DREAM - La donna come operatrice e beneficiaria degli interventi di cooperazione sanitaria

01 Ott 2019

Francesca Campanile

Cacilda, Pacem, Paola, Noorjehan, Fatou, Isabelle, Beinabo sono solo alcuni dei nomi delle donne che lavorano al programma DREAM. E sono italiane, mozambicane, guineane, svizzere o malawiane, ma soprattutto sono donne. Compagne di una lunga strada che ha come meta il raggiungimento dell’equità tra persone, donne e uomini, a nord e a sud. Con un lavoro cominciato nel 2002, oggi il programma DREAM ha in carico decine di migliaia di persone con HIV in Mozambico, Camerun, Malawi, Guinea Conakry, Tanzania, Kenya, Eswatini, Congo RDC. E a dispetto della logica dei progetti che nella cooperazione allo sviluppo ha diverse colpe, in questa organizzazione c’è una visione chiara dell’obiettivo: arrivare alla completa equità attraverso il raggiungimento del pieno diritto alla salute e lo si fa insieme, Italia e Mozambico, Malawi e Guinea.

Sembra un obiettivo irraggiungibile, ma in mezzo a tutti i volontari e le volontarie (tante) che dedicano la loro vita (tutta) a questo ideale, in un modo o in un altro, devo dire che tutto pare possibile. In Africa, alla fine degli anni ’90, la Comunità di Sant’Egidio voleva innanzitutto portare gli standard sanitari europei. È partita dalla lotta all’HIV, che stava spezzando una generazione, uccidendo migliaia di giovani e condannandone i figli ad essere malati sin dalla nascita. Non bastava però un bel centro di salute, con macchinari all’avanguardia, perché tutti e tutte ci andassero. La chiave trovata dal programma DREAM sono le donne, le più colpite dalla malattia ma anche le più facili da intercettare perché quando rimangono incinte arrivano finalmente a contatto con i centri sanitari. È con gli esami di prassi, gli stessi che si fanno in Italia durante i mesi di gravidanza scoprono di avere l’HIV. È un momento tragico e cruciale nella vita di una persona. Da qui in poi la sua esistenza cambia e come cambia è determinato, anche, dal personale sanitario che si trova davanti. Infatti, ogni test per l’HIV è accompagnato da un counselling. Qualsiasi sia l’esito, le informazioni sanitarie che si possono trasmettere in quel momento, possono salvare vite, migliorarne altre. La terapia antiretrovirale permette alle donne in gravidanza con HIV di dare alla luce un figlio/a sano, nel 99% dei casi, se si segue sempre la terapia: durante la gestazione, il parto e l’allattamento.

Ma sono diverse le cause che influiscono sull’aderenza delle donne alla terapia: l’influenza delle credenze popolari su una popolazione non scolarizzata, lo stigma che pesa sulle persone con HIV, le difficoltà che incontrano le donne ad avere accesso alla salute sia per questioni legate al genere che alla classe sociale e, infine, alla semplice lontananza dai luoghi in cui ci sono servizi sanitari. Il programma DREAM ha capito molto presto che nessuna lezione in cattedra dell’uomo “bianco” ha più presa della testimonianza vivente di donne con HIV, che grazie alla terapia non hanno trasmesso il virus ai figli, che ce l’hanno fatta, spesso da sole, ad uscire dal circolo vizioso di malattia, malnutrizione, stigma, isolamento.

Queste donne hanno cominciato a parlare con altre donne che appartengono alle stesse comunità, a raccontare le proprie esperienze. Da beneficiarie di servizi a motrici del cambiamento. La loro testimonianza è efficace poiché esse sono la prova vivente che la terapia ti fa stare bene e, soprattutto, lo sono i figli sani! Ciò ha portato grandissimi risultati nella lotta alla trasmissione da madre a figlio. Però, ad oggi, sono preoccupata. Si è puntato tutto sulle donne, soprattutto con lo scopo di non aumentare il numero di infezioni di madre in figlio, caricandole di una grande responsabilità. Le donne con HIV vengono arruolate nel programma di prevenzione della durata di circa 3 anni, per essere certi che il bambino sia sieronegativo. E poi? Non è affatto detto che le donne continueranno a seguire la terapia. Non è facile farlo per tutta la vita, c’è bisogno di un continuo lavoro di sensibilizzazione, supporto psicologico, modifiche alla terapia. Dal 2015 le Linee Guida Internazionali prevedono di testare tutti e tutte o almeno il 90% della popolazione, mettere in terapia tutti i “positivi” e seguirli affinché ci restino.

A questo proposito, la Comunità di Sant’Egidio sta sperimentando nuove azioni, insieme all’Università di Tor Vergata, per superare le barriere che ancora non permettono di sconfiggere l’HIV. C’è necessità di sensibilizzare gli uomini al tema, alla prevenzione, per portare più equità tra maschi e femmine (male involvement). Cerchiamo di mostrare che il modello più efficace è quello che include tutti e tutte nel cambiamento, con consapevolezza. Ancora una volta, saranno le donne con le loro competenze e la loro capacità di adattamento ad avere un gran da fare per lavorare insieme agli uomini, affinché si riduca il contagio.

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