
Il corpo come frontiera della politica
In molte campagne elettorali degli ultimi anni, i temi centrali non sono stati solo economici o geopolitici, ma hanno riguardato direttamente il corpo dei cittadini. Perché accade questo?
Mi ha sempre colpito il fatto che, nei dibattiti tra candidati alla presidenza americana, siano emersi con forza temi che hanno come fondamento il corpo. Pensiamo all’aborto: una questione che riguarda in modo diretto l’autodeterminazione della donna sul proprio corpo. Negli Stati Uniti questo tema ha conosciuto una centralità assoluta nel dibattito politico - ben prima dell’era Trump, ma con lui in modo esplosivo – a dimostrazione del fatto che alcune conquiste civili non sono mai acquisite una volta per tutte. Possono essere rimesse in discussione, ridimensionate, cancellate. E sempre, alla base, c’è il corpo che la politica vorrebbe rimuovere, ma da cui è costretta a ripartire.
La politica tende a rimuoverlo?
Sì, tende a ignorarlo, a considerarlo un fatto non-politico. E invece il corpo, nella sua materialità, ritorna continuamente. È lì che si manifestano le grandi fratture della nostra società: le disuguaglianze, le libertà e i diritti negati. Pensiamo al tema del fine vita, dell’eutanasia: in Italia resta ai margini del dibattito, eppure anima l’opinione pubblica, riguarda le famiglie, la sofferenza di migliaia di persone. Il corpo nel suo momento terminale – che si consuma, declina, si spegne – torna a bussare alla porta delle istituzioni. Sollecita l’agenda politica e continuerà a farlo in futuro.
Lei ha scritto e detto più volte che tutti i diritti hanno il proprio fondamento nel corpo. Cosa significa?
Significa che è dalla tutela della dignità primaria del corpo – la vita, l’incolumità, l’integrità fisica – che possono nascere i diritti successivi: civili, politici, sociali, economici. Tutto si fonda su quella materia fragile e concreta che è il corpo umano, che chiede protezione, chiede di essere riconosciuto, affermato, rispettato. Senza questa base fisica, concreta, i diritti diventano astrazione. E la democrazia rischia di rimanere un fatto formale, privo di sostanza.
Un altro ambito in cui il corpo entra in gioco in maniera eclatante è quello degli abusi da parte dello Stato, di cui lei si occupa instancabilmente da decenni.
Sì. Le dottrine politiche parlano di “corpi dello Stato”, riferendosi ai suoi apparati, alle sue istituzioni. E non è solo una metafora. Penso all’apologo di Menenio Agrippa, che tutti ricordiamo dai banchi di scuola: la società romana è paragonata a un corpo umano, in cui ogni parte ha una funzione e contribuisce all’armonia dell’insieme. Ma cosa succede quando quel corpo – lo Stato – invece di proteggere, esercita violenza sul corpo del cittadino?
Succede che viene meno il patto fondativo stesso dello Stato.
Esatto. Lo Stato moderno si fonda sulla promessa – è bene ricordarlo: promessa, non garanzia – di tutelare l’incolumità dei suoi cittadini. Ma troppo spesso questa promessa viene tradita proprio dai suoi apparati repressivi, dai suoi cosiddetti “corpi”. Corpi armati, corpi addestrati, corpi gerarchici. Nei casi di violenza da parte delle forze dell’ordine, emerge con chiarezza quanto quella promessa sia fragile. E quanto la ricerca della verità venga ostacolata da un altro tipo di “spirito di corpo”: quella solidarietà interna che, quando degenera, diventa omertà.
È questa cultura interna a rendere così difficile ottenere giustizia?
Sì, perché questi corpi si reggono su un vincolo interno fortissimo, su una cultura cameratesca che garantisce l’unità e la protezione reciproca. Fino al punto da coprire, negare, impedire l’accertamento dei fatti. E allora il corpo del cittadino diventa terreno di scontro. Ed è ancora una volta lì, in quella carne vulnerabile, che si gioca la questione fondamentale: se lo Stato sia davvero al servizio della vita o del suo controllo.