IL POTERE DEL LINGUAGGIO - Usate nel modo giusto, le parole possono creare un ambiente sicuro e rispettoso, per tutti
Luciano Costantino
Il linguaggio ha il potere di influenzare come vediamo le cose e, quindi, di dare forma alla realtà che ci circonda. Non si può avere inclusione a prescindere dal linguaggio poiché un linguaggio non appropriato o non inclusivo, crea divisione. L’inclusione dunque passa dal linguaggio. Partiamo dal presupposto che il linguaggio inclusivo è fatto di parole che permettono di arrivare ad un pubblico più ampio, in vari contesti e nel totale rispetto delle diversità. Linguaggio inclusivo vuol dire anche e soprattutto fare in modo che tutte le persone a cui parliamo si sentano rispettate e accettate. Poiché le parole sono importanti, il significato che attribuiamo ad esse riesce ad influenzare le nostre sensazioni, i nostri comportamenti e persino le nostre convinzioni. La maggior parte dei nostri pregiudizi, anche quelli inconsci, nascono infatti dal linguaggio che usiamo o a cui siamo abituati. In tal senso gioca un ruolo fondamentale il contesto familiare e culturale da cui proveniamo. Per esempio, crescere in una famiglia che costantemente usa parole peggiorative nel descrivere una situazione ci renderà inevitabilmente avversi ad essa, perché nel nostro percorso educativo vi abbiamo sempre associato una connotazione negativa che, quindi, per noi costituisce la sola realtà possibile. Fortunatamente, c’è qualcosa che possiamo fare, da adulti responsabili: cambiare il nostro linguaggio. Questo ci permetterà di cambiare anche la visione delle cose.
La persona prima di tutto
In ogni nostra interlocuzione dobbiamo tenere sempre a mente la persona e non ciò che la persona rappresenta nel nostro immaginario. Non è inclusivo dire per esempio “disabile”, “alcolizzato”, “drogato”, perché così facendo poniamo la persona in secondo piano focalizzando al contrario l’attenzione su una qualificazione che, oltre ad essere dispregiativa, non è nemmeno necessaria. Impariamo invece a dire “persona con una disabilità”, “persona con dipendenza da alcol”, “persona con dipendenza da droghe”: così facendo diamo un segnale positivo a chi ci ascolta perché parliamo, prima di tutto, della persona (non della condizione!), e, soprattutto, facciamo sentire inclusa la persona di cui si parla dandole l’opportunità di essere considerata per quello che è, cioè una persona. Parlando di malattie: non cadiamo nell’errore di vittimizzare chiunque sia affetto da una patologia – allo stesso tempo però, non ignoriamo i fatti, anzi riconosciamo e accettiamo le differenze. È quindi sbagliato definire una persona “vittima del cancro” nella stessa misura in cui è sbagliato sminuirne le battaglie: ogni persona pretende riconoscimento e comprensione del proprio percorso. Invece, diciamo “persona che ha avuto il cancro”, o “persona con un cancro” e, ancora una volta, ricordiamo l’essere umano e usiamo parole che danno potere alle persone, non che le rendono vittime. Nella stessa misura, quando ci riferiamo a persone che hanno subìto un abuso, non definiamole “vittime di abuso”: potrebbe equivalere a renderle passive, impotenti e succubi, invece il nostro obiettivo è metterle in condizione di superare il trauma. Parliamo di loro dunque come “persone che hanno vissuto un’esperienza di abuso/violenza”. Sembra una differenza sottile, ma le parole possono davvero stigmatizzare situazioni di disagio o aprire miglioramenti, a seconda di come le si usa. Ben più complessa è la discussione sul linguaggio di genere, specialmente per lingue come l’italiano la cui grammatica fa distinzione fra maschile e femminile. Senza aver la pretesa di voler risolvere il problema, che forse meriterebbe un dibattito separato, mi preme fare alcune precisazioni che potrebbero esser d’aiuto nel capire la complessità della questione e l’inadeguatezza del linguaggio. Il nocciolo verte sulla differenza fra sesso (il sesso biologico definito dagli organi riproduttivi con cui siamo nati e nate) e genere (il costrutto/ruolo sociale, o come una persona si identifica). Dunque, oltre al dualismo maschio/femmina, le persone possono anche definirsi transgender, cisgender, non-binarie, ecc. – tuttavia il linguaggio, che è anche un costrutto sociale, è spesso inadatto a descrivere tutte le diramazioni della “materia”. Accade anche che, laddove il linguaggio abbia una parola per chiarire il genere, questa non venga usata. Pensiamo al reclutamento di personale e, in particolare, al momento in cui una persona che si identifica come transgender compila il formulario di candidatura e alla voce “genere” trova solo le opzioni maschio/femmina. Questa persona inizialmente non si sentirà contemplata, forse per semplificare potrebbe scegliere un genere o l’altro, titubare, ripensarci, infine concludere che non potrà lavorare bene in un’azienda che non contempla la sua identità e non riconosce la sua dignità, quindi in conclusione non si candiderà. L’azienda perderà un potenziale talento e, il talento, la fiducia nel mondo del lavoro.
Linguaggio e diversità
È importante mettere in discussione le nostre convinzioni sugli altri e capire che la comunità in cui viviamo è composta da persone differenti. Dovremmo iniziare ad ascoltare, capire e imparare dagli altri, così da metterli in condizione di sentirsi inclusi. Impariamo a conoscere la persona invece che a dare per scontato le cose che crediamo di conoscere. Se siamo in presenza di una persona che non conosciamo, e di cui ignoriamo il genere, chiediamo come vorrebbe che noi ci rivolgessimo a lei invece di assegnarle un genere secondo il nostro immaginario. Probabilmente la risposta non sarà una sorpresa, ma aver posto la domanda ci mette in una condizione di apertura e di rispetto reciproco, creando un habitat confortevole e inclusivo. Facendo un ulteriore passo avanti: ci rendiamo conto che il linguaggio è in continua evoluzione e deve essere contestualizzato. Pensiamo, per esempio, alla comunità LGBTI+: vi sono parole ("checca" è una di queste) che, se usate all’interno della comunità dalle stesse persone che ne fanno parte possono essere appropriate o consentite. Tuttavia, immaginiamo l’effetto della medesima parola pronunciata da una persona non appartenente alla comunità LGBTI+. Questo è uno degli aspetti forse più complessi del linguaggio inclusivo.
Linguaggio in movimento
Il linguaggio inclusivo è il risultato di un processo di comprensione degli altri e costituisce la maniera in cui tutte le persone vengono messe in condizione di essere più forti e sentirsi legittimamente parte della società. Dopo aver messo in discussione le nostre convinzioni, chiediamoci se le parole che usiamo sono rispettose del contesto cui sono rivolte. Dobbiamo chiederci se il linguaggio che usiamo tratta tutte le persone in maniera egualitaria, senza trasmettere idee stereotipate né creare discriminazioni. Se non siamo sicuri del risultato, possiamo provare a eseguire “un’inversione” o “commutazione” cioè sostituire il soggetto della frase per vedere se suona strano. Per esempio: “Le donne non dovrebbero guidare un’azienda”. Dunque, sostituiamo il genere del soggetto e diciamo “Gli uomini non dovrebbero guidare un’azienda”. Se “suona strano” in uno dei due modi, allora possiamo essere sicuri che anche l’altro modo è sbagliato. Questo espediente funziona in una varietà di contesti e può esser utile specialmente se sostituiamo l’altro con noi stessi.
Eccoci quindi al cuore della questione: il linguaggio inclusivo viene da dentro. È un atto volontario, la scelta cosciente e consapevole di comunicare in maniera coerente con i valori in cui crediamo, ossia il rispetto delle diversità e l'inclusione. È il modo in cui scegliamo di educare i nostri figli, è il linguaggio che decidiamo di usare nel quotidiano, è la volontà di includere il maggior numero possibile di persone nella nostra vita. E così anche in famiglia, al lavoro, nelle relazioni: non possiamo aspettarci rispetto in un contesto se non lo diamo in ogni contesto, specie in quelli in cui siamo maggiormente a nostro agio, in cui ci sentiamo al sicuro. Pensiamo ai benefici che l’inclusione può portare nei luoghi di lavoro: se tutti i dipendenti riescono a sentirsi inclusi, rispettati e ugualmente trattati non solo il loro morale migliora, ma ne aumenta anche la produttività. Soltanto quando avremo capito come usare un linguaggio appropriato, saremo davvero riusciti nella missione dell’inclusione. Ripartiamo dalla persona. Il linguaggio inclusivo è un lavoro costante, un continuo miglioramento.