
ARTE E DIVERSITÀ IN UN PICCOLO GESTO QUOTIDIANO
Intervista a Cristina Scocchia, AD Illy
di Francesca Lai
“Seneca diceva che la fortuna non esiste. Esiste il momento in cui il talento incontra l’occasione. Ripenso spesso a questa frase: se il talento, fno a prova contraria, è equamente distribuito perché non dovrebbero anche esserlo le opportunità di mettere in campo il proprio talento?”. Cristina Scocchia, amministratrice delegata di illycaffè, cita il più grande filosofo stoico romano per parlare di inclusione e diversità.
In una sala dell’Illy Caffè dei Giardini Reali di piazza San Marco a Venezia, davanti a una tazza di caffè, l’intervista ad una delle manager più di successo che l’Italia abbia mai avuto, si trasforma in una profonda riflessione sull’arte, sul ruolo sociale delle imprese e sull’importanza di far ripartire l’ascensore sociale “indispensabile in ogni società democratica”.
“Se non ora, dopo una pandemia e con una guerra in atto, quando dovremmo dare la priorità al merito nelle organizzazioni? Crescono le aziende, cresce il Paese, crescono le persone”, commenta l’AD.
L’occasione è l’inaugurazione della nuova illy Art Collection dedicata a Biennale Arte 2022 e ispirata al tema della 59esime Esposizione Internazionale d’Arte, Il latte dei sogni. A firmare questa nuova collezione sono 6 artisti profondamente diversi per stile e origine geografca scelti da Cecilia Alemani, curatrice di questa edizione della Biennale Arte. Si tratta dell’appena insignita del Leone d’Oro alla carriera Cecilia Vicuña, di Felipe Baeza, Giulia Cenci, Precious Okoyomon, Alexandra Pirici e Aki Sasamoto. Infondendo in ciascuna tazzina l’estro della propria arte, i 6 artisti danno vita a una collezione unica che riunisce in sé approcci diversi, dalla scultura alla pittura, passando per la poesia, la fotografa e la coreografa.
“L’arte e la cultura devono essere a portata di tutti”, dice la Scocchia. Proprio come una tazzina di caffè.

Dottoressa Cristina Scocchia, leggendo la sua biografa, emerge chiaramente che fn dai suoi primi passi avesse le idee chiare. L’esperienza in Procter & Gamble è stata importante (1997- 2012), per il clima aziendale, le possibilità di esperienza e carriera, per la mentalità internazionale. In che modo la diversità culturale ha influenzato la Sua crescita?
L’ha influenzata tantissimo. Ho avuto la fortuna di incontrare Procter and Gamble all’università, in occasione di un career day. Mi sono innamorata di quell’azienda esattamente in quel momento: sentii parlare di diversità, di inclusione, di valorizzazione dell’unicità del singolo, valori che all’epoca in Italia non trovavano ancora spazio. Allora scrissi un curriculum in cui facevo emergere la mia esperienza che a vent’anni, ovviamente, non era ancora matura. Scrissi delle attività di boy scout, del volontariato in Croce rossa. Parlai della ragazza che ero e, probabilmente, qualcosa colpì i recruiter. Dopo il primo stage di tre mesi in P&G, ho avuto la fortuna - anche questo serve nella vita - di presentare il budget all’amministratore delegato. Pensai: “Questo è un treno che non mi capiterà mai
più”. Sapevo l’inglese malissimo. Studiai la presentazione a memoria e alla fne mi assunsero come se fossi stata già laureata. Da quel momento passarono sedici anni. I primi furono durissimi: lavoravo più di dodici ore al giorno e la notte studiavo per preparare gli ultimi esami. È stato intenso ma bellissimo. Quando poi ho mantenuto la promessa di laurearmi a pieni voti, sono stata mandata a Ginevra, head quarter europeo, un cuore di diversità. In quel building c’erano persone da ogni parte del mondo: c’era diversità culturale, religiosa, di lingua, di genere. Questa diversità mi ha arricchito come manager e soprattutto come persona.
Dopo alcuni anni a Ginevra, la sua carriera ha avuto un’altra volta.
Quando credevo di essere immersa in un mondo diverso, Procter mi ha fatto un regalo di cui non parlo spesso: dopo quattro anni mi hanno promossa a direttore associato, nominata responsabile trend marketing per CEMEA (Center and East Europe Middle East and Africa). Ero l’unica donna in un leadership team di oltre venti uomini. Nonostante Procter fosse un’azienda americana, questa regione del mondo era fatta solo da uomini, quindi la sfda dell’est Europa e del Medio oriente non era solo di genere ma anche culturale. Sono stati due anni bellissimi, vissuti sul campo. Qui ho scoperto il valore vero della diversità, che si deve abbracciare, valorizzare. Questa esperienza mi ha fatto capire
che la leadership assertiva non ti porta da nessuna parte. La leadership influenza gli altri quando ti metti in gioco, ti metti al posto dell’altro, cerchi di capire cosa pensa l’altro nel vederti e nel sentirti parlare. Quel momento, a livello manageriale e di crescita personale, ha fatto la differenza.
In quei due anni, vissuti in un ambiente culturale e di genere diversissimo, ci sono stati degli episodi in cui lei stessa ha dovuto dare valore alla sua diversità in quei due anni che ha definito meravigliosi?
Sono stati tali proprio perché la diversità era talmente forte da essere vissuta da tutti come un valore. Non mi sono mai sentita trattare in modo differente. Al contrario, percepivo nei miei confronti un grandissimo rispetto. Certo, a volte avrò fatto e sono state fatte nei miei confronti delle bonarie
gaffe culturali. Ma ogni cosa che mi veniva detta aveva lo scopo di valorizzare la mia unicità nell’essere donna. Purtroppo, non posso dire altrettanto di quando sono rientrata in Italia, dopo molti anni di lavoro all’estero. Nel luglio 2013 lasciai Procter & Gamble per diventare amministratrice delegata di L’Oréal Italia. Ero sicuramente contenta di ritornare in Italia, con il mio lavoro avrei contribuito a migliorare anche il mio Paese. Non avrei mai immaginato di potermi sentire diversa, per la prima volta, proprio a casa. Perché donna e perché giovane (fui nominata CEO a 39 anni), cosa che è stata spesso rimarcata in Italia. Non in L’Orèal, che come P&G è una azienda che ha sempre rispettato la diversità in tutte le sue forme. Me ne accorgevo da quando andavo nei congressi o nelle conferenze, dalle battute sessiste, dalle situazioni in cui tutti gli uomini sono “Dottori”, mentre tu sei “Signora Scocchia”.
Vuole farci un esempio?
Ricordo un episodio. Io e alcuni direttori stavamo aspettando degli ospiti in L’Orèal. Gli ospiti, una volta arrivati, salutarono i direttori dicendo: “buongiorno dottori”. Poi si rivolsero a me dicendo: “Signora, le dispiace se le do il cappotto?”. Io gentilmente ho preso il cappotto e poi mi sono
presentata come l’amministratrice delegata di L’Orèal Italia. All’estero non mi era mai capitato un evento del genere.
Dopo la lunga esperienza in Procter, è tornata in Italia con un ruolo nuovo e molto importante: Ceo di L’Orèal Italia. Dobbiamo vivere ancora come una eccezione il fatto che, in Italia, una donna diventi CEO?
Purtroppo, sì. In Italia mi succede spesso - e mi è successo anche nell’esperienza di Kiko - che quando mi trovo in incontri con tutti uomini, gli interlocutori pensano che siano loro i decision maker. In Italia pesa ancora il fatto che solo il 3% dei CEO sono donne. Il bias di genere nella nostra società è innegabile se il rapporto e di 97% contro 3%. I numeri parlano. Ma io voglio essere ottimista: sono
convinta che la pandemia ci abbia insegnato il valore del merito. Se tu metti in campo la squadra migliore, indipendentemente dal genere, dalla religione, dalla lingua, è più facile vincere non solo per azienda ma anche per il paese intero. Quale momento migliore, se non quello che stiamo vivendo, segnato dall’emergenza sanitaria e dalla guerra, per fare questo?
Il problema dei piani di carriera non è solo legato alle posizioni apicali ma è molto più diffuso anche in posizioni di middle management. In questo senso il nostro Paese come si colloca?
In Italia iniziano a vedere country manager donna, ma non è la stessa mansione di amministratore delegato. Il passo successivo sarà quello di vedere donne che poi fanno il salto, che diventano capo azienda e che hanno la possibilità di gestire l’organizzazione in tutti i paesi del mondo, dal marketing alle risorse umane alla supply chain. Credo che ci vorrà ancora del tempo. Da questo punto di vista non mi è mai piaciuto fare la vittima. Io credo che arrivare a posizione di vertice sia diffcilissimo per tutti. Ma per le donne è indubbiamente più diffcile. Seneca diceva che la fortuna non esiste, esiste il momento in cui il talento incontra l’opportunità. Fino a prova contraria, nessuno ha mai dimostrato che le donne hanno meno talento degli uomini, ma se il talento è equamente distribuito non si può dire lo stesso della possibilità di dimostrarlo. Dovremmo tutti impegnarci a livello culturale per far capire che l’uomo e la donna hanno lo stesso diritto di realizzarsi a livello professionale. Questa cosa ancora non avviene. Ad esempio, se un ragazzino ti dice di voler fare un determinato lavoro di un certo livello dicono “Wow ha leadership!”. Se la stessa cosa la dice una ragazza, lei diventa “ambiziosetta”. Tra “leader” e “ambiziosetta” il bias culturale è molto forte. Inoltre, tutti dovrebbero collaborare nelle famiglie, fnchè la donna ha in capo il 70% delle attività di cura familiare, non ci sarà mail la parità di genere. E poi le istituzioni dovrebbero fare la loro parte. La quantità di asili nido che ho visto in Svizzera qui non c’è. Mi piacerebbe che si parlasse di più di parità di genere anche nelle scuole, che le ragazze vedessero la carriera STEM come un reale sbocco di carriera. Oggi su cento laureate solo sedici sono si laureano in una materia scientifca.
Questo numero di DiverCity è dedicato al tema della città inclusiva. Illy è da sempre impegnata nel sostegno di iniziative culturali (a Mantova il festival, a Torino Artissima, a Venezia Guggenheim, ecc.). Oggi è in Biennale per presentare il nuovo progetto “Illy Art Collection”. Quanto la relazione tra Aziende e città è determinante per lo sviluppo e l’innovazione?
Io credo che sempre di più si stia capendo che le aziende hanno un ruolo sociale. Le organizzazioni non possono essere fnalizzate solo alla generazione del proftto ma devono creare valore per tutti i portatori di interesse. Per gli azionisti, per i collaboratori, i fornitori le città e le comunità in cui si trovano ad operare per l’ambiente. Come poter avere un impatto sociale positivo? Questo impegno caratterizza Illy da sempre. È un’attenzione che parte da quella per i coltivatori di caffè verde. In quei territoti contribuiamo a costruire scuole locali per la comunità, a diffondere conoscenza sulla coltura rigenerativa. Lo stesso impegno lo vogliamo avere per le nostre comunità “di sbocco” e per l’Italia. Uno dei fronti su cui ci impegna è quello dell’arte perché la conoscenza va sempre condivisa. Quello che amo della “Illy art Collection” è che permette a un piccolo oggetto, di uso quotidiano di diventare la tela bianca su cui un artista riesce a esprimere la propria creatività senza limitazioni. In questo modo, un piccolo oggetto diventa un’opera contemporanea accessibile a tutti. Dobbiamo tenere a mente anche la diversità di mezzi, che incide sulla possibilità di esprimere il proprio talento. Leggevo un rapporto, il quale riportava che in Italia, se sei nata da genitori che non hanno la laurea hai il 92% di possibilità di non laurearti. L’ascensore sociale dovrebbe essere il cardine di un paese democratico. Un oggetto d’arte, semplice e fruibile, come una tazzina apre molte possibilità: bevendo un caffè ti viene voglia di conoscere altre opere, di googlare il nome dell’artista, di scoprire un mondo che ti affascinerà e formerà per tutta la vita. Ecco cosa apprezzo di “Illy Art Cafè”: il legame con la cultura, la creatività e l’accessibilità.
È ormai appurato che la DE&I, a livello globale, sta spronando e indirizzando le grandi aziende a fare sempre di più e sempre meglio: parità tra i generi, lgbt+, confronto tra generazioni, valorizzazione delle differenti abilità, multicultura, ecc. Come Illy porterà avanti questo percorso di cambiamento?
Noi partiamo da una cultura aziendale da sempre si è fondata sul rispetto e sulla valorizzazione della diversità. Prima ancora che tali tematiche diventassero una moda. Illy è diventata una società beneft e poi una delle prime B Corp in Italia. Per noi l’avere un compasso morale forte fa parte del nostro DNA. Il valore della diversità, dell’inclusione, del rispetto della sostenibilità sociale e ambientale è qualcosa che fa parte delle nostre radici. Vogliamo continuare a crescere. Essere una B Corp ti permette di essere valutata da altri, abbiamo subito un audit oggettivo e terzo, che ha valutato la nostra cultura, il nostro modo di essere e di fare azienda. Questo non è un punto di arrivo, ma di partenza: in ognuna delle aree in cui siamo stati valutati abbiamo un piano di azione. Il mio obiettivo come amministratrice delegata è aiutare l’azienda a fare sempre meglio in tutti questi ambiti.