
Barbie grandi speranze
Siamo nell’estate 2023 e nei cinema è proiettato il rosissimo blockbuster Barbie: un inno all’empowerment femminile, con la celebre bambola che diventa il simbolo di lotta al patriarcato. Si ride e si sorride, si riflette con leggerezza vedendo Barbie depressa quando realizza di non incarnare il vessillo di emancipazione che nel suo piccolo mondo pensava di essere.
Uscite dalla sala, ci reimmergiamo nel mondo reale in cui ci confrontiamo con “Si sa che le donne ricordano tutte le scadenze!”, “Tanto noi donne siamo multitasking”, “L’istinto materno è innato, è questione di genetica”.
Sono frasi che, a volte, provengono dagli uomini che ci circondano e, spesso, da altre donne. Dette con tenerezza, con confidenza, con complicità. Non vogliono né ledere né sminuire le altre donne. Però, confermano un preconcetto sistematico, un bias: che i cervelli di uomo e donna siano intrinsecamente diversi.
Come illustra Gerd Gigerenzer nel suo capitolo “The Idea of a Peculiarly Female Intelligence: a Brief History of Bias Masked as Science” (2022), la ricerca scientifica stessa ha alimentato il preconcetto; prima ha collocato su due poli opposti l’intelligenza maschile e femminile (creativo vs analitico, empatico vs razionale), successivamente ha teorizzato una uguaglianza nelle componenti ed una differenza nella quantità di intelligenza disponibile (con la donna minus habens). In ultimo ha definito uguali caratteristiche, uguali “quantità”, ma diversa variabilità, ovvero più geni e più idioti nel mondo maschile, mentre nel mondo femminile troviamo una sorta di ‘medietà’.
La scienza stessa è caduta in un errore sistematico, quello di giustificare il bias utilizzando la valutazione scientifica in modo falsato e confermatorio; tuttavia, nella nostra contemporaneità, questo è stato superato e ci si interroga sulla differenza nei processi decisionali più che nella “dotazione di base”.
Rimane il fatto che nella nostra cultura attuale questo pregiudizio sulle differenze di base del cervello maschile e femminile, ce lo portiamo dentro. E in larga parte è un pregiudizio interiorizzato, è quello che noi donne ci aspettiamo di poter essere e fare. È ciò che, in parte, contribuisce a creare la minoranza di donne in posizioni manageriali, in ambito STEM, la percezione di dover scegliere tra la maternità e la crescita professionale.
Non è in discussione solo l’accesso a queste posizioni, ma anche come guardiamo ed immaginiamo le donne che in queste posizioni si ritrovano.
Perché una donna che ricopre un ruolo manageriale, una donna ingegnera o sviluppatrice IT, una scienziata, spesso è rappresentata come meno donna, più mascolina, meno orientata alla famiglia, con un cervello più maschile. Inoltre, se un manager o un ingegnere sono figure comuni, una donna che riveste questi ruoli deve essere un portento, un’eccezione alla regola.
Come se, scegliendo di allontanarsi da quegli ambienti professionali aderenti alla rappresentazione del cervello femminile si fosse allontanata dal suo essere donna, forse senza nemmeno sceglierlo, ma solo perché nata (fortunatamente o no) con un cervello meno da donna. E forse con questo ci confrontiamo tutta la vita, con il dubbio di capire se il nostro è un cervello più da donna o se possiamo anche ragionare come un uomo, essere potenti, razionali e analitiche. È un questionarsi interno e anche esterno, un continuare a valutare se le donne sono in grado di dirigere, di ricercare, di implicarsi in territori strettamente tecnici. In breve, ci poniamo delle domande che fanno riferimento a delle presunte differenze di cui attualmente la scienza nega l’esistenza, ma che ancora ci portiamo dentro, cui ancora ci ancoriamo.
Per uscire da questo pregiudizio che culturalmente ci portiamo dentro, forse basterebbe chiederci come ci siamo entrate. Perché il concetto di personalità giustifica la vastità di differenze interindividuali, quindi ogni donna ha il diritto di ragionare su di sé, sulla propria direzione evolutiva, senza sentirsi costretta in scelte da “cervello femminile” o da “cervello maschile”, che non fanno altro che rimarcare il binarismo di genere.
Avremmo bisogno di chiederci in che modo una specifica donna eccelle nel dirigere, nel guidare, nell’applicarsi in un ambito tecnico e scientifico, utilizzando al meglio il suo cervello, i suoi processi decisionali, il suo patrimonio biologico, il suo istinto che nulla hanno a che fare con il genere.
Questo cerca di dirci Barbie quando capisce che la sua salvezza è uscire dallo stereotipo che ha sempre rappresentato e, finalmente, questo ce lo dice anche la scienza.