
CITTADINANZA
di Abdul Zar
Nell’ultimo decennio si è acceso, sia in ambito politico che sociale, il dibattito sulla questione della cittadinanza. Nonostante siano diverse le componenti da tenere in considerazione, mol- te di queste, spesso, mancano all’appello nella discussione mainstream.
In Italia esiste già una legge sulla cittadinanza. Si tratta della legge no 91 del 1992, una norma di quasi trent’anni che ha bisogno di una riforma per poter rispecchiare un’Italia diver- sa e cambiata nel tempo.
La questione non è quindi “cittadinanza sì” o “cittadinanza no”, ma “quanto rendiamo complesso e ingiusto” il godimento di un diritto che non danneggia in alcun modo nessun soggetto (privato o pubblico che sia), bensì concede diritti e doveri in capo a chi se ne avvale.
Attualmente la cittadinanza si acquisisce per ius sanguinis (diritto di sangue), e questo vuol dire che se almeno uno dei due genitori è italiano, il minore acquista in automatico la cittadinanza italiana.
Ciò che è stato proposto in parlamento, invece, prende il nome di Ius Soli Temperato e Ius Culturae.
Una delle motivazioni che ha sempre avanzato quella parte politica fortemente contraria alla riforma è che, introducendo lo Ius Soli Temperato e lo Ius Culturae, si andrebbe a regalare la cittadinanza a chiunque, e a incentivare nuovi arrivi di immigrati in cerca di cittadinanza europea.
Questa è la più grande disinformazione che si continua a fare quando si affronta questa tematica: legare la riforma all’immigrazione.
Lo ius soli temperato, conferirebbe la cittadinanza a quei bambini nati in Italia da genitori che vivono sul territorio da almeno 10 anni, e, questo, mostra come questa riforma poggi sul presupposto che i genitori del nascituro siano persone residenti in maniera stabile che contribuiscono con il lavoro e le tasse allo sviluppo della società.
Lo Ius Culturae, invece, è stato pensato per riconoscere come cittadini i bambini e le bambine che non nascono nel paese, ma che arrivano sin da piccoli e crescono in Italia completando qui il ciclo di studi.
È un diritto che non costa assolutamente nulla allo Stato, e non rappresenta nemmeno un obbligo in capo a quei genitori che vorranno rinunciarvi e scegliere di dare alla prole la propria nazionalità originaria.
Secondo le norme vigenti una persona che nasce in Italia da genitori stranieri deve aspettare fino al compimento della maggiore età per poter richiedere la cittadinanza. Ed è molto importante tenere a mente che non esiste nessun meccanismo automatico nemmeno in questo caso.
Al compimento del diciottesimo anno, infatti, la persona ora adulta ha un solo anno di tempo per reperire i documenti e chiedere la cittadinanza. Passato questo brevissimo tempo di 12 mesi una persona nata e cresciuta in Italia perde la “cor- sia preferenziale” e deve percorrere lo stesso l’iter di tutte le persone straniere che vivono nel paese da almeno dieci anni (termine minimo per poter richiedere la cittadinanza).
Un aspetto piuttosto crudele, nella normativa attuale, è quel- lo che lega l’ottenimento della cittadinanza alle possibilità economiche di chi ne fa richiesta.
Perché, una volta superato l’anno di termine per chiedere la cittadinanza, una persona deve poi dimostrare di avere tre anni di reddito? Il diritto allo studio e alla realizzazione di sé viene fortemente minacciato.
A 19 anni una persona senza cittadinanza deve decidere se lavorare per soddisfare il requisito economico e ottenere ciò che gli spetta, o studiare sapendo, ad esempio, che senza cittadinanza non potrà fare né Erasmus, né stage all’estero, e una volta finiti gli studi non potrà partecipare a concorsi pubblici. Infatti, uno dei requisiti principali di questi concorsi
è proprio il possesso della cittadinanza italiana.
Questo legame imprescindibile tra cittadinanza e reddito fa chiaramente emergere quanto l’Italia percepisca le persone straniere non come componenti della società a tutti gli effetti, ma come forza lavoro, meritevoli di ottenere i documenti solo ed esclusivamente se produttivi.
Un individuo che nasce e cresce in Italia non ne diventa cittadino perché lo dice un pezzo di carta, ma lo è già poiché cresce plasmato dalla cultura, dalle abitudini, dalla letteratura, dagli usi e costumi, dalla storia, dal cibo e dalla poesia del luogo in cui vive. Quindi non si tratta di “creare nuovi cittadini”, ma semplicemente di riconoscere chi già lo è, dando loro il diritto di vivere appieno la propria vita.
Questa riforma è necessaria, è urgente ed è doverosa.
La vita delle persone non può essere rovinata per via di gio- chi di potere e di poltrona.
La politica, quella vera, è “per e verso” i cittadini. Sempre.