CI SONO CONFINI E CONFINI
I primi ricordi che abbiamo dell’uso della parola confine potrebbero risalire a quando abbiamo cominciato a confrontarci con la geografia: i confini delle regioni italiane e degli Stati, i confini naturali e quelli artificiali. Il passaggio alla realtà è più complesso: da bambino chiesi di vedere il confine tra il Lazio e la Toscana e rimasi deluso perché c’era solo un cartello e non una linea; fui anche molto colpito dalla severità del confine tra Austria e Ungheria, quando attraversai la Cortina di ferro.
Il tema del confine si divide dunque tra la dimensione della mappa, geografica o simbolica, in cui demarca o sembra demarcare linee nitide, e quella del territorio reale, in cui può presentarsi in forme più o meno stabili, chiare, univoche. La sua funzione è delimitare: serve per distinguere oggetti (il confine tra il mare e la costa), concetti (il confine tra l’idea di porta e quello di finestra), rami del sapere (il confine tra la filosofia e la scienza), spazi pubblici (il confine tra Stati) e/o privati (il confine tra l’abitazione e la strada), corpi (la pelle come confine), sfere giuridiche (la mia libertà confina con la tua) ed etiche (i confini tra il bene e il male).
Ernesto C. Sferrazza Papa, con riferimento ai confini geo-politici, ha scritto che essi non sono nell’ordine dell’oggetto, ossia del prodotto dell’azione umana, ma del processo (bordering) materiale, simbolico e politico-sociale, che concorre a far sì che possiamo parlare di un confine. Detto altrimenti, il confine implica una relazione tra ciò che sta da una parte e ciò che sta dall’altra, ed è nella dialettica di questa relazione che si produce ed esplica la sua funzione.
Non tutti i confini funzionano allo stesso modo. Alcuni sono flessibili, altri rigidi: la battigia è un confine tra mare e terra più sfumato, instabile e “attraversabile” di una diga; i confini tra due rami del sapere possono essere interpretati in maniera rigida, per ragioni accademiche, o flessibile, quando studiosi di matrici diverse conducono studi assieme; i confini tra gli spazi possono essere muri invalicabili (il Muro di Berlino) o porosi (il confine tra due Stati dell’Unione europea). Le membrane biologiche, come quelle delle cellule o della pelle, non sono barriere impermeabili ma costituiscono la zona di scambio e dialogo tra l’organismo e l’ambiente. È in questa dialettica tra delimitazione e transito che si gioca l’importanza del confine.
Massimo Recalcati ha scritto che “La vita umana – individuale e collettiva – necessita del confine e delle sue funzioni di protezione e di iscrizione identitaria. La vita senza confine è infatti solo la vita schizofrenica. Al tempo stesso però il confine può smarrire la dimensione plastica della sua funzione irrigidendosi. In questo caso non serve più la vita e la sua affermazione – ‘lo scambio della vita con l’altro’ – ma la ostacola diventando un agente tossico”. E Zygmunt Bauman ci ha mostrato le opportunità e i pericoli, in termini di identità, inclusione ed esclusione, connessi a quella che ha battezzato modernità liquida, ossia la sparizione dei confini che caratterizza numerosi aspetti del nostro tempo in Occidente.
I confini sono dunque necessari ma si devono presentare come dispositivi porosi, che garantiscano comunicazione e scambio. Messa così, possiamo affermare che il diversity management è un’arte del confine? La diversità esiste nella misura in cui riconosciamo come meritevoli di attenzione confini che permettono alle persone di distinguersi tra loro (ad esempio in base al genere in cui si identificano, agli studi svolti, alle abilità possedute); l’inclusione, invece, presuppone che questi confini non siano muri ma dispositivi che consentono il dialogo, la contaminazione e la reciproca risonanza.