IDENTITÀ È LA SOMMA DELLE PARTI
Cosa significa per voi il termine “identità”? Può il lavoro contribuire alla costruzione dell’identità di una persona?
Se guardiamo all’etimologia del temine identità indica in generale l’eguaglianza di un oggetto rispetto a se stesso. Ma essere uguali a se stessi nel tempo è quasi impossibile, dal momento che persino al livello infinitesimale ogni atomo è in continuo movimento e evoluzione. Questa complessità è ciò che rende questo tema affascinante e molto dibattuto. In OMG pensiamo che la nostra identità di persone evolva, con le fasi della vita, con la consapevolezza che ne deriva, con le esperienze che facciamo e che ci aprono nuovi modi di relazionarci agli altri e di vedere noi stessi. Tutto questo bagaglio entra anche nell’ambito lavorativo, nessuno di noi è il proprio job title, infatti, quel che facciamo al lavoro non esaurisce il racconto della nostra complessità come essere umani, ma aver cura dell’identità di un collaboratore significa vedere la persona al di là del ruolo specifico, ed è importante farlo per riconoscerne l’unicità.
Quale importanza attribuite alla diversificazione delle risorse che lavorano per voi? Ha a che vedere con l’espressione dell’identità di ogni persona?
Negli ultimi anni abbiamo intrapreso un percorso di riflessione sui temi DE&I che ci ha portato sia a porre maggior focus sul concetto di diversità in azienda, sia a lavorare sul concetto di libera espressione del proprio potenziale e della propria identità. Nel 2019 abbiamo creato un team DE&I in OMG, con focus leader dedicati a 5 temi sui quali porre l’attenzione: LGBTQ+, Disabilità, Gender, Genitorialità e Interculturalità. Quello che abbiamo imparato in questi anni di scambi, iniziative e formazione rispetto a questi temi è che un ambiente inclusivo diventa terreno fertile per poter liberare diversi aspetti della propria identità che vanno a rendere l’esperienza di crescita in azienda più completa.
Quest’anno abbiamo ottenuto, inoltre, la certificazione UNI/PDR 125 per la gestione della parità di genere, un ulteriore passo verso l’equità sistemica in Omnicom Media Group e un bellissimo progetto per imparare a guardare la relazione tra persone e mondo del lavoro da una prospettiva più ampia, che ci permette di porci obiettivi che riguardano l’impegno civile che ogni azienda ha, nel rendere anche il lavoro un ambito in cui la sostenibilità sia un fattore chiave di sviluppo.
Ci sono iniziative specifiche che avete intrapreso per far emergere meglio il potenziale e l’identità dei vostri collaboratori? Se sì, ci sono stati dei benefici?
In questi anni abbiamo intrapreso diverse iniziative per fare focus sull’espressione della propria identità. Uno dei primi progetti organizzati dal team DE&I è stato “Io sono”. Abbiamo chiesto ai colleghi e alle colleghe di raccontarsi con un termine e una immagine, ne è nato un progetto social per Instagram che ha messo in evidenza sfumature diverse delle nostre persone.
Quest’anno abbiamo chiesto agli oltre 650 colleghi e colleghe se tra loro ci fosse qualche musicista o cantante. Ci siamo ritrovati con due band nate in pochi giorni, che hanno suonato insieme durante la nostra festa di Natale, creando una performance divertente e coinvolgente.
Anche al lavoro, se siamo messi nelle condizioni di poter esprimere liberamente diversi aspetti della nostra identità, comprese le nostre passioni, a trarne vantaggio è l’arricchimento della relazione con gli altri e anche l’allenamento a vederci come la somma delle nostre parti con tutto ciò che concorre a renderci unici.
OMG si occupa della comunicazione di molti brand, notate che l’espressione di sé è ancora soggetta a bias culturali e sociali sui media?
I brand stanno facendo passi avanti nel raccontare la diversità ma, da cinquantenne, noto ancora situazioni in cui i segni dell’età vengono cancellati con programmi di fotoritocco, o mi stupisco davanti alla scelta di testimonial ‘giovanili’ per prodotti che sarebbero perfettamente in target over 50. L’età non è l’unico aspetto dell’identità che a livello mediatico non è rappresentativo della realtà; nello storytelling mainstream dei brand mancano molte delle sfumature che caratterizzano l’essere umano: le disabilità, le diversità culturali ed etniche, le diversità sessuali e i modelli di relazione… Se è vero che molti passi in avanti sono stati fatti, soprattutto su un utilizzo più inclusivo del linguaggio visivo la strada da percorrere è ancora lunga e l’impegno delle aziende deve essere concreto e consistente in questo senso.
Secondo i dati del Diversity Brand Index, la crescita dei ricavi per un brand inclusivo può superare il 23% rispetto ad un brand non inclusivo. Cosa ne pensate di questo dato?
È un dato che non mi stupisce. In particolare, il pubblico compreso tra i 18 e i 25 anni è maggiormente attento all’aspetto Diversity & Inclusion nelle pubblicità e nella comunicazione, tanto da considerarlo spesso come acquisito, scontato, necessario. La richiesta di autenticità nella rappresentazione mediatica della vita, fa del DE&I un elemento che queste fasce di pubblico ricordano e considerano decisivo al momento dell’acquisto; la generazione Alfa sarà ancora più intransigente sull’impegno inclusivo dei brand. Di contro, nell’ambito degli addetti ai lavori, i marketer Millenial e Gen Z sono gli unici che già si sforzano di pensare in termini inclusivi: i professionisti appartenenti a generazioni diverse spesso sono ancora nell’area delle buone intenzioni ma faticano a cambiare mindset.
Quali azioni concrete può compiere un’azienda per non incorrere nel rischio di “diversity washing”?
I brand devono riconoscere il loro potere nel plasmare l’immaginario perché possono realmente cambiare la forma della nostra cultura scegliendo come comunicare e come investire. L’inclusione deve essere però parte della cultura aziendale fin dalle sue radici, non un tema di facciata, perché il pubblico riconosce una campagna di puro marketing da un posizionamento autentico sui temi legati alla diversità: la cosiddetta Brand awareness, quella naturale diffidenza che soprattutto le giovani generazioni hanno sviluppato verso la comunicazione di azienda, è uno dei maggiori rischi per i brand. Autenticità quindi, e consistenza nel raccontare il valore della diversità: il nostro mondo è ricco di etnie diverse, di forme del corpo non perfette, di persone con disabilità e di relazioni famigliari eterogenee, sarà sempre più pressante la richiesta di una comunicazione rappresentativa della realtà e inclusiva nella narrazione di questa complessità
Come impostate il dialogo con i clienti su queste tematiche? Ci sono delle difficoltà che riscontrate maggiormente?
Come consulenti di comunicazione cerchiamo di portare costantemente l’attenzione dei nostri clienti su questi aspetti; la strada è tracciata ma c’è un lavoro enorme da fare sui bias culturali e sociali che stanno dietro a molte delle campagne pubblicitarie a cui assistiamo. Serve avere il coraggio di riscrivere la narrativa di marca usando come leva l’empatia verso i bisogni identitari delle persone. Serve riconoscere che non esistono davvero dei cluster in cui incasellare una audience ma piuttosto una meravigliosa complessità, e identità diverse da rappresentare con punti di vista che diano valore a questo nostro essere la somma delle parti.