IL BUIO OLTRE LA SIEPE - Robert Mulligan, 1962
TO KILL A MOCKINGBIRD, 1962, diretto da Robert Mulligan, sceneggiatura di Horton Foote, tratto dall’omonimo romanzo di Harper Lee (1960), con Gregory Peck, Mary Badham, Phillip Alford, Robert Duvall, Estelle Evans.
IL BUIO OLTRE LA SIEPE è il titolo italiano di questo film ambientato in Alabama negli anni Trenta. “Uccidere un tordo” è, invece, la traduzione letterale del titolo originale.
Mentre scorrono i titoli di testa – due mani di bimba aprono una scatola e le riprese indugiano sul contenuto fatto di biglie, figurine intagliate nel sapone, pastelli a cera, un orologio da panciotto rotto… – vediamo formarsi proprio il disegno infantile di un uccellino. Poi uno strappo lo lacera.
Una voce di donna, fuoricampo, introduce al racconto descrivendo la vita lenta e noiosa, estiva e afosa, della cittadina di Maycomb. Il tono è quello del ricordo, dimensione narrativa del film. Ben presto lo spettatore comprende che la voce narrante è di Scout, la bimba di sei anni che vediamo giocare in giardino, sorella minore di Jem e figlia di Atticus Finch, uno stimato avvocato in città, vedovo.
C’è la Depressione, in molti fanno la fame, Atticus vien pagato spesso in natura dai clienti che a stento vivono di agricoltura. I suoi figli sono sensibili e vivaci; lo chiamano per nome, non papà. I vicini di casa hanno un figlio – detto Boo – che tengono segregato perché, pare, violento. Jem e Scout sono attratti dalla curiosità di vederlo, ma timorosi.
La trama si svolge nell’arco di tre anni ed è in sostanza un romanzo di formazione; almeno per Scout.
Il film si presenta diviso in tre parti: i giochi infantili di Jem e Scout, che finiscono spesso a misurarsi con la paura di entrare nel giardino del misterioso vicino; il processo in cui il padre è nominato difensore di un bracciante nero accusato di aver stuprato una ragazza bianca; le vicende della notte di Halloween nell’autunno successivo.
Ecco i due “mockingbirds”, ovvero gli uccellini che non fanno male a nessuno. Si tratta di Tom, il giovane bracciante nero, innocente e condannato, e di Boo, figlio dei vicini, ragazzo recluso dai familiari a causa di una disabilità. Il primo viene letteralmente ucciso, per il secondo il tentativo di annientamento è fatto di stolida durezza e atroce isolamento.
In entrambi i casi il pregiudizio è difficile da abbattere.
È evidente che il libro di Harper Lee e il film di Mulligan parlano in primis di pregiudizio razziale; la storia è sì ambientata nei bui Anni Trenta, ma non dimentichiamo che le marce per i diritti civili sono proprio dei primi Anni Sessanta, e il discorso “I have a dream” di Martin L. King è del 1963.Guardiamo da vicino, ad esempio, la sequenza del processo in aula: è fatta di inquadrature che ingigantiscono la figura di Atticus, vestito in abito crema (che nel bianco e nero della pellicola risulta quasi abbagliante); piani americani che sottolineano la sua solitudine rispetto alla massa staccata alle sue spalle, e mostrano scansioni architettoniche rigide, che rivelano divisioni sociali altrettanto nette: i “negri” in loggione, i bianchi in platea.
Proprio mentre l’avvocato, rigoroso e capace, smonta l’accusa fasulla, il regista mostra un’impalcatura solidissima e inflessibile con linee di fuga che convergono verso l’uscita dall’aula, a suggerire, forse, che anche fuori le linee tracciate continuano nella stessa direzione.
Nel caso di Boo invece sono il pregiudizio verso la disabilità, e l’ignoranza (“il buio”) che genera paura e esclusione (“la siepe”), ad essere rivelati e smontati attraverso i giochi e la temerarietà di Jem e Scout.
I due ragazzini si spingono oltre la siepe del vicino e riescono, a loro insaputa, a tener vivo l’interesse di Boo per il mondo esterno, a intessere una relazione attraverso i piccoli doni lasciati nell’incavo di un albero (sì, gli oggetti della scatola mostrata all’inizio!), a spingerlo a proteggerli la sera dell’agguato. La sensibilità di Scout e di Jem, che conservano gelosamente i doni trovati, fa da contrappunto alla rozzezza del padre di Boo, che cementa l’incavo dell’albero per bloccare i contatti cercati dal figlio.
Ma ci sono altre “diversità” rivelate da questa pellicola. Spiccano le figure di Atticus e Scout perché controcorrente, fuori dai canoni e dal luogo comune. L’avvocato difende il giovane bracciante nero ben sapendo di avere tutti contro e spiega alla figlia – insultata a scuola per le posizioni del padre – che “una buona causa si difende e basta”, senza curarsi delle probabilità di vincere o del sentire collettivo.
Tutto ciò in un contesto violento e ignorante, rappresentato sia dalla scena del cane rabbioso sia da quella in cui una piccola folla si raduna durante la notte davanti alla prigione, intenzionata a giustiziare sommariamente Tom. Le due scene sono fondamentali per comprendere il credo di Atticus: non si usa la forza se c’è un’altra via. Atticus Finch affronta infatti i facinorosi – che lo trovano seduto davanti alla prigione – “armato” solo di una lampada e di un libro, pronto a ragionare.
D’altro canto davanti al cane, irrecuperabile e pericoloso, non esita a sparare per colpirlo a morte al primo colpo. In entrambi i casi sono presenti i figli, che non sanno che il padre è un ottimo tiratore, restano stupefatti e ricevono una lezione inequivocabile.
Altro principio fondante il comportamento di Atticus è provare a mettersi nei panni altrui, e cambiare punto di vista. Lo s’intuisce fin dalla scena iniziale, in cui non vuole mettere a disagio chi lo paga con un sacco di noccioline.“ You never really understand a person until you consider things from his point of view. Until you climb inside of his skin and walk around in it”.Scout si chiama in realtà Jean Louise.
Ed è la figura perno della vicenda. Oltre a ispirare simpatia, impacciata dagli abitini e felice di scorrazzare in salopette di jeans, pone agli adulti domande oneste e imbarazzanti e difende con rigore il proprio punto di vista. Narra la storia in prima persona, ma soprattutto incarna un’evoluzione che è insieme crescita e scelta.
“Maschiaccio” che si arrampica sugli alberi e mena le mani quando s’arrabbia, Scout appare diversa proprio perché ribelle al cliché di “bambina”. Invece nel film assistiamo a scene che la mostrano combattuta tra il richiamo ad essere una lady e il rimprovero del fratello maggiore, che le rinfaccia di essere una girl quando ha timore di avventurarsi dal vicino.
Solo il padre comprende il suo conflitto e asseconda tanto le istanze ritenute mascoline quanto quelle codificate come desiderio di femminilità. E quando Scout, prima di addormentarsi, chiede a Atticus se c’è qualcosa appartenuto alla mamma che le toccherà come ricordo, lui risponde “Per te c’è la collana di perle, e anche un anello…” suscitando la gioia della bimba.
In realtà Scout sta semplicemente crescendo e cercando un modo di leggere il mondo e se stessa.
Né maschio né femmina, in un certo senso, è una verdura – come evidenzia il costume che indossa perla recita di Halloween –, fino alla notte in cui smarriti i suoi vestiti si incamminerà verso casa indossando il costume. Quando si rialzerà, dopo l’aggressione, sfilerà il costume da verdura e correrà a casa a dare l’allarme in sottoveste, tipico indumento femminile.
Visivamente viene segnalato che il passaggio è compiuto, e la crescita è rafforzata dalla scelta di Scout di prendere per mano Boo e accompagnarlo a casa.
Scout è davvero diversa, ora. Non ha più paura del buio e si rende conto che può oltrepassare la siepe, guardare la realtà dalla veranda del vicino. Ora che ha conosciuto l’ignoto – la violenza di un assalitore, ma anche il volto di chi ci salva – può abbandonare e sconfiggere il pregiudizio.
TO KILL A MOCKINGBIRD. Un classico da vedere, far vedere,
PAOLA SUARDI, 1964, laureata in Lingue e Letterature Straniere con tesi su “Woody Allen e la meta narrazione”. A Los Angeles ha frequentato presso la University of Southern California corsi di M.A. in “Film and Television, critical studies”. Titolare dell’agenzia ALTEREGO Comunicazione e Progetti Editoriali.