Claudia Parzani: coraggio e privilegio di sbagliare
Gentile Presidente Parzani, ho avuto il piacere di leggere il suo ultimo libro “La rivoluzione degli outsider”, che ho molto apprezzato e da cui sono rimasta affascinata. Mi ha colpita molto una frase di p.115, dove riporta una citazione di Kamprad che esordisce dicendo: “Fare errori è un privilegio”, le va di raccontarci perché?
Come racconto nel libro, uno degli stereotipi più diffusi nella nostra società è quello che dobbiamo avere successo. Che il successo ci definisce, ci misura. L’errore ha sempre una connotazione negativa. Si confonde l’aver fallito con l’essere dei falliti. Siamo intrappolati in questa gabbia culturale da cui dobbiamo però uscire. Per imparare a vedere il valore dell’insuccesso e comprendere che commettere errori è un privilegio riservato a pochi: a coloro che hanno coraggio, il coraggio di provarci, di mettersi in gioco, di rischiare.
Il suo gioco di metafore e immagini nel libro, soprattutto all’inizio, è molto interessante ed è stato bello seguirla nei vari panorami che ha osservato dalle sue finestre. Se dovesse pensare a un’immagine per descrivere il futuro, quale sceglierebbe?
Mi viene in mente una grandissima rete che si estende attraverso il mondo, con fili luminosi che collegano ogni parte del globo. Una vasta rete di fibre ottiche che si dirama come radici attraverso continenti e oceani, con punti di luce che rappresentano nodi di innovazione e interconnessione. Questa rete ha una lucentezza vivida, alimentata dalla sostenibilità e dalle energie rinnovabili, che riflettono un mondo in cui la tecnologia non solo avanza, ma lo fa rispettando e preservando l’ambiente naturale e le persone. Attraverso questa rete, dati, idee e risorse viaggiano, senza barriere né confini, rendendo il nostro pianeta un unico, singolo organismo in cui tutti i componenti lavorano in armonia come in un corpo umano perfetto per il bene comune. In questo futuro ideale, le tecnologie avanzate sono strumenti che migliorano la qualità della vita per tutti e per tutte, favorendo la collaborazione e l’innovazione. Ogni individuo, organizzazione e nazione è un elemento indispensabile di un organismo vivente globale, dove il progresso è misurato non solo in termini di avanzamenti tecnologici, ma anche in termini di prosperità condivisa e benessere collettivo. Una sinfonia di luce, un’immagine che rappresenta perfettamente il futuro che sogniamo: sì, interconnesso, efficiente e guidato dalla tecnologia, ma anche profondamente umano e orientato al bene comune.
Lei stessa è una outsider, come racconta anche a p. 72. Posso chiederle di raccontarci le sue emozioni verso questa presa di coscienza? Ricorda un primissimo momento in cui si è sentita outsider?
Da giovanissima sono stata spesso l’unica donna attorno a tavoli esclusivamente maschili, sono stata molte volte la persona più giovane a ricoprire una posizione di vertice, la prima sud-europea a candidarsi per ruoli manageriali. Mi sono sentita inizialmente sola, un po’ disorientata ma poi con il tempo e con l’esperienza ho imparato ad apprezzare i vantaggi dell’essere outsider: posso portare in ogni ruolo che ricopro la mia unicità e il mio talento.
Mi ha colpita il racconto del suo faldone ricco di ritagli di giornali, storie e testimonianze, interviste di grandi donne (e uomini) di successo. Come dice lei: “Alzare lo sguardo e vedere che nessuno ci somiglia, o nessuno a cui vorremmo somigliare può essere davvero deprimente”. Com’è nata l’idea di raccogliere storie e volti d’ispirazione per Lei? A chi ha deciso di assomigliare?
Sono stata sempre una persona molto curiosa, mi hanno sempre appassionata le storie di persone che con coraggio hanno rotto gli schemi, hanno portato uno stile nuovo, hanno trovato soluzioni innovative. Negli anni ho raccolto interviste e articoli di persone, imprenditori, manager con l’idea di trovare ispirazione per il futuro, di riflettere a chi avrei voluto assomigliare e chi no. Non ho avuto uno specifico modello di riferimento ma da tutte queste storie ho tratto qualcosa, mi hanno aiutata a capire la direzione che volevo prendere.
L’elogio del fallimento e dell’insuccesso è un tema centrale del libro, arricchito anche dalle sue esperienze personali, come il suo aver dovuto ripetere l’esame da avvocata più volte. Cosa le ha insegnato il “fallimento” (anche se questa parola, come dice Lei, non ci piace molto)?
Molte cose: la perseveranza, la pazienza, mi ha insegnato a comprendere che le cose non sempre vanno come ci sembra ovvio debbano andare, che spesso ci sono persone più brave di noi e magari ingiustizie che non possiamo cambiare ma che abbiamo il dovere di combattere. Però mi ha insegnato soprattutto che è sempre importante provarci, avere il coraggio di buttarsi, di rischiare e di cadere. Perché quella caduta può servire soprattutto a chi viene dopo di noi. Serve a fare un passo avanti e aprire una porta, aiuta a dare un’opportunità a chi prima non ce l’aveva.
Un altro punto del libro che ha destato grande stupore in me è a p. 175, quando racconta che al piano del consiglio di amministrazione non c’erano nemmeno i bagni per le donne. E più volte le hanno ripetuto che non c’erano i “bagni delle segretarie” a quei piani. Ci sarebbero molte domande da fare e da farci, Lei che sentimenti prova? Il suo spirito sembra sempre molto ottimista, mi chiedevo: ha mai provato rabbia per queste situazioni?
È un tema di cultura e di stereotipi radicati nella nostra storia. Quando mi sono trovata in queste situazioni, mi sono sentita forse sola. Ho pensato alle mie figlie, alle loro amiche, alle figlie dei miei amici, a tutte quelle giovani ragazze di talento a cui devono essere date le opportunità che meritano. E ho scelto di stare dalla parte di chi manca. Di stare dalla parte di chi non è mai stato invitato, di chi non trova un posto al tavolo. Ho iniziato la mia battaglia per le donne, che ho poi esteso ai giovani, ai rifugiati e in generale a tutte le minoranze. Perché tutti noi valiamo e tutti devono avere un posto al tavolo.
È vero che ‘si è sempre fatto così’, ma è vero anche che a un certo punto, le cose fatte sempre nello stesso modo hanno iniziato a non andar più bene con il mondo in continua evoluzione, come giustamente fa notare nel libro. E dev’esserci stato un momento in cui noi donne ci siamo rese conto di esser state escluse da tanti luoghi, come racconta nella sua esperienza personale a p.166: “Pur essendo entrata nelle stanze dei bottoni, continuavo a rimanere parzialmente fuori. Esclusa in tanti modi diversi. Le cene di cui non sapevo e che scoprivo per caso, o a cui non potevo essere invitata perché erano tra amici storici, compagni di scuola o di merende; le partite di calcetto, le giornate al golf e tante altre occasioni a cui inizialmente ho chiesto spesso di partecipare sortendo sempre la medesima reazione: «Cara, sei davvero gentile a voler venire anche tu, ma non ti divertiresti, è roba da maschi, sicuramente è una serata meglio spesa con le bambine»”. Secondo Lei, com’è potuto accadere? E come possiamo riprendere gli spazi che ci spettano?
Anche qui entrano di nuovo in gioco gli stereotipi e la cultura dominante. Stereotipi che parlano di donne che non possono ambire a determinati ruoli perché sono “lavori maschili”, non adatti a loro. Dobbiamo lavorare sulla cultura e sugli stereotipi per far sì che non siano profezie che si autorealizzano e al tempo stesso rivedere il nostro modo di interpretare il potere, dobbiamo guardare a nuovi modelli di leadership, dobbiamo lasciare andare i pregiudizi e creare spazi in cui le donne, ma anche i giovani in generale, possano più facilmente contribuire, sentirsi al posto giusto, sapere che portano valore e vederlo riconosciuto. Un nuovo modello di potere basato sulla condivisione, sull’ascolto, sull’attenzione verso gli altri, sull’inclusione. Anche per affrontare le tante sfide future, abbiamo bisogno di incoraggiare un cambiamento promuovendo nuovi modelli di leadership e nuovi modi di lavorare e di fare impresa.