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I MANDARINI

A cura di Valentina Dolciotti
03 Gen 2024

Qual è il confine tra amore e possesso? Titolano alcuni articoli. Che domanda idiota, sbagliata e pericolosa. Non c’è confine tra loro perché non sono vicini di casa, non si tangono nemmeno lontanamente. Se c’è amore non c’è possesso. Fine della storia. 

Tutto il resto sono scuse e scusanti, cecità, malafede, ignoranza, incapacità di raccontare le relazioni.

È di ieri (19 novembre 2023) la notizia del ritrovamento di Giulia Cecchettin, ammazzata dall’ex fidanzato. Dall’inizio dell’anno siamo a cento donne uccise (la più piccola aveva 13 anni, la più anziana ne aveva 95) e molte di queste ammazzate proprio in quanto donne (leggi: femminicidio) quindi no, non è un problema generazionale; e no, non è un problema tra nord e sud; e no, non è un problema di città o periferia. 

È un dannatissimo problema strutturale, si chiama patriarcato, e ci siamo tutt* immers* dentro fino al collo al punto da respirare a fatica, al punto che anche uomini sedicenti progressisti e intellettuali manco lo vedono, e si permettono di scrivere parole sui quotidiani nazionali sminuendo, spostando il focus, deviando l’attenzione.

E, invece, il problema è cristallino: il genere maschile non è generalmente educato al rispetto della libertà del genere femminile. 

E la responsabilità di questo è delle famiglie (non solo delle mamme, nota bene, ma di padri, zii, fratelli maggiori, ecc.), è degli/delle insegnanti (la vogliamo inserire questa benedetta educazione sentimentale a scuola? Se avete problemi con la parola “genere” chiamatela altrimenti, chiamatela calorifero, ma datevi una mossa); è delle società sportive (sì, esatto, perché la domenica in campo succedono cose irripetibili e vergognose, partendo dai pulcini fino ad arrivare alla serie A del campionato). Bisogna agire e farlo subito, adesso, ieri. Perché l’Italia è un Paese maschilista, conservatore, razzista, omofobo e se andiamo avanti così diventerà anche un paese disabitato.

E ora veniamo al nuovo numero di DiverCity che avete tra le mani.

Non si temevano ricadute barbariche come le guerre tra popoli europei, così come non si credeva più alle streghe e ai fantasmi; i nostri padri erano tenacemente compenetrati dalla fede della irresistibile forza conciliatrice della tolleranza. Lealmente credevano che i confini e le divergenze esistenti fra le nazioni o le confessioni religiose avrebbero finito per sciogliersi in un comune senso di umanità, concedendo così a tutti la pace e la sicurezza, i beni supremi.

Questo scriveva Stefan Zweig nel suo libro “Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo” (Die Welt von Gestern) del 1942.

E invece.

Quando abbiamo deciso di dedicare un’uscita di DiverCity allo sconfinato tema dei confini la Russia aveva già invaso l’Ucraina, ma Israele non aveva ancora iniziato a bombardare senza respiro la striscia di Gaza (in risposta all’attacco terroristico di Hamas, che era in risposta all’apartheid subito negli ultimi cinquant’anni, che era in risposta a…); il nostro governo non aveva ancora deciso di disconoscere uno (dei due) genitori dei bambini e delle bambine nate da “coppie arcobaleno”, ridisegnando il confine di cosa è famiglia, ma aveva già iniziato a estendere il lungo elenco dei reati che una persona può commettere e delle relative pene previste, restringendo ancora un po’ i confini di quella che ci ostiniamo a chiamare libertà. 

Non è facile introdurvi questo numero di DiverCity che avrei voluto lungo 500 pagine per poter approfondire tutti i temi che ci stanno a cuore, parlare di carcere e di detenzione, dei CIE (i centri di identificazione ed espulsione per le persone migranti che arrivano in Italia), di come funzionano i reparti di psichiatria, di ragazzin* gay, trans, bisessuali che vivono con genitori che non li accettano o di donne costrette a convivere con i propri aguzzini. Perché se penso all’idea di confine sono anche queste le cose che mi vengono in mente. Penso all’arte, ai nord e ai sud del mondo, alle disabilità, all’Europa, alle periferie, alla neuro divergenza e alle età… Di molto abbiamo scritto qui, di molto altro bisognerà scrivere ancora. Speriamo di aver aperto una conversazione che durerà e deve durare e dandovi, come sempre, spunti e punti di vista differenti. 

Senza dimenticare che per ampliare la conversazione servono parole; che ciò che spesso non riusciamo a immaginare è perché non lo sappiamo dire e, allora, in questo nuovo trimestrale proviamo quantomeno a dirli, i confini, dirli per poterli trasformare.

I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo (Ludwig Wittgenstein, 1921). Appunto.

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