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COME STAI?

Come trasformare una domanda distratta in un ponte per il benessere, anche in azienda
A cura di Luisa Boaretto
30 Mar 2024

‘Come stai?’ Quante volte ci scambiamo questa domanda senza vero interesse? Quante volte rispondiamo ‘bene’ o riceviamo un ‘tutto ok’ senza accorgerci di come ci sentiamo noi o l’altrə? Eppure, se ci pensiamo, queste parole hanno un grande potere: possono essere un ponte, un sostegno, un’opportunità per connetterci veramente con qualcunə. In certe culture, come quella anglo-americana, questa domanda diventa un automatismo, quasi un intercalare, tanto che spesso devi ripeterla per ottenere una risposta onesta.

Dunque, perché non iniziamo a riflettere sulla salute mentale rispondendo alla domanda in prima persona? Come sto io? Posso dirti subito che la corsa di ieri mi ha stancata, ma sono in grado, con la stessa immediatezza e consapevolezza, di descriverti come sta la mia mente e forse anche il mio cuore? Perché è vero che parliamo di salute mentale, ma forse dovremmo parlare anche di salute emotiva. E poi sono in grado di capire come stai tu e le altre persone che mi circondano: familiari, amici e amiche, colleghə. E cosa dire di noi come gruppo, come società? E poi loro, quellə lontani da me, quellə che magari è chiaro che in questo momento, per motivi di guerra, fame, povertà, malattia, clima, non stanno bene. Ecco, già capire come sto, come stai, come stiamo, diventa difficile e se poi lo andiamo a declinare in ambito sociale, dove la società è l’impresa in cui lavoriamo, le scuole in cui vanno i nostri figli e le nostre figlie, gli ambienti che frequentiamo o non frequentiamo, la domanda diventa difficile.

Guardando al contesto aziendale, nel mio caso una grande multinazionale americana, noto che gruppi come gli Employees Resource Groups possono aiutare. Questi gruppi offrono uno spazio sicuro dove è possibile esprimere disagio senza giudizio. Perché non è solo tramite le attività ufficiali, ma tramite la sicurezza psicologica che possiamo esplorare come si sta e creare un’atmosfera in cui ci si sente liberə di dire che no, non si sta bene, che oggi non è una buona giornata e non so se ne voglio parlare.

Tuttavia, se io o tu non stiamo bene, sul lavoro o a casa, abbiamo gli strumenti per cercare aiuto o aiutare chi ci sta vicino? Alcune aziende offrono programmi di assistenza ai e alle dipendenti o altre iniziative legate al benessere. Ma è abbastanza?

In tutto questo, la cultura gioca un ruolo fondamentale: in alcune il malessere mentale è ancora un tabù. Non solo nelle culture asiatiche, ma anche alle porte di casa. Vivo in Svizzera tedesca, un paese all’apparenza perfetto ed efficiente, ma dove i problemi di salute mentale coinvolgono circa il 30% dei e delle giovani tra i 14 e 19 anni, una delle percentuali più alte di Europa e il tasso di suicidi è più del doppio dell’Italia.

Una riflessione che mi viene in mente è che dopo il Covid ci siamo resə conto che quella sottile linea che pensavamo dividesse la vita privata dalla vita lavorativa non esiste. La nostra vita è un’unica realtà, fatta di lavoro, relazioni, emozioni e fisicità. E quindi ci aspettiamo che il nostro datore o la nostra datrice di lavoro si preoccupi della nostra salute, sia fisica che mentale. Ma forse le aziende non sono del tutto pronte a questo cambiamento. Hanno focalizzato l’aiuto sui singoli individui anziché considerare il loro contributo con un respiro più ampio, il loro ruolo, appunto, sociale. Alcuni cambiamenti possono essere considerati dei progressi. Per esempio, la mia azienda, come altre, ha introdotto il ‘’design your day”: la libertà per chi non lavora su turni, di disegnare la giornata intorno ai propri impegni lavorativi o non lavorativi come i bambini e le bambine da portare al corso, un famigliare che sta male, un evento inaspettato.

Ma se come aziende guardassimo un po’ oltre, abbracciando un ruolo più ampio e cercando di aiutare la collettività anziché solo le singole persone, forse potremmo fare di più. Perché, per quanto possa sembrare paradossale, nel momento in cui la collettività diventa più importante del singolo, magicamente le singole individualità tornano al centro. Se, come aziende, cercassimo di usare il nostro potere e la nostra influenza sociale, non solo per guardare al ritorno economico, ma al benessere della collettività; forse, se fossimo un po’ meno egoistə, ritorneremmo a mettere le singole persone al centro e le supporteremmo con un approccio più autentico, più mirato e solido che ci permetterebbe di progredire oltre.

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