collettività di persone che ci circondano. Per H. Arendt, solo voci diverse messe in dialogo tra loro possono creare il mondo comune: se qualcuno non partecipa a questa costruzione è il mondo comune a risultare impoverito. S. de Beuavoir ha scritto che per essere libero (ossia per poter assumere positivamente il proprio progetto di esistenza) qualsiasi individuo deve poter contare sulla libertà degli altri individui perché “non si può rivelare il mondo se non su uno sfondo di mondo rivelato dagli altri uomini”. Il tema del privilegio e delle alleanze è centrale nel diversity management. Probabilmente non è possibile sterilizzare tutte le infinite strategie attraverso le quali il privilegio è difeso o accresciuto ma si può tematizzarlo, perché se ne abbia almeno una consapevolezza condivisa e diffusa. Il diversity manager è inoltre chiamato a stimolare pratiche organizzative di riconoscimento del valore specifico di ciascuna persona. A. Honneth – nel cui pensiero, come detto, il tema del riconoscimento è centrale - ha messo in luce come questo riconoscimento debba: (i) avere lo scopo di “mobilitare asserzioni valoriali al passo coi tempi” per valorizzare la persona e non per renderla più docile alle istanze dei gruppi dominanti; (ii) non essere solo a parole ma concretizzarsi nella pratica. Terzo spunto: occorre stimolare nello staff la presa di consapevolezza che l’alleanza coi gruppi svantaggiati arricchisce tutta la comunità di lavoro e chiunque ne sia parte; in un mondo comune più sfaccettato e articolato, infatti, la libertà di ciascuna persona si potrà esprimere in maniera più creativa e aderente al suo progetto singolare.