ARCHITETTE, FEMMINILE PLURALE - Il linguaggio come strumento per l’empowerment di genere

03 Dic 2020

Mariacristina Brembilla

Nello scorso mese di Novembre, Kamala Harris alla Casa Bianca, Maria Luisa Pellizzari alla Polizia di Stato e Antonella Polimeni all’Università La Sapienza sono state messe in evidenza dai media quali prime donne a occupare ruoli di tradizionale ed esclusivo appannaggio maschile. Il lento ma inesorabile processo di demolizione del cosiddetto “soffitto di cristallo” è in corso ormai da anni, ma se sentendo l’espressione “primo uomo” non posso fare a meno di pensare a Neil Armstrong sulla luna - una conquista per l’umanità - diverso è per l’espressione “prima donna”, che risulta ancora oggi viziata da una connotazione negativa di evidente natura sessista, legata all’abitudine dell’uso dispregiativo che se ne fa per indicare l’atteggiamento presuntuoso e capriccioso di donne (o uomini) di successo.

Linguaggio e società si evolvono rispecchiandosi vicendevolmente l’uno nell’altra talvolta in modo asincrono, forse per questo la declinazione di titoli professionali quali “architetta” o “ingegnera” fatica, nonostante i tempi siano ormai maturi, a entrare con naturalezza nel lessico quotidiano. Oltre a una riconosciuta maggiore ritrosia nel declinare nomi indicanti professioni di un certo prestigio sociale, rispetto a professioni più umili da sempre declinate con maggior facilità (come contadina o operaia), c’è anche da rilevare che il settore edile è tra gli ambiti lavorativi maggiormente emblematici della segregazione di genere, sia orizzontale sia verticale. Banalmente nell’immaginario collettivo il cantiere è luogo virile per eccellenza, contraddistinto da mansioni che comportano impiego di forza fisica ed esposizione a gravi rischi infortunistici. Più facile per la maggior parte delle persone immaginare un’architetta d’interni che una direttrice dei lavori o una coordinatrice per la sicurezza.

Succede alle giovani architette di venir scambiate per segretarie di colleghi uomini, così come capita alle architette più mature di sentirsi chiamate con l’appellativo generico - apparentemente di tutto riguardo e rispetto - “signora”. Per non parlare del ruolo determinante, ma non altrettanto altisonante, in progetti di architettura e di design di professioniste talentuose, ma misconosciute come Charlotte Perriand al fianco di Le Corbusier o di Doriana Mandrelli, partner professionale e moglie dell’archistar Massimiliano Fuskas. Se il modello dominante è ancora quello maschile, come pure maschile è il role model imposto a partire dagli studi universitari, allora è abbastanza comprensibile che “architetta” faccia fatica ad entrare nel lessico quotidiano. La causa è da attribuirsi non certo alla pretestuosa cacofonia del termine o ad un presunto quanto errato tradimento etimologico, ma piuttosto alla persistenza di remore di natura culturale, legate all’introiezione più o meno consapevole di un’omologazione al maschile che fa percepire il termine declinato al femminile come uno scarto al ribasso.

Dal 2017, le laureate in architettura iscritte all’Ordine di Bergamo possono utilizzare, quale suggello che attesta il possesso dei requisiti di legge per l’esercizio della libera professione, un nuovo timbro professionale declinato al femminile, con la dicitura “architetta”, posta di seguito al proprio nome, cognome e numero di iscrizione all’Albo. Si tratta, anche in questo caso, di una prima volta che ha il sapore di una conquista di diritti civili, il diritto di autorappresentarsi con un titolo che attesta la propria identità di genere nella professione. Per primo in Italia, infatti, l’Ordine degli Architetti di Bergamo ha deliberato la possibilità da parte delle proprie iscritte di ottenere il timbro al femminile. Insieme alle colleghe Silvia Vitali e Francesca Perani sono stata in prima linea per l’affermazione di questo diritto e la divulgazione di questo risultato che ha, poi, portato altre colleghe in tutta Italia a richiedere al proprio Ordine Professionale una analoga delibera per il rilascio del timbro al femminile. La diffusione del termine architetta e del timbro al femminile è attualmente sostenuta da Rebel Architette, associazione di promozione sociale, nata sempre a Bergamo nel 2017 con l’intento di diffondere modelli di ruolo al femminile tra le giovani generazioni di professionisti/e, promuovendo così una visione più inclusiva ed equa dell’architettura su scala internazionale. Il book “Architette = Women Architects Here We Are!”, le campagne “#timefor50” (tempo di parità) e #WAWMAP (WOMEN ARCHITECTS WORLD MAP!) sono solo alcune tra le molteplici iniziative promosse da Rebel Architette, che vanta la partecipazione a numerosi convegni nazionali ed internazionali.

Il background comune alle esperienze sinora illustrate è da ricercarsi nel percorso corale, durato ben sette anni, del gruppo di lavoro Archidonne dell’Ordine degli Architetti di Bergamo, nell’ambito del quale sono stata segretaria istituzionale e promotrice di diverse iniziative, quali il bonus neo padri/neo madri, le lettere ai neo sindaci/e sul gender mainstreaming, il format “Altri sguardi sulla città” ed il progetto “Architetti/e nelle classi”. Sinergia al femminile con la partecipazione di circa trenta architette, Archidonne nacque nel 2010 da un’intuizione di Francesca Perani, come presa di posizione attiva e propositiva per contribuire nell’ambito professionale, lavorativo e sociale a un cambiamento culturale che riconosca alla figura femminile e alla figura maschile l’accesso ai medesimi ruoli nella vita professionale e nella vita pubblica. Il Gruppo Pari Opportunità dell’Ordine degli Architetti porta avanti dal 2017 la diffusione di un linguaggio rispettoso delle differenze attraverso la prosecuzione e l’implementazione del progetto “Architetti/e nelle classi”. In quasi dieci anni di attività, il progetto ha visto il coinvolgimento di una media annua di venti architetti/e e di 500 bambini/e delle scuole primarie sui temi della progettazione partecipata. Lo scorso anno “Architetti/e nelle classi” è stato presentato al MAXXI di Roma, museo nazionale delle arti del XXI secolo progettato dell’architetta Zaha Hadid, come esempio di best practice nell’ambito del convegno internazionale “Reading the space”. Anche se per i/le piccoli/e cittadini/e protagonisti di questo format - che peraltro accettano con estrema naturalezza l’introduzione di termini declinati secondo il genere - l’affermazione delle donne nel mondo lavorativo, politico e sociale è già di per sé segno tangibile di un’ evoluzione verso una società più inclusiva, la diffusione di un linguaggio rispettoso delle differenze rimane strumento fondamentale per incrementare e consolidare le conquiste sociali in atto.

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