Aliya Salahuddin

14 Dic 2021

LA DIVERSITÀ PUÒ PROSPERARE IN UNA SOCIETÀ CHE, A VOLTE, È RILUTTANTE AD ACCOGLIERLA?

Qualche settimana fa ho partecipato a una sessio- ne virtuale di brainstorming per creare una piat- taforma italiana per esercitare pressione sulle potenze mondiali affinché agiscano su questioni

sociali mentre perseguono anche obiettivi economici. È stata una discussione affascinante che si è conclusa con un piano per riunire giovani leader italiani, ambiziosi e positivi per rappresentare la voce del paese. Sembrava tutto molto bello, ma c’era qualcosa di abbastanza ovvio che mancava. Naturalmente non era ovvio per tutti gli altri partecipanti. Per- tanto, ho sollevato la questione con uno degli organizzatori e ho suggerito che una storia di successo di una persona migrante avrebbe potuto essere aggiunta per rendere il caso italiano più inclusivo e rappresentativo. L’organizzatore ha immediata- mente accolto l’idea, leggermente in imbarazzo per la svista. Il gruppo non può essere biasimato per non aver visto quello che era così evidente per me. A volte, ci vuole una migrante per far notare la mancanza di colore in una tavola rotonda. O una donna per far notare la mancanza di partecipazione femminile in un gruppo.

Questo è il motivo per cui la diversità e l’inclusione sono es- senziali in ogni stanza per interrompere il pensiero di grup- po (groupthink) all’interno di aziende, governi e tutti gli spazi in cui vengono prese le decisioni. E quando questa diversità farà parte del DNA culturale dell’organizzazione, non avremo più bisogno di una migrante o di una donna per indicare cosa manca. La mancanza sarà visibile a tutti.

Ci siamo?

Gli stranieri (“expats”) che si trasferiscono in Italia per lavoro sottolineano spesso la mancanza di diversità nelle organizza- zioni italiane. Coloro che provengono da fiorenti centri d’af- fari in Europa, Asia e Stati Uniti sono normalmente abituati a posti di lavoro più inclusivi, e finiscono per ritrovarsi in am- bienti che tollerano la discriminazione. A volte, sono loro che devono affrontare questa discriminazione. In Italia, le culture

più solidamente diversificate e inclusive si trovano nelle mul- tinazionali, in alcune grandi aziende italiane e nelle startup. Mentre il paese si muove verso una maggiore diversità sul posto di lavoro, il progresso rimane lento.

Tra i 27 paesi dell’Unione Europea, ad esempio, l’Italia è al penultimo posto (sopra la Grecia) per la partecipazione delle don- ne alla forza lavoro. Il già basso dato del 54% di donne occupate nel 2019, è sceso a un rilevante 49% a causa della pandemia.

Dei 5,3 milioni di stranieri che vivono qui, oltre 3 milioni pro- vengono da paesi non UE. In media guadagnano il 35% in meno degli italiani. E la pandemia ha visto un calo del 4% dell’occupazione degli immigrati, contro un calo dello 0,6% degli italiani.

Secondo un sondaggio di Statista Research, la più grande forma di discriminazione in Italia è “essere rom”. Questa iden- tità etnica rende più difficile ottenere un lavoro. L’indagine rivela anche che la seconda più grande forma di discrimina- zione percepita nella società è l’orientamento sessuale. Anche i media e i politici italiani si trovano occasionalmente sotto i riflettori per aver fatto commenti sessisti e razzisti oc- casionali e per l’insensibilità mostrata nei confronti di settori della popolazione.

Imprese e società

I luoghi di lavoro italiani possono abbracciare la diversità e l’inclusione, nonostante le discriminazioni che li circondano? Quanto sono permeabili i muri tra la cultura organizzativa e la società in cui operano?

Queste sono domande interessanti su cui riflettere e discu- tere. Non ci si aspetta che le aziende cambino la società, ma possono sicuramente guidarla con i valori. Mentre le or- ganizzazioni lungimiranti stanno abbracciando programmi di diversità e inclusione, la vera chiave per il cambiamento sta nelle piccole e medie imprese italiane che impiegano circa l’80% della forza lavoro del paese.

Le aziende più piccole, specialmente se sono familiari, sono meno propense a promuovere la diversità e l’inclusione. Ci possono essere molte ragioni: risorse limitate, mentalità di

sopravvivenza, una tendenza ad attenersi a ciò che funziona, resistenza al cambiamento ma anche una mancanza di sup- porto istituzionale nella comprensione e implementazione di programmi di diversità. Molte aziende, quindi, fanno solo il minimo indispensabile a cui sono legalmente vincolate.

Covid e oltre

In tempi di ripresa economica e post pandemia, il bisogno di coinvolgere le PMI non è mai stato così grande. Le PMI in Italia hanno vissuto un anno difficile. Secondo una ricerca di BVA Doxa, 7 PMI italiane su 10 hanno avuto serie ripercus- sioni commerciali post-Covid. La metà ha dovuto interrom- pere l’attività per qualche tempo e solo 1 su 4 è riuscita a passare senza problemi allo smart working.

Questo ci porta a un nuovo dilemma. Da un lato, sappiamo che in tempi di crisi e ripresa le organizzazioni che promuovo- no una cultura di opinioni diverse, una gamma ampia di abili- tà, competenze, idee ed esperienze traggono maggiori bene- fici attraverso il problem-solving, co-learning, l’innovazione e il cambiamento. Ma allo stesso tempo, in tempi come questi le organizzazioni più piccole sono più propense a vedere la diversità come un costo in più - preferendo dirottare le ri- sorse limitate verso altre aree e seguire un percorso testato e avverso al rischio, proprio nel momento in cui potrebbe essere necessario re-immaginare il futuro.

Gli analisti suggeriscono che non fare della D&I una priorità può essere la rovina di un’organizzazione, perché la ripresa dipenderà dall’adattarsi alla nuova situazione e rispondere ad essa con resilienza e agilità. E queste doti vengono con più diversità, non meno.

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