BUTCHER’S CROSSING
Quando si pensa alla contrapposizione tra Uomo e Natura nella produzione letteraria mondiale, difficile che la mente non vada subito a Jack London, al capolavoro di Melville, Moby Dick, e a Il vecchio e il mare di Hemingway. Questa lista però non potrebbe essere completa senza Butcher’s Crossing, uno dei quattro romanzi dello scrittore angloamericano John Williams, riscoperto in Italia in anni recenti grazie alla pubblicazione dell’opera completa da parte della casa editrice Fazi (nella traduzione di Stefano Tummolini).
Il western, incentrato su una lunga battuta di caccia al bisonte, presenta i temi classici del genere, primo tra tutti l’idea dell’Ovest come simbolo di libertà, di terra franca in cui scomparire e reinventare sé stessi, lontano dai vincoli della vita di città e della società civilizzata. La grandezza dell’opera di Williams sta però nel mostrare questa utopia per quello che è: non la massima forma di autoaffermazione, ma la prova dell’atteggiamento antropocentrico e pregno di hubris che contraddistingue la natura umana.
I due protagonisti del romanzo – il giovane e sprovveduto William Andrews, che arriva a Butcher’s Crossing da Boston per “sentirsi vivo”, e Miller, cacciatore di bisonti senza nome, a indicare una non totale appartenenza al genere umano – seppur in apparenza contrapposti sono in realtà molto simili, in quanto condividono l’arrogante convinzione che la Natura esista in funzione dei loro desideri e si ribellano a ciò che gli è toccato in sorte, anche se in modi diversi: il primo abbandona la prospettiva di una brillante carriera e di una vita agiata per inseguire il sogno di “diventare ciò che è già” e di far uscire quell’animo avventuroso che sente soffocato in città; il secondo, che a prima vista sembrerebbe perfettamente integrato nella wilderness (essendo in parte selvaggio lui stesso), riesce a vivere solo in contrasto, non in armonia, con l’ambiente naturale, che avverte come limitante e per cui prova un’avversione profondissima, e non conosce altro linguaggio che quello della sopraffazione per sentirsi uomo.
Questo diventa particolarmente evidente durante la battuta di caccia ai bisonti: pur raggiungendo in fretta l’obiettivo stabilito, Miller continua a decimare la mandria, in preda a una furia omicida che lo rende più simile a una bestia che a un essere umano, finché non resta più nessun esemplare. Perfino il tempo è un elemento, al pari di acqua, aria, terra e fuoco, che il cacciatore si illude di poter piegare alla propria cupidigia, nonostante le rimostranze dei compagni che cercano di farlo ragionare. Nel tentativo di imporre la propria supremazia, infatti, dimentica una legge fondamentale, e cioè che a ogni azione umana corrisponde una reazione naturale: il suo peccato di superbia impedirà al gruppo di riuscire a rientrare in città prima dell’inverno, con conseguenze devastanti che renderanno vano tutto il lavoro svolto.
Ecco allora che diventa manifesto il vero tema del romanzo: non la contrapposizione tra prateria e città, e nemmeno tra natura e cultura, bensì tra Natura, forza mutabile e immobile al tempo stesso, né buona né cattiva, e natura umana, arrogante e insaziabile per definizione. Ma è uno scontro che gli uomini sono destinati a perdere per sempre, a meno che, come realizza Andrews alla fine del romanzo, non abbandonino la propria vanità per riconoscersi come una parte, un piccolo tassello di quella potenza divina che da secoli tentano invano di soggiogare.