Scienze e tecnologie

DA PROMETEO AL PHONO SAPIENS

A cura di Riccardo Basso
23 Nov 2023

Il celebre mito greco racconta che Prometeo rubò il fuoco agli dei per restituirlo agli esseri umani, che ne erano stati privati. Questo causò l’ira di Zeus che sottopose Prometeo a un supplizio quotidiano: fu incatenato a una roccia e ogni giorno un’aquila gli dilaniava il fegato, che poi ricresceva, giorno dopo giorno.

Per l’umanità è l’inizio dell’avventura con la tecnologia: sprovvista dei mezzi naturali per sopravvivere e priva di una solida base istintuale che la guidi, inizia il ricorso alla tecnica per la costruzione di un mondo simbolico e materiale. Non senza la consapevolezza dello strappo che questo poteva comportare rispetto alla natura e all’ordine delle cose.

Lo sviluppo tecnologico incentrato sul calcolo matematico, sulla conoscenza scientifica riduzionistica del mondo e sulla razionalizzazione di quanti più processi possibile continua a far attraversare all’umanità confini impensabili fino a poco tempo prima, con i notevoli vantaggi che tutti conosciamo.

Tuttavia, Hegel ci ha insegnato che l’incremento quantitativo, oltre un certo limite, si trasforma in una variazione qualitativa e questo vale anche per il nostro rapporto con la tecnologia. Abbiamo applicato la tecnologia a un numero talmente ampio di aspetti della nostra vita e della nostra organizzazione sociale che questo mutamento, apparentemente quantitativo, ha acquistato una dimensione qualitativa: è mutato il rapporto dell’essere umano con sé stesso, con gli altri e con il mondo.

Tra i tanti, lo ha messo bene in evidenza Günther Anders subito dopo la Seconda guerra mondiale, dedicando a questo tema i due volumi significativamente intitolati L’Uomo è antiquato. Anders coniò la locuzione vergogna prometeica, per indicare il senso di vergogna “che si prova di fronte all’ ‘umiliante’ altezza di qualità degli oggetti fatti da noi stessi”. A valle di questa condizione l’essere umano rincorre le macchine: dopo aver rinunciato a essere competitivo con loro, aspira (senza nemmeno sempre riuscirci) a funzionare almeno come un loro ingranaggio. La decisione dei problemi viene così delegata alle macchine e tendono a perdere di importanza quei problemi che, non essendo gestibili attraverso il calcolo, non sono risolvibili da una macchina. A cambiare sono stati anche la percezione di noi stessi e il tipo di domande che tendiamo a porci, singolarmente e come collettività: ci interroghiamo sempre meno su temi quali l’anima, la felicità, l’ambiguità del reale, la sofferenza e, quando lo facciamo, non di rado ricorriamo a calcoli e modelli (psicometrici, ad esempio).

Anders scriveva in un contesto analogico; ma le sue parole sono tuttora attuali. Byung-Chul Han parla di questa trasformazione antropologica nel libro Le non cose – Come abbiamo smesso di vivere il reale, dove definisce il soggetto contemporaneo phono sapiens. Il phono sapiens usa quotidianamente tecnologie digitali che si frappongono tra lui e gli enti di realtà, mediando o sostituendosi del tutto a questo rapporto che sinora ha costituito il perno per la costruzione della soggettività, dell’incontro dell’Altro nella sua alterità, della costruzione di un mondo.

La tecnologia è dunque ambigua: può essere strumento di liberazione, ma, in maniera talvolta subdola, può diventare un elemento che ci fa perdere il contatto con le cose umane, innescando perdite e mutamenti di portata epocale e antropologica.

Karl Jaspers, scrivendo nel 1925 la Psicologia delle visioni del mondo, registrò due posture limite nei confronti di questa ambivalenza della tecnica: quella di coloro che tendono a prenderne le distanze e quella di chi vi si accosta con entusiasmo. La prima tende a dimenticare che la tecnica “è il presupposto sul quale la nostra vita riposa”, la seconda, invece, “che l’immagine tecnica del mondo non dice dove risieda il senso, il fine, il tutto”, questa attività spirituale che non può essere delegata alla macchina. Sono evidentemente due posture limite e la maggior parte delle persone si colloca da qualche parte in mezzo, talora più vicino a un polo, talora più vicino a un altro.

Il tema della tecnica offre numerose opportunità e sfide al diversity management: pensiamo solo alle possibilità senza precedenti offerte in termini di accessibilità e alla questione dei bias degli algoritmi. Un po’ meno indagata è forse l’esigenza di riconoscere spazio ai diversi atteggiamenti nei confronti della tecnica. È un tema che spesso si tende a sussumere, un po’ superficialmente, in quello del rapporto tra le generazioni e che, invece, come ci ha mostrato Jaspers, investe dimensioni esistenziali più ampie, che travalicano la dimensione generazionale. Farle coesistere e dialogare in maniera generativa è probabilmente il maggior contributo che il diversity management può dare a un sano sviluppo della tecnica nella nostra società.

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