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CI PENSO SU - SALUTE MENTALE

A cura di Riccardo Basso
27 Mar 2024

“Certamente la moderna distinzione tra salute e malattia psichica è in qualche misura giustificata, ma quello che mi lascia perplesso è la sicurezza con cui tale distinzione viene operata”.

Così scrisse E. Fromm in una delle prime pagine del suo I cosiddetti sani. La difficoltà di definire cos’è la salute mentale ci avverte che il tema è scivoloso e mal si presta a un discorso fatto di certezze. Forse anche per questo Platone affermò che la follia ci è data per dono divino: essa si sottrae alle possibilità del logos, che non riesce ad afferrarla, spiegarla, inquadrarla senza che sfugga qualcosa di essenziale. Molti secoli più tardi E. Husserl scrisse che “La scienza è pur sempre un’ideazione che l’umanità ha prodotto nel corso della sua storia, sarebbe perciò assurdo se l’uomo decidesse di lasciarsi definitivamente giudicare da una sola delle sue ideazioni”. Interrogarsi da un punto di vista filosofico vuol dire allora domandarsi se è possibile, e a quali condizioni, un discorso sulla salute mentale e le implicazioni che esso ha. 

Uno degli autori che di più si è dedicato a indagare la genealogia della follia è stato M. Foucault: ne ha ripercorso l’evoluzione fino ai giorni nostri, mettendo in luce come, a seconda dei momenti storici, abbiano prevalso considerazioni che erano – talvolta anche contestualmente - pragmatiche (emarginazione di chi rappresentava, nella percezione comune, un pericolo per la collettività), filosofiche (la follia come vizio della ragione), moralistiche (la follia come incrinatura della volontà o dell’istinto), giudiziarie (per definire il confine tra insani e criminali), mediche (con la nascita della psichiatria). Per Foucault, il discorso sulla follia, come gli altri discorsi sull’essere umano, sono dispositivi di sapere–potere, che si esercitano nella microfisica delle relazioni familiari, sociali, giudiziarie, mediche, individuando di volta in volta chi versa in una situazione di sanità e chi no, quali comportamenti sono accettabili e quali devianti. Ma, nota sempre Foucault, attraverso le epoche il discorso sulla follia ha avuto anche un’ulteriore dimensione: nella letteratura, nella pittura, nel teatro, essa è stata una chiave di lettura dell’esistenza umana che si affanna nelle cose mondane a fronte della loro vacuità; la persona folle è quella che dice quelle verità sulla nostra condizione che nessuno ha il coraggio di affermare.

Nel corso del ‘900 molti studi hanno tentato di sottrarre a questi limiti il discorso sulla salute mentale. La psichiatria fenomenologica, avviata da filosofi e psichiatri quali L. Binswanger e K. Jaspers, è partita dalla considerazione che ciascuna persona ha una sua modalità di stare al mondo, di sentire, di rapportarsi agli altri, di vivere la temporalità, per cui, come scrive U. Galimberti, “l’alienato non è (…) colui che vive ‘fuori del mondo’, ma colui che nell’alienazione ha trovato l’unico modo per lui possibile di essere-nel-mondo, essendo l’alienazione null’altro che l’estremo tentativo di un uomo di divenire, nonostante tutto, se stesso”.

Stare nel mondo vuol dire anche vivere nella società in cui ci troviamo: non dovremmo allora mai dimenticare, citando ancora Fromm, che “una mente sana può albergare solo in una società sana”. In questa prospettiva, anche le numerose forme di alienazione cui è esposto l’individuo occidentale della ipermodernità sono minacce alla salute mentale. Ad esempio, la società della performance, del consumismo, della virtualizzazione espongono a quella “fatica di essere sé stessi” cui A. Ehrenberg ha dedicato uno dei suoi libri più conosciuti. La salute mentale riguarda il diversity management non solo perché la sua mancanza può essere una forma di disabilità ma anche perché è un tema che interessa ciascuna persona nel cuore della sua unicità, ossia del suo rapporto particolare con il mondo. Questa complessità richiede un ascolto competente della sofferenza psichica e la consapevolezza che il lavoro, con la rete di relazioni che esso comporta, può essere al contempo una leva terapeutica (o quantomeno di sollievo) rispetto alla sofferenza ma anche il detonatore o l’amplificatore del disagio. Inoltre, se è vero che c’è un nesso tra salute mentale e contesto sociale, allora l’ascolto della sofferenza psichica può costituire non solo il punto di partenza per aiutare chi la vive ma, a volte, anche una preziosa fonte di indizi su cosa non sta funzionando nel contesto in cui siamo.

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