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FIT IN OR BELONGING?

Rubrica Riso e Seta
A cura di Alessia Mosca
20 Mar 2023

Qualche mese fa, Michelle Obama, presentando il suo ultimo libro “The Light We Carry”, ricordava come all’inizio del primo mandato di suo marito alla Casa Bianca, gli americani “non erano pronti” per i suoi capelli naturali. Nel suo caso, sicuramente estremo per esposizione e rilevanza sui media, una caratteristica personale diventava una questione politica, una distrazione pericolosa. In realtà la tendenza di base, che accompagnava quel sentire, continua a valere oggi su molti livelli. Commentava l’ex first lady: “le donne negli uffici si domandano: è il caso di indossare questa gonna? E queste collant?”. Insomma una capigliatura o un pezzo di abbigliamento, specialmente per le donne e ancora di più quelle appartenenti a minoranze culturali o religiose, possono essere metro di valutazione di una professionalità quasi più e prima che le competenze e l’esperienza accumulata per ricoprire un certo ruolo?

Per quanto singolare possa sembrare l’esempio della ex-first lady statunitense, la realtà resta: se anche grazie alla pandemia con una maggiore diffusione del lavoro da remoto (totale o parziale che sia) sono state abbandonate certe uniformi informali, per la maggioranza il posto di lavoro resta una specie di teatro dove indossare una maschera e cercare di adattarsi alle tendenze prevalenti.

Anche se tanta strada è stata fatta, stereotipi di genere e culturali basati sulla prima apparenza persistono e richiedono spesso un enorme dispendio di energie per camuffare la propria individualità e amalgamarsi alle tendenze più comuni.

L’alternativa può essere venire ridimensionati nella propria posizione, o poter aspirare solo a certi percorsi di crescita. E siccome è credenza diffusa che portare se stessi nella propria professione sia motivo che conferma gli stereotipi esistenti, meglio allora mimetizzarsi sullo sfondo e adeguarsi per sopravvivere, sopportare, o – nel migliore dei casi – poter splendere.

Il reset causato dal Covid-19 ha portato molti a fare passi in avanti in tema di rappresentazione e inclusione. Leggiamo spesso di aziende che promuovono pubblicamente la diversità – per sentimenti di giustizia ed equità o in risposta alla crisi di mis-matching tra domanda e offerta di profili. Contemporaneamente però si moltiplicano anche le riflessioni sulla validità di portare “tutti se stessi” dentro l’ufficio. Se infatti l’energia non più consumata nell’adattarsi può essere convertita in un contributo creativo ed efficace sul posto di lavoro, fino a che punto “conviene” esporsi in un mondo sempre più competitivo, dove ognuno arriva in qualche modo a sentire la minaccia di poter essere facilmente rimpiazzato?

Alcuni esperti di risorse umane segnalano il limite per cui un candidato viene valutato e quindi scelto o meno sulla base di una lista one-size-fits-all. Senza andare troppo oltre i titoli di cv spesso preconfezionati, si perdono sfumature ed elementi che contraddistinguono un profilo – dalla passione alla competenza in ambiti non per forza immediatamente afferenti al lavoro.

Dal canto loro, però, sempre più lavoratori valutano con attenzione la posizione offerta e la cultura generale di un’azienda: ambienti troppo rigidi, poca attenzione ai tempi personali, il binomio vita privata e professionale sono elementi diventati moneta di scambio. Sosteneva il consulente d’impresa Peter Drucker in un suo discussissimo aforisma, che “la cultura (di un’impresa) si mangia la strategia a colazione”. Cioè senza una cultura funzionale al successo dell’azienda, qualsiasi pianificazione strategica risulta inefficace.

Viviamo in un’epoca in cui non è infrequente declinare un’offerta o lasciare (quiet quitting) un posto di lavoro assecondando la sensazione di non appartenenza a quel luogo, l’impressione di sprecare tempo e perdere energie in ambienti in cui non ci si riconosce. Succede soprattutto ai lavoratori più giovani, ma è diventato recentemente un fenomeno intergenerazionale con sempre più talenti che si domandano se vale davvero la pena - e fino a che punto - snaturarsi, “sopportare”, adattarsi e adeguarsi magari ad ambienti poco accoglienti. Allora meglio rinunciare magari a qualcosa, ma sentirsi più a proprio agio nel mostrare la propria unicità (anche solo parzialmente) e lasciando parlare la propria professionalità, non un capo di abbigliamento o un’acconciatura dei capelli.

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