Identitàarte e architetturastoria

ARTE LIBERATA 1937-1947

Rubrica arte
A cura di Gianluca Cabula
22 Mar 2023

“Da otto anni io e i miei colleghi e collaboratori aspettavamo questa ora, da otto anni, da quando, cioè un telegramma cifrato ci tramutò da direttori di gallerie e musei in imballatori di opere d’arte, in trasportatori di casse e ci gravò le spalle di una responsabilità di cui sentimmo costantemente il peso e l’impegno, non soltanto di fronte a noi stessi, alle nostre coscienze di uomini e di studiosi, ma di fronte a quel mondo di civiltà e di tradizione che superando tanto grave crisi dell’umanità, un giorno avrebbe avuto il diritto di chiederci conto di ogni minuto di ogni energia spesi nel far buona guardia, in un così eccezionale momento storico, al patrimonio artistico affidato alle nostre povere mani, perché lo aiutassimo a valicare la tempesta e a tramandarsi a tempi futuri”. Sono le parole che Bruno Molajoli, Soprintendente alle Gallerie di Napoli, pronunciò in occasione dell’inaugurazione del Museo di San Martino: era il 1948 e si usciva da un lungo, terribile conflitto. Un conflitto in cui un campo di battaglia – collaterale certo, ma fortemente identitario – era stato proprio il patrimonio artistico italiano. Questa battaglia vide in trincea tutta una generazione di giovani funzionarie e funzionari delle Belle Arti, impegnati in un’opera strenua di salvaguardia, condotta quasi sempre in solitudine, con mezzi limitatissimi, al di fuori dei doveri d’ufficio, spesso in sostanziale autonomia rispetto alla vacillante amministrazione fascista.

Questa storia intende testimoniare la mostra Arte Liberata 1937-1947. Capolavori salvati dalla guerra: la storia di un lavoro sottotraccia, consegnato finora a una pluralità di memorie individuali, e riassunto finalmente oggi in una dimensione corale. Cento le opere in mostra, da Piero della Francesca a Luca Signorelli, da Tintoretto a Guercino, fino a Hayez, Previati, Medardo Rosso, a cui si legano foto, filmati, lettere, diari, documenti d’archivio, quasi a comporre l’ideale sceneggiatura di un film con molti protagonisti. C’è Pasquale Rotondi, che dorme con la Tempesta di Giorgione sotto il letto, mentre sposta da Urbino a Sassocorvaro e poi a Carpegna opere provenienti da tutta Italia. C’è Emilio Lavagnino, che gira nella sua topolino tra i borghi del Lazio, per recuperare quanto più possibile. Ma ci sono anche tante, valentissime donne: come Palma Bucarelli, che di notte, da sola, trasporta da Roma a Caprarola le opere della Galleria d’Arte Moderna, o Fernanda Wittgens, salvatrice di un’intera collezione, quella di Brera, che sarebbe stata altrimenti annientata dalle bombe, o ancora, a Palermo, Jole Bovio Marconi, che riesce a ricoverare in un’abbazia le metope di Selinunte. A unire i nomi più o meno famosi di questi eroi, che mai si percepirono come tali, un rigoroso, altissimo impegno: veicolare il valore etico del patrimonio, pensare la storia dell’arte non come un gingillo per anime belle ma come un preciso atto di responsabilità a cui tutti siamo chiamati, anticipando così nella loro coscienza quello che sarà il portato dell’articolo 9 della Costituzione.

Dalla mostra: Arte Liberata 1937-1947,
Roma Scuderie del Quirinale

Ma la riflessione, per questi funzionari, si spinse anche oltre l’identità professionale: proprio in quei musei vuoti, spogliati delle loro opere, prese il via la formulazione di un nuovo approccio ai temi della museografia e del restauro, di cui gli allestimenti del dopoguerra saranno debitori.

Certo, in quel frangente drammatico, non tutto si poté, e le ferite furono in tanti casi profonde. Ci si dovette confrontare con l’insaziabile appetito dei tedeschi e molto spesso cedergli delle prede. Il sogno di Hitler, com’è noto, era edificare un grande museo a Linz, nella sua Austria natale, in cui raccogliere opere razziate o forzosamente svendute. Come era stato il caso, nel 1938, di un grande capolavoro dell’arte classica: il discobolo Lancellotti, che apre magnificamente l’esposizione, ceduto al Führer per un prezzo irrisorio ed esposto nella Glyptothek di Monaco, a suggellare l’eredità di un potere antico ma anche quel canone di bellezza pura su cui il nazismo avrebbe modellato il mondo. Ma le opere potevano servire, nei deliri di onnipotenza dei gerarchi, anche solo ad assecondare smanie collezionistiche private: così, il Cerbiatto di Ercolano, strappato al Museo Archeologico di Napoli, fu svilito come arredo da giardino nella grandiosa tenuta di Herman Göring, mentre la Danae di Tiziano campeggiava nella sua camera da letto. Furti che sarebbero stati oggetto, nell’immediato dopoguerra, dei prodigiosi recuperi di uno scaltro incaricato governativo, Rodolfo Siviero, anche lui ricordato in mostra, nel quadro di una biografia singolare e avventurosa, seppure non immune da alcune ambiguità.

Discobolo Lancellotti,
II secolo d.C.
Roma, Museo Nazionale Romano
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