Intervista a Valentina Tomirotti
La prima cosa che colpisce di Valentina Tomirotti è, senza dubbio, la determinazione. La netta e pungente consapevolezza che muove ogni sua affermazione o scelta.
Oggi parliamo di identità, come sai. Prova a descriverti in poche parole.
Sono nata a Mantova nel 1982, figlia unica. Donna, bianca, eterosessuale, femminista e di sinistra (la sinistra non pagliaccia però, quella del popolo orientata all’ascolto e alla soluzione).
Nel 2006 mi sono laureata in Scienze della Comunicazione e giornalismo a Verona. Nel 2008 sono diventata giornalista pubblicista. Oggi scrivo su La Repubblica e Vanity Fair occupandomi quotidianamente di disabilità attraverso la comunicazione.
Questa è la tua identità?
Distinguiamo subito l’identità dall’identikit. Per identikit, infatti, mi riferisco all’incasellamento che la società utilizza come modus operandi perché è eterogenea e abituata a dare un nome a qualsiasi cosa. Del resto, questa è una delle conseguenze di come la nostra lingua è strutturata: una lingua binaria e molto sessualizzata (che divide in maschile e femminile) può solo descrivere una società che sia binaria. E conseguentemente questo ricade anche nei comportamenti sociali che adottiamo.
Come si chiama la tua malattia?
Displasia diastrofica. È una malattia che ho dalla nascita, genetica, ma non degenerativa. Dall’ecografia morfologica sarebbe stato possibile identificare la malattia, ma i medici non se ne accorsero. È stato con il parto cesareo che mia mamma ha trovato “la sorpresa di compleanno”. Siamo nate lo stesso giorno! Mamma e papà sono sposati dal 1978 e sono proprio una di quelle coppie che non esistono più.
Forse la tua nascita li ha uniti ancor di più.
Sì. Nella medesima situazione altre coppie sarebbero di certo “scoppiate”.
Comunicare le disabilità è diventato per te un focus nel tempo, oppure te ne occupavi già dai tempi dell’università?
Ho sempre voluto scrivere, perché considero la scrittura un luogo senza barriere. Se una persona comunica lo fa per arrivare a tanti. Poi nel tempo le cose son cambiate. La mia attività non è una missione, non voglio cambiare il mondo, bensì seminare qualcosa di utile. Mi sono accorta che in Italia non c’è nessuno che racconti al prossimo le cose utili.
Molto banalmente: i miei contenuti sono di tipo informativo. Ad esempio: posso avere lo sconto sulla bolletta della luce perché ho un apparecchio elettrico come la carrozzina? Come ottengo lo sconto sulla benzina in quanto beneficiaria della L104? E ancora: ho preso la patente perché ho visto una ragazza nella mia stessa condizione di disabilità ottenerla. Fino a quel momento, ogni volta che mi rivolgevo alle istituzioni per farne richiesta ricevevo una risposta negativa.
La disabilità che posto occupa nell’affermazione della tua identità?
La disabilità parla prima di me, mi presenta anche se non voglio. È l’abito che fa il monaco.
Al giorno d’oggi è sempre più diffusa l’abitudine a esprimere apertamente e in modo marcato ciò che si è, o chi si è, per dargli valore. O più valore. Ma quando questa esigenza cade nella spettacolarizzazione, allora smetto di condividerla. Ecco un esempio: la cascata di coming out a cui stiamo assistendo. Non giudico ovviamente la scelta del singolo individuo, ma mi domando quanta pressione sociale ci sia dietro. Perché si sente l’esigenza di dichiarare il proprio orientamento sessuale? È come dover dire se si è di destra o di sinistra. Fare coming out (su una qualsiasi tematica d’identità, non solo sull’orientamento affettivo), acquisisce secondo me valore nel momento in cui si ha anche la forza di diventare role modeling, e quindi il contesto in cui si inserisce quella rivelazione è significativo per qualche motivo. È importante accompagnare l’ascoltatore/l’ascoltatrice medi a collocare sempre una notizia all’interno del contesto di riferimento. Alcuni coming out hanno davvero la forza del role modeling e ha senso che vadano diffusi dai media, su altri trovo totalmente inutile costruire una notizia.
Quindi, senza voler misurare o giudicare l’esperienza personale di nessun*, penso talvolta sia inutile o controproducente fare coming out. Perché una persona decide di fare coming out, domando? Perché la fa stare bene, rispondono. E perché la fa stare bene? La pressione sociale la “obbliga” a fare una dichiarazione per stare bene?
E come distingui le une dalle altre?
Secondo me i social sono un buon modo per capire se una persona è sincera nel suo attivismo o semplicemente cavalca un’onda o una moda. Lo si coglie subito.
L’integrità di alcune persone non è in vendita. Per altre, invece, esporsi è solo mettere in mostra il proprio giardino, entrare in una cricca, attivare collaborazioni strategiche.
Quello che a me spaventa un po’ invece è che, una volta fatta una dichiarazione d’identità, non è più possibile tornare indietro. Ad esempio, io voglio sentirmi libera di definirmi una persona di sinistra e allo stesso tempo di dichiararmi insoddisfatta e critica nei confronti della sinistra, ogni volta che lo penso senza per questo essere identificata come persona di destra.
Ti capisco e condivido questo pensiero.
Torniamo all’intersezionalità: una persona con disabilità è più discriminata se è donna?
Assolutamente sì, per tanti motivi e in molti ambiti. Dal mondo del lavoro, alla prevenzione sanitaria e poi pensa a questo: le donne nascono con la possibilità – se lo vogliono – di generare figl*. Ma non è così per tutte. Per le donne con disabilità parliamo ancora di sterilizzazione coatta.
Ma avviene realmente? Al giorno d’oggi?
Ti posso assicurare di sì. E con il permesso della famiglia, come strumento di tutela: protegge dagli abusi sessuali e facilita nella contraccezione, oppure può essere utilizzata per scopi medici.
Come in Irlanda e Slovenia, in Italia viene utilizzata come misura urgente e “terapeutica”, pertanto, non viene criminalizzata come reato specifico, ma può essere perseguita come circostanza aggravante ai sensi dell’articolo 583, comma2, del codice penale.
Parliamo di sanità pubblica? Italiana?
Sì. Tieni presente un’aggravante: anche nel mondo della disabilità ci sono gerarchie di discriminazione e le persone con disabilità psichiche, al giorno d’oggi, sono quelle più emarginate e quindi abusate.
Spesso c’è poca possibilità di un dialogo paritario con loro, quindi se non sono adeguatamente tutelate possono addirittura subire discriminazioni e abusi senza manco esserne consapevoli.
Tornando al tema della maternità: la gravidanza di una persona con disabilità non porta dei ragionamenti in più, o più complessi?
Certamente. Porta a pensare alla possibilità conclamata che il bambino possa avere delle malattie, in primo luogo. Ma non è un buon motivo per non avere a possibilità di scegliere.
La mia esperienza è questa: io non voglio procreare in primo luogo perché non ne sento il bisogno.
Inoltre, non voglio avere un figlio/a, se non ne posso godere fino in fondo, ma non ci sono regole valide per tutti, ad ognuno deve essere garantito il diritto.
Cosa intendi?
Ho 40 anni e ho bisogno di essere seguita e supportata in molte attività quotidiane (usare il bagno, vestirmi, viaggiare...), come potrei prendermi cura di un bebè? Non potrei nemmeno tenerlo/a in braccio. Non voglio un bambino/a, se non ho la possibilità di avere un legame “standardizzato” con lui o lei.
E non c’è modo che questa possibilità venga supportata dal mondo medico-sanitario?
No. E aggiungo: perché se non posso avere figli biologici, non ho la possibilità di adottare nel momento in cui ho un compagno (o una compagna) e garantisco un solido e sano ambiente di crescita al nascituro?
Anche in ambito sessuale una donna con disabilità è più discriminata di un uomo con disabilità?
Sì. L’uomo che vuole avere un rapporto sessuale, ma non può, è soggetto cosciente dei propri desideri (certo... poi chiede l’assistente sessuale e, in Italia, le prestazioni di assistenti sessuali sono considerate merce del demonio, ma questo è un altro capitolo).
Invece, nel caso di una donna con disabilità, lei diventa l’oggetto sessuale di qualcun altro.
Girava un video su Youtube, che poi è stato denunciato e rimosso dalla rete grazie a una petizione, dove Sdrumox, uno streamer con molto seguito (che ha già all’attivo un ban permanente da Twitch) partecipa al podcast “Fapensare” e parla a ruota libera di diversi argomenti. La ruota è talmente libera che i tre ragazzi arrivano a dire, fra le risate, che è molto appagante fare sesso con donne delle storpie, cieche, in carrozzina, con sindrome di Down, ecc. perché dipendono da completamente da te e puoi “rigirarle come vuoi”.
Che opinione hai, da giornalista, sull’identità italiana oggi? Esiste ancora?
Ognuno fa per sé. Tanti “sé” fanno un semigruppo. Il popolo italiano c’è, ad esempio, per il calcio, ma non per il governo, nel bene o nel male. Anche prima in piazza non c’era mai nessuno, anche quando c’era la sinistra al governo e molte altre persone che la pensavano diversamente - mi rendo conto di dire una cosa generalista – ma anche allora in piazza non c’era nessuno, se non i soliti quattro co****ni che fanno quello di mestiere. Ma il popolo non è il sindacato. Il popolo è il fruttivendolo, sono io, sei tu. Io non sono mai andata in piazza perché questo Paese non mi stimola a dedicare del tempo a manifestare la mia opinione in quel modo. Questo non vuol dire che non dedichi tempo a manifestare il mio pensiero in altre modalità.