Dopo di noi
“Come sarà il domani?” è la domanda che ci poniamo tutt* a intervalli più o meno lunghi, davanti all’arrivo di un figlio/a, al cambio di lavoro o ascoltando le notizie del telegiornale. Questa domanda se la pongono anche, con inquietudine, le persone con disabilità, i loro familiari, entrambi. Le risposte sono divergenti: dal “vivo alla giornata” al “non ci voglio pensare perché il tema mi fa soffrire” a “meglio muoversi per essere pront* quando ci sarà un bisogno immediato”.
Chi ha il dovere di predisporre strumenti e servizi per un futuro dignitoso per i propri cittadini è lo Stato. Ma dopo la Riforma del Titolo V della Costituzione del 2000, che ha redistribuito le competenze fra Stato e Regioni, sono aumentate le disparità di trattamento sul territorio nazionale e quelle tra Nord e Sud del Paese. Lo Stato, forse nel timido tentativo di orientare le politiche regionali, ha aumentato i fondi di propria competenza che poi vengono distribuiti alle Regioni con decreti di riparto spesso contenenti indicazioni piuttosto deboli rispetto al loro impiego. E così i fondi negli anni si sono moltiplicati: il Fondo per la non autosufficienza, i Fondi per i caregiver familiari, il Fondo per le periferie inclusive, il Fondo per l’inclusione delle persone con disabilità, ecc.
Ma quindi ci sono ci sono fondi in abbondanza? No, anzi! Come ha evidenziato la recente relazione della Corte dei conti sull’attuazione della legge 112/2016 (il cd “Dopo di noi”), non si sa quanti soggetti in Italia potrebbero beneficiare dei contributi. Si parla di un numero tra le 100.000 e le 150.000, sulla base dell’unico “dato al tempo ritenuto disponibile, cioè quello dei percettori di pensione di invalidità con indennità di accompagnamento, di età fino a 64 anni senza alcun riferimento alle persone con disabilità grave di cui all’art. 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104”. Se tenessimo buono il numero di 150.000, ogni persona potrebbe ricevere, sommando i due fondi, poco più di 600 euro all’anno per il progetto di vita indipendente. Le Regioni dovrebbero integrare mettendo a disposizione servizi, come ad esempio fa l’Emilia-Romagna, o voucher, strada percorsa dalla Toscana. O ancora attivando politiche per la domiciliarità come ha fatto il Veneto o il Friuli-Venezia Giulia. Osserviamo anche che la Lombardia stanzia solo 600 mila euro integrativi ai 2 milioni e 480 mila del Fondo statale Vita indipendente e infatti solo i cittadini di 31 ambiti distrettuali su 91 possono accedervi, con una sperimentazione che dura da 11 anni. Sintesi: “sperimentale” e per pochi.
E allora chi rimane esclus* spera di poter accedere ai contributi previsti dal “Dopo di noi” (e qui le note sono ancora più amare). Uno degli aspetti più enfatizzati in sede di approvazione della legge è stata la previsione di agevolazioni fiscali nel caso di sottoscrizione di un trust, uno strumento finanziario che consente di destinare i patrimoni familiari o una parte di essi, a soluzioni da usare un domani a favore della persona con disabilità. Ci si “spossessa” di una parte del patrimonio affidandolo con precise garanzie ad un terzo (fondazione, finanziaria o simili). Interessante, ma è una soluzione che in pochi possono permettersi. “Dopo di noi” solo per benestanti, quindi? È pur vero che la legge 112/2016 prevede anche la realizzazione di soluzioni abitative che riproducano il più possibile il contesto familiare. Il legislatore ha voluto evitare il perpetuarsi dell’istituzionalizzazione e favorire soluzioni alternative. Alternative anche a comunità e case alloggio con 10 o 20 ospiti.
In fase applicativa, tuttavia, le Regioni diventano molto più restrittive e la parola d’ordine diventa co-housing, un criterio ineludibile per la concessione dei fondi. Attenzione: nella visione del “Dopo di noi” l’abitare significa rigidamente “co-abitare”, e cioè, condividere gli spazi abitativi con altre persone rigorosamente con disabilità. Il cohousing, però, deve essere il frutto di una scelta personale (che dovrebbe essere anche reversibile) e soprattutto non è la soluzione per tutti. Al contrario, se la coabitazione diviene imposizione, si traduce nella sottrazione della possibilità di autodeterminarsi. Cosa che viola quanto scritto nella Convenzione Onu ratificata dall’Italia con la legge 18/2009: alle persone con disabilità deve essere riconosciuta “la possibilità di scegliere, su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione”.
Quanto siamo lontani oggi da quanto indicato dalla Convenzione Onu (ma anche dal buon senso)? Una cosa è chiara: questa è una battaglia per la dignità di persone che sono stanche di essere considerate inferiori per un retaggio culturale duro a morire nel nostro Paese. Una lotta per una vita degna di essere vissuta, non dentro una struttura residenziale trasformata, creando muri in cartongesso, in un appartamento condiviso grazie ai fondi previsti dal “Dopo di noi”.