CANONI E CONTRO - CANONI

11 Apr 2022

Umberto Eco diceva: “Se riflettiamo sull’atteggiamento di distacco che ci permette di definire come bello un bene che non suscita il nostro desiderio, comprendiamo che noi parliamo di bellezza quando godiamo qualcosa per quello che è, indipendentemente dal fatto che lo possediamo. È bello qualcosa che, se fosse nostro, ne saremmo felici, ma che rimane tale anche se appartiene a qualcun altro.” (Storia della Bellezza, Bompiani 2018).

Il concetto di bellezza ci accompagna da sempre, fin dall’antichità. Tra i Greci vi era chi lo associava alla natura e alla bontà, oppure a un sistema di armonia e proporzioni del corpo, la cultura Rinascimentale pur rifacendosi alla tradizione greca, lo associava invece alla spiritualità e al divino (la “donna angelicata” di Dante e Petrarca). Questo per fare alcuni esempi lontani nel tempo. Tutto è cambiato con l’avvento della seconda rivoluzione industriale del IX secolo e la conseguente trasformazione delle realtà urbane. Fino ad arrivare all’epoca moderna dove anche il concetto del bello assume le stesse caratteristiche del fenomeno della moda e, cioè, di una ricerca continua di novità e una ricorrente sostituzione dei prodotti - seguendo le velocità dello spirito del tempo.

Oggi, ed è iniziato tutto con l’avvento di Internet, viviamo giorni in cui alla vita reale si affianca prepotentemente quella virtuale, giorni dell’egemonia incontrastata dei social network. È normale e fisiologico che, in presenza di questi nuovi modi di comunicazione, anche la moda e il concetto del bello abbiano subìto e subiscano trasformazioni. Il bello è diventato anche imperfezione, inclusione, autenticità. Esoprattutto appare più democratico.

A questo proposito non possiamo non parlare dell’importanza che nuove figure, come influencers e bloggers, hanno assunto da una decina d’anni a questa parte, e allo stesso tempo del grande dibattito spesso molto critico nato intorno ad essi. 

Nel 2016 suscitarono vasto clamore le parole indignate della Direttrice di Vogue America, Anne Wintour, che criticò aspramente la massiccia presenza di fashion bloggers e influencers nelle prime file delle sfilate, il cui unico scopo era a suo dire “cambiare outfit ogni ora” per “pavoneggiarsi davanti gli obiettivi con abiti presi in prestito”, dichiarando così “la morte dello stile”. 

Perché il pubblico abbia abbandonato le riviste patinate in favore dei nuovi strumenti comunicativi, primo fra tutti Instagram, è questione sulla quale ci si interroga tra addetti ai lavori e non, da diverso tempo. Una risposta è sicuramente da ricercare nell’immediatezza dello strumento “social media” che consente di arrivare subito all’obiettivo, che sia diventare follower di un influencer o di una stilista, seguire una sfilata in diretta streaming o altro, esso crea l’illusione che chiunque possa ottenere successo e visibilità, indipendentemente dalle competenze, dall’esperienza e dalla fatica. L’agognato “tutto e subito”: basta avere faccia tosta e uno smartphone.

Queste trasformazioni riguardano esattamente il concetto di bellezza convenzionale e non convenzionale. Sono cambiati i parametri di riferimento perché è cambiata la società. 

La moda per sua natura non è inclusiva; come afferma la sociologa Patrizia Calefato nel suo interessante e accurato libro “La moda e il corpo, teorie, concetti e prospettive critiche” (Carocci editore, 2021) storicamente la moda borghese è stata (ed è tutt’ora) concepita come un sistema destinato prevalentemente a classi agiate, a corpi magri, a generazioni giovani, a pelle bianca, a costituzioni fisicamente sane. Tuttavia, la moda può e dovrebbe avere gli strumenti per diventare sistema democratico di inclusione e non di esclusione.

In questa direzione si è mossa anche la Camera Nazionale della Moda Italiana che nel 2019 ha pubblicato un manifesto sulla diversità e l’inclusione individuando 10 punti che dovrebbero portare a un cambiamento significativo del “sistema moda”. Il punto 5 in particolare evidenzia la necessità di un recupero della dimensione etica dell’estetica al fine di arrivare a un’evoluzione culturale degli standard di bellezza, visto che in passato alcuni di questi canoni di bellezza fisica e modelli psicologici si sono rivelati estremamente dannosi. 

Da diversi anni, ormai, gli stilisti cercano di adeguarsi a questa trasformazione della società per essere in linea con i nuovi concetti di orientamento sessuale, diversità e identità di genere. Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, è stato il primo a portare in passerella una modella dalla bellezza non convenzionale come Armine Harutyunyan con l’intento di promuovere una bellezza universale che sovverta i canoni classici. E sempre lui ha scelto una ragazza con sindrome di down, Ellie Goldstein per pubblicizzare un mascara del brand, spingendosi ancora più avanti in questa sacrosanta campagna a favore dell’inclusione e della diversità. Certo c’è sempre chi solleva dubbi sull’autenticità dell’intento di un brand accusato di voler fare solo parlare di sé e che, quindi, tratti l’operazione come puro marketing, non è nostra intenzione entrare nel merito.

Come osserva la sociologa Patrizia Calefato nel già citato saggio, le immagini della moda oggi giocano molto sulla trasversalità dei tratti sessuali. Sulle passerelle vediamo modelli efebici e fanciulle piatte come ragazzini adolescenti; l’immagine di personaggi pubblici dichiaratamente trans non rappresenta più l’eccezione; infatti, fu la griffe Givenchy tra i primi marchi del lusso a lanciare come testimonial della sua campagna pubblicitaria nella stagione 2010-2011 la modella brasiliana trans Lea T. 

La moda anche in passato ha proposto modelli di donna mascolina e androgina. Il cinema ci ha regalato icone meravigliose come Greta Garbo e Marlene Dietrich oppure uomini dallo stile spiccatamente effeminato come Rodolfo Valentino. Il genere è un concetto in movimento e la moda è in grado di esprimere il genere sessuale come rappresentazione e performance; in questo senso essa dimostra come il suo linguaggio che solo in apparenza sembra frivolo può invece porsi con intelligenza e senza pregiudizi all’altezza delle problematiche sociali e civili del nostro tempo, soprattutto di quelle che hanno come protagonista il corpo. (La moda e il corpo. Teorie, concetti, prospettive critiche. Carocci editore, 2021).

Quello che sarebbe auspicabile è che non si facessero più classificazioni dell’essere umano usando aggettivi ormai fuori moda e fuori tempo. La moda sarà davvero inclusiva solo quando non ci saranno più etichette e la bellezza non sarà più una necessità bensì un modo di esprimere sé stessi e la propria natura, qualunque essa sia per essere in armonia col mondo che ci circonda. La bellezza dovrà diventare stile di vita, avendo come priorità benessere e salute e non potrà prescindere dall’amore per sé stessi e per gli altri. È evidente che non esiste un unico modo di essere belle e belli. Questo è il messaggio che la moda ha iniziato ad abbracciare e che deve impegnarsi a portare avanti con coraggio e autenticità.

Clara Carlini

1971, laurea in scienze politiche, 

former fashion correspondent. 

Annalia Luciano

 1971, fashion consultant e co-fondatrice di Amodino Milano

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