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FOSS’ANCHE PER STARE COL CANE

A cura di Chiara Bisconti
24 Giu 2024

I primi esperimenti di lavoro agile risalgono all’inizio di questo secolo.

La definizione ‘lavoro agile’ sarebbe arrivata solo 10 anni più tardi, per essere purtroppo soppiantata dalla locuzione ‘smart working’, un inglesismo tutto italiano utilizzato solo nel nostro Paese.

Ma al di là della definizione, i primi tentativi di lavoro agile sono partiti dai bisogni delle donne.

Donne con figliə, famiglie e carichi di cura che mettevano a dura prova la possibilità di conciliare la sfera privata e la loro voglia di crescere professionalmente.

Nella multinazionale in cui lavoravo allora e in cui ero responsabile di questi primi esperimenti, era necessario forzare il cambiamento. E proporre questa innovazione come risposta a un bisogno femminile ci era sembrata la strada più giusta.

A distanza di un quarto di secolo mi è evidente come la nostra visione fosse ancorata a una concezione stereotipata e binaria dei generi e a un modello di famiglia tradizionale, in cui è la donna che tiene su di sé il 100% del carico di cura.

L’aspetto interessante che mi piace sottolineare oggi è che al primo esperimento di lavoro a distanza si candidarono spontaneamente un uomo e una donna. Entrambə raccontarono da subito che i principali cambiamenti del nuovo modo di lavorare avevano ripercussione diretta sulla loro sfera familiare. La donna ci raccontò che ora riusciva a vedere almeno due giorni a settimana i-lə figliə al mattino, faceva colazione con loro e poteva portarlə a scuola. L’uomo ci rese partecipə del fatto che stare due giorni a casa liberava il tempo dei suoi genitori, che riuscivano finalmente a recuperare la loro socialità. La realtà, dunque, aveva immediatamente superato la visione parziale da cui, per necessità, eravamo partitə. E aveva messo in chiaro che un cambiamento del modo di lavorare era in verità un cambiamento del modo di vivere. Variando l’utilizzo del tempo, si modificavano anche le relazioni affettive che ruotavano intorno al tempo stesso.La realtà delle vite vere, i bisogni reali, affermavano che la policy che stavamo introducendo andava immediatamente a coinvolgere gli aspetti relazionali delle persone. E questo a prescindere dal genere di chi era coinvolto.Soprattutto, senza mettere alcun limite alla definizione di famiglia che ogni lavoratore o lavoratrice aveva scelto come suo schema privatissimo e insindacabile di riferimento affettivo.Oggi è evidente che il lavoro agile è la modalità che per eccellenza aiuta a tenere in equilibrio vita privata e vita lavorativa perché mette al centro il tempo individuale e gli dà lo spazio che necessita.

Ed è la persona che, in accordo con i bisogni dell’organizzazione per cui lavora, costruisce a sua misura lo spazio vitale in cui bilanciare le sue attività professionali, quelle di cura, le sue passioni e il suo benessere. In questa visione è chiaro che la tipologia di famiglia che la persona decide di crearsi può essere scelta nella totale libertà e non deve in alcun modo riguardare l’azienda. Per questo sono sempre stata contraria al limitare il lavoro agile a determinate categorie o a gestirlo come risorsa scarsa con la definizione di soggetti prioritari per l’accesso. Le mamme con figliə minori sono state a lungo una tentazione per molte policy aziendali o interventi normativi, per fortuna oggi sempre meno presenti. Alla luce dell’esempio del lavoro agile, ma con l’accezione ampia di tutte le decisioni che impattano direttamente sulla vita reale delle persone, credo sia giusto ricordare alle aziende che le loro policy devono essere pensate sempre e solo nell’interesse della persona che lavora, senza mai porre definizioni stringenti (la famiglia intesa in senso tradizionale, ad esempio) o limitazioni di alcun tipo.

Le policy devono afferire alla persona nella sua unicità, portare regole e possibilmente vantaggi, ma non devono porre mai condizioni che limitino o in qualche modo definiscono le libere scelte della persona stessa. Tornando al tempo, anche la gestione del tempo e del suo utilizzo deve essere lasciata nelle mani della singola persona. Sempre in accordo con i bisogni aziendali, ovviamente, ma con il diritto e l’inviolabile libertà di farne ciò che vuole.

Tempo fa un manager mi disse: ‘Eh sì, adesso devo concedere lo smart working anche per poter stare con il cane!’. Io lo ringraziai. Mi aveva suggerito una nuova e validissima motivazione per quella libertà di utilizzo a cui effettivamente non avevo ancora pensato

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