ARDERE LEGGENDO
Immaginate che ogni giorno, al calar del sole, il luogo dove vivete venga avvolto dall’oscurità. La luna è nuova o coperta dalle nuvole e i suoi raggi non possono raggiungervi. Una notte però un lampo di luce squarcia il buio e colpisce un albero non troppo distante da voi. Una fiamma si sprigiona dal tronco, è forte, potente e pericolosa, ma allo stesso tempo è luce che rischiara il cammino, è calore che avvolge le membra fredde ed è un’ arma contro i predatori che si aggirano nell’ombra. Fin dalla notte dei tempi l’umanità ha dovuto scendere a patti con il fuoco: un elemento capace di spazzare via ogni cosa, ma allo stesso tempo fondamentale per la vita.
Riprendendo le due facce della medaglia del fuoco, è interessante proporre un excursus letterario che va dalle origini della nostra letteratura italiana fino al XX secolo, per comprendere l’evoluzione di un simbolo tra i più potenti della civiltà umana.
Il Cantico delle creature di San Francesco d’Assisi (datato 1204) è considerato il testo più antico della nostra letteratura; tra gli elementi per cui dobbiamo essere grati a Dio appare anche «Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu, / per lo quale ennallumini la nocte, / et ello è bello et iocundo et robustoso et forte». Un fuoco, quindi, già caratterizzato nella sua potenza, ma al contempo elemento utile per la vita sul pianeta della Creazione. Non la pensa allo stesso modo, mezzo secolo dopo, il senese Cecco Angiolieri che con il suo celebre sonetto «S’i fosse foco» vuole bruciare il mondo e porsi in netto contrasto con la poesia stilnovista, rappresentando in maniera realistica la distruzione provocata dalle fiamme.
Se, quindi, nella poesia delle origini, abbiamo una visione dualistica primitiva del fuoco come simbolo di vita o di distruzione, è con Dante e Petrarca che il simbolo si arricchisce di nuovi significati letterari. Viaggiando nell’aldilà con Dante e Virgilio possiamo scoprire la dimensione punitiva delle fiamme che caratterizzano l’Inferno e che bruciano i dannati per l’eternità. È interessante vedere come malgrado il fuoco sia l’elemento caratterizzante dell’Inferno, questo sia sempre descritto come buio. Il fuoco infernale punisce, non rischiara il cammino. Al contrario nel Purgatorio vediamo le anime purificate dalle fiamme, che cancellano (non senza una certa forma di sofferenza) i peccati da chi sta scontando la faticosa salita del monte. Alla dimensione divina dantesca si contrappone invece il fuoco dell’amore petrarchesco; il filone deriva certamente dalla poesia provenzale, ma Petrarca aggiunge il motivo del conflitto interiore che è ben visibile in «et ardo, et son un ghiaccio» (Canzoniere, CXXXIV). Non dobbiamo dimenticare che per Petrarca il fuoco era anche la forza vitale che ardea negli occhi della donna amata.
Il fuoco non smette di essere al centro della letteratura nemmeno successiva: l’amore di Orlando nell’opera di Ariosto è sempre paragonato a questo elemento della natura, e la follia del protagonista è proprio una fiamma che non riesce a essere imbrigliata e dilaga bruciando ogni cosa; e ancora galoppando nei secoli troviamo il fuoco interiore di Foscolo, quello «spirto guerrier ch’entro mi rugge» pronto a divampare eroicamente contro la realtà storica inaccettabile dal poeta.
Il Novecento si apre con le tensioni della guerra in arrivo e il fuoco come simbolo di distruzione della letteratura stessa. Nel Manifesto futurista di Marinetti si legge: «Suvvia! date fuoco agli scaffali delle biblioteche!» e nelle stesse poesie dei futuristi troviamo le celebri onomatopee che indicano i rumori degli spari del conflitto mondiale. Anche Gabriele d’Annunzio rimane affascinato dal simbolo, tanto da utilizzarlo come titolo del suo romanzo che celebra il superomismo e il potere creativo e distruttivo del fuoco (non a caso il protagonista ha un nome parlante, Stelio Effrena, ex frenis, senza freni).
Voglio concludere lasciandovi con uno spunto di lettura che potete trovare in L’arte di essere fragili di D’Avenia. Partendo dalla rivalutazione ormai contemporanea di Leopardi, non più poeta del pessimismo, ma poeta della ricerca della felicità, D’Avenia spinge la metafora del fuoco fuori dalla letteratura fino alle nostre vite quotidiane. Riferendosi all’adolescenza scrive: «è questo fuoco che non vuole altro che ardere di passione e di passioni, a volte fino a bruciare se stessa per mancanza di combustibile. Questo fuoco c’è, io l’ho visto. È il fuoco della vita».