Salute MentaleSalute mentalepersonecura

E SE FOSSE LA SOCIETÀ IL PROBLEMA?

A cura di Alessio Salviato
26 Mar 2024

Che si parli sempre più di salute mentale, e se ne parli coscientemente, è un bene per tutte. Non si tratta solo di rimuovere lo stigma della cura psicologica, ma anche di sostenere l’idea che chiunque possa trarre beneficio da un percorso terapeutico. L’analogia tra mente e corpo è convincente. Come ci prendiamo cura del corpo non solo quando sta male ma anche nella sua condizione di “normalità”, mangiando bene, facendo esercizio fisico e prevenendo l’insorgere di malattie, così dovremmo fare con la nostra mente. La psicoterapia ci insegna a vivere meglio, a stare bene. Cosa sia quel ‘bene’, però, resta un mistero. Emerge qui il primo limite di questa scienza, che è una scienza del funzionamento dell’essere umano, ma non dei suoi fini. E come posso essere felice se non so cosa sia la vita buona, cosa significhi amare, e quale sia il rapporto virtuoso tra ragione ed emozioni? Non è forse compito della filosofia o della religione rispondere a questi interrogativi? Che cosa sa dell’essere umano la psicologia? 

Nonostante questo, la psicoterapia sembra essere diventata la panacea di tutti i mali, soprattutto perché improvvisamente sembriamo tutti disfunzionali, ansiose e tossiche. Non sappiamo più vivere una relazione affettiva: se fai qualcosa fuori dagli schemi del buon funzionamento, sei tossico, quindi hai un problema. Secondo i canoni di oggi, tossica sarebbe Didone che si lacera la vesti per la dipartita di Enea e tossico sarebbe Cyrano De Bergerac che si finge un altro per farsi amare. Se invece sei preoccupata per i cambiamenti climatici, soffri di eco-ansia, quindi hai un problema. Se tendi all’isolamento sociale sei disfunzionale, quindi hai un problema. La soluzione? Mandarci tutte dallo psicologo, in linea con la deriva individualista del nostro tempo. Se stai male, è responsabilità tua e la soluzione passa attraverso la tua risoluzione.

E poi ci sono fenomeni sociali davvero allarmanti, come l’aumento dei casi di depressione, isolamento sociale (i cosiddetti ‘hikikomori’) e tentati suicidi tra le giovani e i giovani. Ma anche le bambine che si fanno la skin-care a 10 anni, o che vengono esibite sui social media per fare engagement con i pedofili, e chissà le conseguenze psicologiche della loro mercificazione. Tutte e tutti nel grande carro di chi va a farsi curare. 

Il punto è che forse non siamo noi il problema, ma la società che ci siamo costruite attorno. Non riusciamo più ad affrontare le crisi della vita perché abbiamo perso il tessuto sociale dove queste crisi prima germogliavano e si risolvevano: la famiglia, gli affetti e il dialogo interiore. Senza l’incontro con l’Altro, annichilito dai social media e dalla glorificazione dell’individuo apolide, non possiamo nemmeno diventare altro da noi, e quindi sviluppare quella capacità tutta umana di prendere distanza da ciò che ci accade, e guardarlo da un’altra lente. Nel tentativo di farci insegnare a vivere meglio, siamo finiti per standardizzare i nostri comportamenti, perdendo la bellezza della spontaneità e dell’autenticità. Non siamo forse umani proprio perché vittime di passioni momentanee e fautori di atti irragionevoli, cui però pertiene quella qualità che rende una vita degna di essere vissuta? 

E come possiamo davvero rendere ragione del malessere che affligge le giovani se non osservando il contesto in cui cresce? Qui emerge l’altro limite della psicologia: che si occupa del singolo individuo, e non del contorno. La psicologia non si chiede se ci sia qualcosa che non vada nella società, perché non vede al di là del funzionamento delle persone, cioè fatica a cogliere l’intero. Per questo piace al capitalismo, perché ci fa funzionare perfettamente in una società malata. Ciò che conta è che recuperiamo sempre la nostra forza produttiva, giacché siamo ‘risorse umane’ (e non serve essere Marxisti per cogliere l’orrore di questa terminologia). Una società costruita attorno all’esposizione costante alla realtà virtuale dei social media, al consumismo sfrenato, all’isolamento sociale, alla riduzione della realizzazione personale allo status economico, alla competizione soffocante, non può che portare i suoi membri ad impazzire. Allora tocca chiedersi, non è che sia la società il problema?

E non è che il trend della psicoterapia sia un diversivo per sottrarre il nostro sguardo dall’assurdità in cui siamo finite? Qui sta il cortocircuito del nostro tempo: invitiamo gli influencer in televisione a parlare di salute mentale, mentre sono gli stessi a supportare il sistema sociale colpevole di questo malessere. Siamo forse impazzite? 

Leggi questo numero
Registrazione Tribunale di Bergamo n° 04 del 09 Aprile 2018, sede legale via XXIV maggio 8, 24128 BG, P.IVA 03930140169. Impaginazione e stampa a cura di Sestante Editore Srl. Copyright: tutto il materiale sottoscritto dalla redazione e dai nostri collaboratori è disponibile sotto la licenza Creative Commons Attribuzione/Non commerciale/Condividi allo stesso modo 3.0/. Può essere riprodotto a patto di citare DIVERCITY magazine, di condividerlo con la stessa licenza e di non usarlo per fini commerciali.
magnifiercrosschevron-down