I MODI DEL CAMBIAMENTO
Siamo singoli all’interno di una comunità, ciascuno con una propria identità, un proprio pensiero, una propria sensibilità. Ma ciò che noi siamo è in parte, ma forse soprattutto, figlia del tempo in cui viviamo.
Il pensiero, la sensibilità, il modo di vedere e approcciare la vita cambiano drasticamente di generazione in generazione, di decennio in decennio, persino in pochissimi anni. È, potremmo dire, una legge naturale. Questo però non significa che ciò che il nostro tempo detta sia qualcosa che ci stia bene e che riteniamo giusto. È qui che entrano in gioco i modi del cambiamento.
È probabile che non esista un modo corretto per provocare un cambiamento. Però possiamo chiederci se questi siano più o meno effettivi.
In questo particolare momento, sembra che gli eventi si susseguano ad una velocità impressionante, sono quasi travolgenti. Ma mentre tutti siamo immersi in crisi economiche, ci sono altre crisi, nel senso di situazioni che necessitano di una presa di decisione, spinte dal bisogno di cambiare una situazione che non è più sostenibile.
In Iran si protesta per una condizione femminile e una legge che non rispetta quelli che possiamo considerare come basici diritti umani, lo stesso in Afghanistan, mentre in Cina si protesta contro le misure di contenimento “Zero COVID” che stanno opprimendo la popolazione da troppo tempo. Più vicino a noi, ma in tutto il mondo ci sono gli alquanto chiacchierati attivisti per l’ambiente che protestano nei musei; infine nel calcio si sta, anche se un po’ timidamente, discutendo l’autoritarismo del Qatar a cui sembra essere legata anche un’istituzione come la Fifa.
Sono tutte proteste per tentare di cambiare qualcosa, ma ognuna ha uno scopo e un contesto differente, così come un risultato diverso. Spesso le proteste sono viste come qualcosa di futile, come quando si parla di attivismo per l’ambiente, vedi i Fridays For Future, li si descrive come dei cortei di ragazzi che non vogliono andare a scuola. Di quello che vogliono dire, delle loro proposte, viene fatta pochissima informazione, andando quindi a ricercare – e questo è un problema endemico del giornalismo attuale e in particolar modo nostrano – una notizia che faccia scalpore, colpisca, ma che non abbia un vero contenuto o significato.
Questa è una modalità ricercata anche dagli attivisti che “colpiscono” nei musei. L’azione in sé è simbolica: nella mente degli attivisti il museo è un luogo di otium, slegato dalla vita e la protesta vorrebbe scuotere coloro che assistono a preoccuparsi dei problemi del mondo al posto che “perdere tempo” nei musei. Per quanto riguardo al ruolo e l’essenza del museo si possa anche discutere, guardando alla ricezione da parte del pubblico l’effetto che questa protesta ha avuto è stato provocare scandalo e fare parlare di sé. La gente continuerà a frequentare i musei, ma ricorderanno molto bene queste proteste. Ci sono riusciti allora? Sì e no, se il loro obiettivo primario era farsi sentire e far parlare di sé, allora hanno centrato in pieno: chi di noi non ha parlato di questo argomento con qualcuno? Se invece volevano ottenere un vero e proprio cambiamento, probabilmente è stato un buco nell’acqua.
Le proteste in Iran, Afghanistan, Cina, sono invece dettate dalla disperazione, da parte di popolazioni stremate da una situazione insostenibile. E l’effetto di quelle proteste sarà vario perché cercheranno di reprimerle, le contrasteranno, ci sarà un costo di vite umane che non possiamo non riconoscere a cui non possiamo non pensare.
Alla fine, il cambiamento non avviene tramite una protesta ma da questa può nascere. È un grido al mondo, un’esternazione di una criticità che non può essere ignorata.