Privilegi e alleanze

Cathy La Torre lotta contro le ingiustizie

Intervista a Cathy La Torre, avvocata ed attivista.
A cura di Marta Bello
18 Dic 2024

Cosa ti ha spinta a diventare un’avvocata specializzata in diritti umani e civili?

Ho capito di avere questa vocazione quando avevo 8 anni. Sono nata nel 1980 in un piccolo paese della provincia di Trapani, a Erice. Durante l’adolescenza ho vissuto gli anni dello stragismo, poiché il mio paese aveva una delle più alte densità mafiose della Sicilia, oltre a essere un luogo storico della mafia isolana, completamente controllato e gestito da loro fino agli anni ‘90. Questo vissuto ha profondamente influenzato la mia percezione di cosa sia giusto e ingiusto, non sbagliato, che afferisce a un concetto ben diverso. A 19 anni mi sono iscritta all’Università di Bologna, dove ho potuto studiare solo grazie a una borsa di studio. Vengo da una famiglia proletaria, mio padre era un operaio e mia madre una casalinga, e senza quel supporto i miei genitori non avrebbero potuto mantenere una figlia all’università. Ci tengo a dirlo perché si parla sempre meno di diritto allo studio, e avere la volontà di studiare ma non poterlo fare, è una delle forme d’ingiustizia più gravi che ci siano.
Sono attivista dal 1998, e già a 20 anni mi chiamavano “Avvocathy” perché ero sempre in piazza al fianco delle persone marginalizzate, impegnata nei picchetti fuori dalle fabbriche, quando ancora si facevano. Non tollero le ingiustizie, soprattutto quando sono legate a caratteristiche personali, quelle con cui nasciamo e che non scegliamo, ma che ci portano poi a subire delle discriminazioni e a diventare vittime.

Wildside – Human First, il tuo studio legale, ha un forte impatto, come nasce? 

Nasce da un’intuizione mia e di Silvia Gorini, con cui collaboro da 20 anni. Nel 2018 abbiamo fondato una società tra professionistɜ. Oggi ci occupiamo a 360° di DE&I, privacy, diritti umani e civili, oltre a ESG per le aziende, di cui sono la Responsabile. Il filo conduttore del nostro lavoro è la lotta alle disuguaglianze. Operiamo nel “wild side” del diritto, ovvero nel lato “selvaggio”, poco esplorato.

Nel tuo lavoro ci sono dei momenti particolarmente intensi a livello emotivo? Come li gestisci?

Faccio psicoterapia due volte a settimana (quando non potevo permettermelo, c’era il SSN). Oggi ho il privilegio di poterla fare privatamente. Assumo anche una terapia psicofarmacologica, avendo una depressione cronica diagnosticata a 14 anni. La meditazione e il supporto delle persone vicine sono fondamentali, così come lo è la squadra di avvocatɜ del nostro studio. Non ci sono momenti particolarmente difficili: tutti i giorni lo sono. La complessità risiede nel fatto che dinnanzi a certe ingiustizie vorresti agire, ma tutto l’impegno non potrà mai colmare i problemi sistemici. Ad esempio, l’ingiustizia di una donna che non può mettersi in salvo da una situazione di violenza domestica perché non ne ha le risorse economiche, non ci sono posti liberi nelle case rifugio poiché sono tutte al completo e i servizi territoriali sono insufficienti perché i fondi destinati sono sempre più scarsi. Quasi tutte le forme di ingiustizia, che poi portano alle diseguaglianze sociali, sono sistemiche. Alcune persone dicono che dopo un po’ quasi ci si abitua al dolore, ma per me non è così. Vivo sulla mia pelle le ingiustizie subite dalle altre persone, sia mie assistite, sia persone che seguo pro bono nel mondo delle associazioni, e va bene così.

Cosa sono i privilegi? In che modo si possono usare per generare alleanze autentiche?

Penso che il privilegio abbia bisogno di un’attenzione particolare per essere indagato, perché oggi in un mondo estremamente globalizzato, diviso in base alle marce della propria economia fatta di capitalismo e consumismo, c’è una sottilissima linea che separa un diritto da un privilegio e dipende molto dal luogo in cui ci troviamo. Per noi il passaporto è un diritto, mentre per una persona in Uganda è un privilegio. Per noi l’acqua potabile è un diritto, mentre per lɜ cittadinɜ di Enna, che ricevono l’acqua potabile ogni sei giorni, è un privilegio. Vivere in pace per noi è un diritto, ma a Gaza è un privilegio negato da oltre cinquant’anni. Quelli che per alcunɜ sono diritti, per altrɜ sono privilegi. Fino a quando ci saranno luoghi nel mondo in cui quelli che noi consideriamo diritti essenziali o universali non sono rispettati, i diritti rimarranno, di fatto, privilegi. Questa è, secondo me, la più grande ingiustizia da sanare. È fondamentale diventare consapevoli di questa linea sottile e persino riconoscere che anche tra persone privilegiate esistono differenze: una lesbica non bianca ha sicuramente meno privilegi di me, che sono lesbica non binaria, ma bianca. Riconoscere i propri privilegi è il primo passo; il secondo è creare alleanze. La consapevolezza non deve essere accompagnata dal senso di colpa, perché tutto è frutto di circostanze, ma deve spingerci a essere alleatɜ di chi sta lottando per dei diritti, anche se non ci riguardano direttamente. I social da una parte sono un terreno fertile per la costruzione di alleanze, dall’altra favoriscono l’abbattimento di queste potenziali alleanze perché c’è una competizione continua, una vera e propria gara a chi è più attivista, a chi ha il patentino di maggiore radicalità. Io sono sempre stata molto distante da questa mentalità, secondo me tutte le persone che possono dare un contributo, anche se piccolo, sono le benvenute. Penso che, anche se in buona fede, si tenda ad allontanare queste persone. Il loro timore di dire qualcosa di sbagliato prende il sopravvento, e spesso si tratta di un timore fondato. Può capitare di usare un termine sbagliato o obsoleto, non dovremmo giudicare, ma fare un passo verso l’altrǝ e spiegare in modo gentile perché sarebbe meglio usare un’altra espressione. Anche io, che sono attivista da molti anni, ho visto il linguaggio cambiare nel tempo e devo aggiornarmi continuamente. 

Quali sono alcuni aspetti più importanti su cui si dovrebbe intervenire in Italia oggi? 

Ci sono alcune cose che secondo me devono essere fatte subito, come una legge sul Fine Vita perché se la vita è un diritto, anche scegliere come morire lo è. C’è anche una grande ipocrisia perché l’eutanasia avviene già ogni giorno in tante case e in tanti reparti d’ospedale. Un altro tema è il sostegno a tutte le forme di genitorialità (per single, la stepchild adoption) senza pregiudizi, considerando che in Italia c’è la fecondità  più bassa d’Europa. Poi c’è il grande tema del lavoro. La parità di genere non si può affrontare solo con la discriminazione positiva (cioè con le quote di genere) ma richiede un grande lavoro di decostruzione dei ruoli di genere: tutte le bambine devono pensare di poter fare tutto. Ognunǝ ha il diritto di essere se stessǝ.

Ti va di raccontarmi un momento molto significativo del tuo percorso?

Sicuramente uno dei momenti più importanti della mia vita è stato quando insieme a MIT, (Movimento d’Identità Trans), abbiamo iniziato a fare delle cause pilota affinché fosse riconosciuto il diritto delle persone transgender a cambiare i propri documenti e ad aggiornarli in linea con la loro identità di genere, anche se non avevano concluso tutti gli interventi chirurgici. Dopo 9 anni di cause pilota, alla fine, la Corte di Cassazione riconobbe il diritto di cambiare nome anche per le persone che non si erano sottoposte a interventi sugli organi genitali; un diritto poi statuito e confermato dalla Corte Costituzionale. Questo ha cambiato la vita di migliaia di persone. Ho conosciuto centinaia di persone trans che avevano 50, 60, 70 anni e che non avevano mai votato nella loro vita perché si vergognavano ad andare davanti ai seggi con un documento e una foto che non lɜ rispecchiava minimamente. Quando, nel 2015, la Corte di Cassazione statuì questo diritto, girai per un anno e mezzo l’Italia pro bono insieme ad alcune associazioni come Transgenere, Fondazione Libellula e molte altre, e aiutai tante persone trans a cambiare finalmente il loro nome sui documenti. Mi ricordo di Francesca, aveva 72 anni, e mi disse: “Mi hai regalato la cosa più importante che io potessi desiderare e cioè di essere seppellita con il mio vero nome e con la mia vera identità”. Quando ci penso ho ancora i brividi. Lei oggi non c’è più, però sulla sua tomba c’è scritto il suo vero nome: Francesca. Sembrerà una cosa piccola, ma non lo è, credimi.Per chi vive quel sopruso, pensare di non avere dignità nemmeno nella morte, è un’ingiustizia inspiegabile. Aggiungere questi piccoli tasselli di eguaglianza e giustizia al mondo mi fa sentire che ne vale davvero la pena, anche se ricevo continui insulti e attacchi. 

Leggi questo numero
Registrazione Tribunale di Bergamo n° 04 del 09 Aprile 2018, sede legale via XXIV maggio 8, 24128 BG, P.IVA 03930140169. Impaginazione e stampa a cura di Sestante Editore Srl. Copyright: tutto il materiale sottoscritto dalla redazione e dai nostri collaboratori è disponibile sotto la licenza Creative Commons Attribuzione/Non commerciale/Condividi allo stesso modo 3.0/. Può essere riprodotto a patto di citare DIVERCITY magazine, di condividerlo con la stessa licenza e di non usarlo per fini commerciali.
magnifiercrosschevron-down