ARTE E VIDEOGIOCHI:
Fabio Viola, 46 anni, è uno dei più influenti game designer al mondo. Insegna game design in diverse università italiane e ha due libri all’attivo: “Gamification – I videogiochi nella Vita Quotidiana” (2011) e “L’arte del ARTE E VIDEOGIOCHI: una nuova frontiera di inclusione coinvolgimento” (2017). Ha fondato nel 2016 TuoMuseo, un collettivo internazionale di artisti, game designer, developer, sound designer ed animatori 3D che lavora nell’intersezione tra arte, videogiochi e inclusione.
Fabio, cosa significa Gamification?
Per me è l’“arte del coinvolgimento”: è sinonimo di partecipazione. Significa abbattere barriere, favorire un’orizzontalità dei processi. Tentare, in estrema sintesi, di portare il pubblico a parlare in prima persona. Come accade nei giochi: diciamo “io ho salvato la principessa”, “noi abbiamo sconfitto il drago”. Non c’è più, o quantomeno non c’è solo, la terza persona.
E come si diventa game designer?
Ho seguito un percorso di studi in beni culturali e DAMS, ma la passione per i videogiochi mi ha accompagnato da quando ero ragazzo. Per un po’ di anni non hanno convissuto questi interessi. Inizialmente mi sono occupato di videogiochi come puro intrattenimento, a soli fini commerciali, senza impatti sociali e culturali. Con TuoMuseo i puntini si sono uniti: il nostro obiettivo è esplorare le relazioni umane attraverso nuove forme di creatività ipertecnologiche in cui il pubblico diventi non solo spettatore, ma anche “spettattore” e “spettautore”, per usare un gioco di parole.
Vuoi raccontarci qualche vostro progetto?
Inizio da Father & Son, il primo videogioco pubblicato da un museo archeologico, il MANN. È totalmente gratuito, è scaricabile dagli store mobile digitali di Google e Apple, ed è disponibile in undici lingue. Ha ottenuto consensi in tutto il mondo, è entrato nella classifica dei giochi più scaricati in oltre 100 paesi: siamo arrivati a 5 milioni di download. È ormai un caso studio in Italia ed Europa.
Non rischiamo che nessuno più vada al museo?
Il contrario: quello che vogliamo creare è un ponte tra fisico e digitale che allarghi la partecipazione. Tu giochi il videogioco stando seduto in Cina, ma solo recandoti fisicamente sblocchi alcune funzionalità, altri quadri. L’esperienza, sia digitale che fisica, non viene depauperata, ma arricchita.
È ora di dare al videogioco la dignità che gli spetta.
A Veneria Reale abbiamo prodotto una mostra, la più grande sul videogioco mai realizzata: il titolo era, appunto, “Play”. Si è chiusa lo scorso gennaio, più di 90.000 visitatori in sei mesi. Volevamo liberare il videogioco da quella visione che lo considera nell’arte solo come supporto alla divulgazione, e invece celebrarlo come avamposto creativo, come decima forma d’arte. Il veicolo di un linguaggio influenzato dai grandi maestri del passato ma che a sua volta influenza l’arte di oggi.
Il videogioco è uno strumento di inclusione?
Certamente. Ormai si lavora moltissimo sui criteri di accessibilità alle app ai website, per essere compliant alle varie normative. Si tratta di adattamenti che vengono realizzati per allargare il pubblico, per estendere le possibilità di fruizione del patrimonio culturale. Penso all’epilessia, alla sindrome deficit dell’attenzione, alle disabilità cognitive. Ma anche alle persone cieche. Anche su questo abbiamo in programma un progetto, già cantierato: un’avventura “museale” solo audio pensata apposta per il pubblico cieco. Il sistema di controllo è dato dall’interfaccia di Amazon Alexa, che ti racconta la sala reale in cui ti trovi nel museo e ti dà una serie di comandi: puoi spostare una statua o aprire un cassetto, per esempio. È una sorta di Escape room, in cui però tutti i comandi in entrata o in uscita sono audio.
Mi viene da pensare anche all’inclusione generazionale. Diciamo sempre che i più giovani sono assenti dai musei.
Il paradosso è che coloro che appartengono alle generazioni in età scolastica sono grandissimi fruitori dei videogiochi, si stima che 8 su 10 li utilizzino, ma sono scarsi fruitori delle istituzioni culturali. Certo, il museo non va trasformato in un videogioco: ma perché non siamo in grado, a livello progettuale, di lanciare nuovi stimoli? Abbiamo la best practice dei musei della scienza: perché una pinacoteca o un sito archeologico non posso fare altrettanto? O, guardando ancora più in là: hanno ancora senso queste divisioni o dovremmo sviluppare centri transdisciplinari, contenitori unici in grado di far viaggiare un tema su più oggetti e su più supporti? L’interazione è la sfida principale. Le persone non vogliono solo ricevere uno storytelling, per quanto bello, vogliono partecipare allo story-doing. Il pubblico deve entrare nei musei agendo, co-creando, diventando parte integrante del racconto.