Alle origini della Bellezza

11 Apr 2022

Cosa sia la bellezza è un mistero. Almeno per me. Ogni civiltà, ogni tempo, credo abbia, in buona parte inconsapevolmente, ereditato e assorbito propri canoni. Noi occidentali, cresciuti a pane e autostima (siamo sempre i “migliori”, si sa) benché ci riteniamo democratici e liberi, siamo rimasti intrappolati in quell’ideale di bellezza, di cui millenni di storia e storie, miti e leggende, tradizioni e teorie, ci hanno nutrito. Lo abbiamo ingurgitato, digerito, introiettato. Da allora ed ora ci è tatuato addosso. 

Siamo tutte e tutti vittime e figli di Alcibiade: l’inafferrabile ci tiene ancora in pugno. Perché è da lì, da quel mondo di eroi, belli e invincibili, che si arriva all’#uomochenondevechiederemai: quello che non riusciamo proprio a scrollarci di dosso (e che ha colpito nel segno anche #sonoBondJamesBond). 

Nel tentativo di rendere il nostro ideale assoluto, abbiamo attinto a piene mani al pensiero dei Greci antichi, ipotetici (molto ipotetici) depositari di saggezza infinita, esattamente come stimiamo noi stessi, donne e uomini plasmati della stessa pasta di Alcibiade. Omologati e uniformati a quell’unico modello che abbiamo messo, come un simulacro, nel nostro Olimpo, scalzando ogni altro fenotipo discordante. 

L’Acropoli, il Discobolo, il David, la Primavera, Bel Amì, Barbie… tutt*molto bell*… ma ancora ha un senso, nel tempo dei selfie taroccati, filosofeggiare sulla bellezza? O, proprio perché nel tempo che più sta patendo la schiavitù dell’immagine consumata fino al logorìo, ha una ragione parlare di bellezza, per riappropriarsene (o finalmente, appropriarsene) e farci ognuno modello di noi stess*? 

Riavvolgiamo il nastro fino all’origine di tante frustrazioni. Alcibiade (non me ne voglia…), figlio di Clinia, fu celebre uomo politico e generale ateniese della seconda metà del V sec. a.C. Un pessimo inizio, se vogliamo parlare di bellezza. Il fascino della divisa (ma i Greci in guerra non indossavano uniformi!) ha il suo perché. Sì, ma un politico... siamo al minimo del glamour! Il fatto è che Alcibiade, oltre che di famiglia nobilissima (era un perfetto kaloskagathòs, tipica espressione che indica la completezza, la perfezione di un uomo “ben nato” e che generazioni di studenti destinati alla bocciatura hanno tradotto con “bello e buono”), ricchissimo e - come negarlo - anche straordinariamente intelligente, era oltremodo bello. Non comunemente bello: bellissimo. Da bambino, da giovane, da adulto. Vecchio non lo divenne: morendo a 50 anni, gli Dèi gli risparmiarono paturnie alla Dorian Gray. 

Di questa sua avvenenza ci parla Plutarco, la conferma Socrate e, con lui, diversi altri personaggi dei dialoghi platonici. Tecnicamente, queste non sono prove. Triste a dirsi, non abbiamo la benché minima idea di quale fosse l’aspetto di Alcibiade. Non abbiamo ritratti, se non tardi e del tutto stereotipati, non abbiamo vere descrizioni del nostro uomo. Tanto rumore per nulla. Seguiamo da millenni piste piuttosto vaghe… una notevole prestanza fisica, un delizioso difetto di pronuncia (sostituiva la “elle” alla “erre”), un’oratoria ammaliatrice ed esitante quel giusto che basta, un look eccentrico e ricercato abbastanza da far sognare i concittadini a spasso per Atene. Ma non conosciamo alcun particolare del suo volto: per immaginarlo potremmo rifarci, in modo del tutto arbitrario e pretestuoso, al Discobolo di Mirone. Piaceva a tutte e tutti, questo sì. Rudi spartani e molli persiani compresi. 

Era un fantastico Zelig (vedi il capolavoro di Woody Allen), a tal punto che Plutarco, nella Vita dedicata al nostro, lo definisce “camaleonte”, per una straordinaria capacità di adeguarsi perfettamente all’interlocutore. Meravigliosa dote di flessibilità o grave disturbo di personalità? 

Questo se lo domandavano già gli antichi, perché è un conto è aspirare all’approvazione altrui, ma trasformarsi, annichilendo la propria personalità e il proprio aspetto, per soddisfare le altrui aspettative… è altra cosa. Ciò, per la verità, basterebbe a muovere riflessioni sulla labilità del concetto stesso di bellezza. Cosa facciamo, dunque, da millenni? Tendiamo a una caricatura da fumetto? Nessuno è mai stato così, suvvia. Eppure, non una parola di quanto scritto, è contestabile. 

Le difficoltà che abbiamo noi ad immaginarlo sono le stesse che avevano gli Ateniesi ad averlo come concittadino. Un garbuglio davvero paradossale: la democrazia - lo sappiamo quasi tutti - si basa sul concetto di eguaglianza, ma come si fa a venire a patti con un #angelocadutodalcielo del genere? L’unico in grado di sintetizzare questa contraddizione di fondo fu Aristofane (ah... i poeti!), che ne Le Rane, tardo capolavoro della sua produzione, ricordando che gli Ateniesi “lo bramano, lo detestano, vogliono averlo”, fa dire niente meno che ad Eschilo, il grande tragediografo ripescato da Dioniso nell’Ade: “Non si deve allevare un cucciolo di leone in città; ma se lo si alleva, ci si deve adattare alla sua indole”. 

Come a dire: abbiamo posto noi l’idolo sull’altare, abbiamo noi partorito il mostro, e siamo finiti sotto il suo giogo. Con la macchina del tempo potremmo dare un’occhiata all’Atene della guerra del Peloponneso: c’era parecchia gente interessante e forse Alcibiade neppure era tanto bello. Troppo nauseante come bellezza, troppo carica di perfezione. Poco importa, visto che tanto costui continuerà, come la bellezza, a essere inafferrabile... finché non spezzeremo la catena della dipendenza dall’inesistente, finché non la finiremo di misurarci con l’imponderabile, di rincorrere l’irraggiungibile, qualsiasi colore, forma, diversità saranno letti come errori della natura, inciampi da correggere, divergenze da recuperare. Cosa sia la bellezza è un mistero. Ma la mia bellezza vorrei fosse democratica e libera. Quella di un occhio verde e uno viola che ci rende speciali. Reali a tal punto da sentirci vivi. 

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