
DONNE CHE NON VOGLIONO FIGL3, MA GENERANO PARENTELE
“Una su cinque non lo fa”, per dirla con il titolo del saggio di Eleonora Cirant. Non fa figlə, s’intende: eppure le donne childless, letteralmente senza figlə, pur non essendo un’anomalia statistica continuano a essere chiamate a giustificare l’eccentrica stranezza: “Perché non hai figlə?”. L’indagine riproduttiva è tesa a chiarire se la persona in questione “non può o non vuole avere figlə”. Nel primo caso sarà considerata “monca”, perché impossibilitata a realizzarsi nella presunta identità femminile materna, ma almeno “poverina”, cioè non colpevole. Se invece l’anomalia senza figlə, che in Italia si attesta oramai sul dato “una su quattro non lo fa”, è volontaria, allora si assume il principio di egoismo della childfree (letteralmente libera da figlə).
Se è vero, ed è vero, che la maternità continua a essere una non-scelta possibile per molte giovani, che si trovano nelle condizioni di non riuscire neppurea immaginare un futuro per se stesse – considerando la situazione economica, sociale ma anche globale, geopolitica e climatica–, figuriamoci quello di un figlio o una figlia; dall’altra parte un’indagine dell’ente fondatore dell’Università Cattolica, l’istituto Toniolo, ci mostra l’altra faccia della medaglia. Su 7mila donne tra i 18 e i 34 anni senza figlə, il 21% non vuole averne per deliberata scelta childfree, e il 29% si dichiara solo debolmente interessata.
Ora, invece di tentare di convincere queste giovani a intraprendere genitorialità cool, un dibattito serio sulla denatalità dovrebbe semmai orientarsi a mettere il 50% di coloro che desiderano averne nelle condizioni di diventare madri.
In questo modo è lecito supporre che parte di quel 29% oggi poco interessata potrebbe rivalutare l’idea. Ma non è questo il tema, in questa sede.Essere donne o persone childfree non significa essere cittadine o cittadini di serie B, e di questo 21% che di figliə non ne vuole sapere bisogna pur occuparsi: perché childfree non è sinonimo di family free, pregiudizio radicato sulla base del quale alle lavoratrici senza figlə si chiede in continuazione di farsi carico di turni serali o festivi di colleghe e colleghi con figlə. A livello statistico, le persone senza figlə sono semmai “quelle che più supportano i genitori e mantengono con loro relazioni profonde, oltre a farsi carico dei compiti di cura e assistenza. Le donne single e childfree tendono poi a creare reti di mutuo sostegno, e a portare il proprio contributo umano e di cittadine a beneficio della comunità. Per dirla con le parole della sociologa Amy Blackstone: “Le persone childfreenon si riproducono biologicamente, ma la riproduzione sociale è importante tanto quella biologica, e forse di piú” (da Dondi, Libere. Di scegliere se e come avere figli, 2024, Einaudi). Credere all’equazione maternità = gravidanza o parto, insomma, significa legittimare nuclei genitoriali abusanti mentre si delegittimano maternità sociali come l’adozione, che infatti continua a essere considerata una genitorialità di ripiego.
L’idea miope della unica genitorialità possibile intesa come biologica, tra l’altro, induce a negare il riconoscimento giuridico di famiglie non eteronormate; perché al nostro sistema fa più paura ammettere l’esistenza di parentalità non genetiche, basate su una scelta responsabile d’amore, che rendere bambine e bambini orfane o orfani, per legge, di padri o madri invece presenti.Ridicolizzare o intentare “crociate” contro genitorialità queer, sociali e non biologiche in generale – compresa la filiazione d’anima introdotta nel dibattito mainstream da Michela Murgia – sono altri modi ancora per esorcizzarne la portata rivoluzionaria.Eppure, quando Donna Haraway propone lo slogan Generate parentele, non bambini!, non sta promuovendo un rifiuto della maternità in sé, ma lancia un invito a esplorare altre forme di cura. Senza spingersi nel terreno spinoso della maternità cyborg profetizzata dalla stessa, a rischio di capitalizzare il desiderio del figlio come già accade con la GPA e i percorsi di fecondazione nel momento stesso in cui diventano “privilegio riproduttivo”, è chiaro che sia tempo di emanciparci dall’ossessione della parentalità biologica e del ventre rigonfio. Dobbiamo ripensare il concetto di famiglia come non monolitico: semmai come spettro o termine ombrello per tante famiglie possibili, alla base delle quali non c’è un patto di sangue, sesso o soldi, e quindi di potere, ma l’autodeterminazione, la responsabilità reciproca e, soprattutto, il consenso.

