DIRITTO E CULTURA LINGUISTICA - Per una cultura dell'inclusività legislativa e giudiziaria
Vincenzo Miri
Nell’ormai lontano 1994, un illustre giurista piemontese propose alla comunità scientifica un saggio dal titolo curiosamente provocatorio: “Il diritto muto”. L’autore, affidandosi a studi di antropologia ed etnologia giuridica, indagava la nascita delle strutture giuridiche essenziali, in una società arcaica di uomini e donne non parlanti. Così concludeva: “Il diritto era muto, le fonti erano mute, gli atti erano muti”. Ebbene. Assenza di parole, in quelle società, non significava di certo assenza di discriminazioni e carenza di strutture di potere. Anzi, il passaggio dal diritto "muto" al diritto "parlato" ha evidenziato, e tutt’oggi testimonia, una matrice culturale che, storicamente, ha riservato agli uomini la complessiva azione giuridica: dalla formazione delle leggi sino alla loro applicazione negli innumerevoli casi concreti.
Oggi, infatti, dinanzi a uno scenario di essenziale linguisticità giuridica, che vede il diritto esprimersi tramite parole, leggi e provvedimenti giudiziari, resistono ancora saldamente i segni di una precisa e voluta declinazione al maschile di professioni, testi legislativi, atti di parte. E se, poi, si allarga l’orizzonte d’indagine ad altri fattori di discriminazione, come l’orientamento sessuale e l’identità di genere, ci si avvede non solo della resistenza legislativa alla realizzazione di una piena eguaglianza e pari dignità sociale di tutte le persone, ma anche dell’opposizione, tutta linguistica e culturale, a declinarne contenuto e perimetro di tutela. Penso, naturalmente, alla infinita discussione che, nell’ultimo anno, si è generata intorno alla introduzione, all’interno della legge in discussione (anche) contro l’omo-lesbo-bi-transfobia, delle definizioni di quei fattori e del connesso riconoscimento di tutte le identità: quanto più si includeva, tanto più forti erano le resistenze. Insomma: nell’ambito giuridico il linguaggio esprime potentemente, marcandoli normativamente, costrutti sociali, rapporti di dominio o modelli di condotte, e porta con sé una visibile traccia di lontane sedimentazioni culturali e strutture di potere, che minano l’effettività dei diritti inviolabili di tutti e tutte.
Secondo la celeberrima nozione di Saussure, del resto, la lingua è un ‘sistema di segni che esprimono idee’; e allora, se il diritto è chiamato a regolare la società e a realizzare i valori costituzionali di piena ed effettiva eguaglianza, uniformando le proprie norme anche a disposizioni di trattati, convenzioni e altri strumenti sovranazionali, è solo, o principalmente, attraverso il linguaggio che può essere registrato un deciso cambiamento verso l’inclusività e il rispetto delle singole identità.
Gli attori e le attrici di questo cambiamento sono e dovranno essere tutte le persone chiamate a misurarsi con l’esperienza giuridica, su plurimi piani di azione: donne e uomini impegnati nella formazione di testi di legge, avvocati, avvocate, giudici, magistrate e magistrati, funzionari e funzionarie amministrative, solo per citare alcune figure. Riconoscere linguisticamente - è bene farne consapevole acquisizione - significa riconoscere giuridicamente e culturalmente; significa assicurare inclusione e valorizzare la compartecipazione alla medesima comunità, su posizioni di piena parità e nel comune impegno per la eliminazione di forme discriminatorie.
Tornano alla memoria i banchi dell’Università e le lezioni di teoria generale del diritto, ove si apprendeva che esistono norme ‘costitutive’, capaci di realizzare immediatamente il loro effetto (ad’esempio: “L’art. 100 è abrogato”). Ed è rilevante che questa natura sia stata individuata muovendo dal fenomeno della cosiddetta performatività di atti linguistici, che realizzano l’azione nel momento in cui sono enunciati (“La seduta è aperta”). L’insegnamento, chiaro, è che “con le parole si possono fare cose”. Educhiamoci a pensare, allora, che con le parole del diritto possiamo fare eguaglianza. Possiamo cioè eliminare, oltre a stereotipi, posizioni di dominio ancora effettive e attuali. Lo possiamo fare in più modi e con più modalità. Anzitutto sul fronte repressivo, al fine di sanzionare - sul piano civilistico o penalistico - condotte che a tutta evidenza si palesano discriminatorie. Quanto più sarà adeguato il linguaggio del testo legislativo, tanto più sarà efficace la tutela e si potranno scardinare modelli patriarcali e discriminanti. In proposito, mi pare utile ricordare l’esistenza dei cosiddetti “epiteti denigratori”. Si tratta di parole che vengono impiegate per umiliare e confinare persone in ruoli di inferiorità (penso ad espressioni turpi e immonde come “puttana”, “negro”, “frocio”) e che hanno la caratteristica, oltre a quella di generare insulti verso singole persone, di colpire tutto il gruppo sociale di riferimento, realizzandone uno stigma sociale proprio in virtù del carattere performativo del linguaggio: con la parola “frocio”, infatti, viene valutato come meritevole di disprezzo non solo un singolo individuo, ma tutte le persone omosessuali, che al momento dell’enunciazione vengono giudicate disprezzabili solo in quanto tali e perché tali. Quegli epiteti meritano particolare attenzione sanzionatoria sul piano giuridico: esprimendo disprezzo e ostilità verso certi gruppi, non solo rispecchiano sentimenti di sessismo, razzismo e omofobia, ma al contempo li generano e alimentano. Come ci insegna la filosofa del linguaggio Claudia Bianchi, le etichette denigratorie sono mezzi simbolici per normalizzare, naturalizzare o razionalizzare credenze, atteggiamenti ed emozioni negative contro persone, gruppi, comportamenti, affetti; per stigmatizzarli e de-umanizzarli; per modificarne la posizione all’interno della gerarchia sociale. Il contrasto, allora, deve essere fermo, severo e netto. Ed effettivo, affinché non si discuta solo di mere formule di stile, che hanno soltanto la volgare fortuna dell’ovvietà.
Quanto al piano proattivo, invece, educarsi anche a livello istituzionale a una dimensione inclusiva del linguaggio giuridico diviene fondamentale, per registrare ma anche promuovere il cambiamento. È sì vero, per tornare alla prospettiva di genere, che talune regole grammaticali prevedono il maschile in funzione cosiddetta “neutrale” (es.: “tutti i cittadini”, intendendo anche “tutte le cittadine”), ma potrà in ogni caso valorizzarsi, almeno a livello istituzionale, la valenza inclusiva: penso all’art. 82 dello Statuto della Regione Toscana, ove si precisa che “L’uso, nel presente statuto, del genere maschile per indicare i soggetti titolari di diritti, incarichi pubblici e stati giuridici è da intendersi riferito a entrambi i generi e risponde pertanto solo ad esigenze di semplicità del testo”. Il linguaggio, del resto, poiché mezzo universale con cui si attua la comprensione interindividuale, descrive una determinata realtà. In quanto tale, registra la società storicizzata, ma è anche una leva formidabile per modificarla, attraverso la generazione di nuovi usi linguistici da adottare in un dato momento storico e in una data esperienza giuridica. Il linguaggio del diritto, allora, esprimendo un ampio e multiforme significato (semantico, normativo e inferenziale), deve farsi strumento politico per la ridefinizione, in posizione di piena eguaglianza, delle relazioni tra persone di un ordinamento giuridico, anche e soprattutto abbandonando il proprio carattere androcentrico e riconoscendo piena cittadinanza linguistica a tutti e a tutte. Femminilizzando la lingua, includendo identità, promuovendo pari dignità.