IL LAVORO AGILE APRE CONFINI
All’inizio pensavamo che andare in ufficio, 5 giorni su 5, dalle 9 alle 18, fosse IL lavoro. Era il confine definito di spazio e tempo che ce lo rendeva riconoscibile.
Poi sono accadute due cose. Prima alcune aziende visionarie, spesso multinazionali, hanno iniziato a sperimentare un nuovo modo di lavorare. Spinte dal bisogno delle persone di una vita più equilibrata, hanno iniziato a flessibilizzare il tempo, e pian piano hanno rivoluzionato anche gli spazi.Poi è arrivato il Covid, che nel momento in cui ci confinava nel ristretto spazio delle nostre case, spaccava simultaneamente lo schema di lavoro che avevamo in testa. Facendoci capire che lavorare da remoto era possibile. E, nonostante il periodo che stavamo vivendo, facendoci anche toccare con mano quanto fosse piacevole. Ed eravamo in tant*: da privilegio per poch*, circa 500.000 persone, durante il Covid più di 8 milioni di persone hanno lavorato da remoto.
La parte interessante però è arrivata dopo.
Ritrovata la libertà di uscire, si è posta la questione di come riprendere a lavorare. Alcune aziende hanno scelto di ritornare all’interno dei confini di spazio e tempo conosciuti; altre hanno deciso di romperli, avventurandosi su percorsi nuovi. Il punto è che il lavoro agile, in estrema sintesi, è la rottura di un confine: il nostro paradigma mentale. Quello per cui assegniamo a un tempo definito e a un unico luogo (l’ufficio) la dignità di lavoro. Che trasciniamo dall’inizio della rivoluzione industriale, con i ritmi e le necessità delle fabbriche novecentesche. È il paradigma che interiorizziamo fin dall’asilo, che assegna agli spazi un’unica funzione; e che confermiamo durante tutte le scuole, soprattutto noi in Italia, con la resistenza culturale a far vivere gli spazi aperti a ragazz* di qualsiasi ciclo scolastico. È quello che ancora oggi ci tiene imbottigliat* al mattino nel traffico delle tangenziali, nonostante sia chiaro il danno ambientale e lo spreco assurdo di tempo. Perché il problema è che i paradigmi mentali sono i confini più difficili da rompere.
È la mente che ci ricorda che si è sempre fatto così, che suggerisce comportamenti conformi per rafforzare la nostra identità, che ci dice che è la società che è organizzata così. Eppure, chi ha deciso di aprire i confini sta sperimentando oggi un modo di lavorare produttivo, felicitante, rispettoso per l’essere umano e l’ambiente in cui abita.
I dati sono eclatanti.
L’aumento di produttività avviene in qualsiasi settore e dimensione aziendale, pubblica o privata. È stato registrato un incremento del +15% quando si adotta un modello maturo di lavoro agile, dice l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano. L’impatto positivo sulle persone è testimoniato dalla tenacia con cui lavoratrici e lavorator* si oppongono a chi cerca di farl* tornare al vecchio modo di lavorare. Il 64% delle persone nel mondo sarebbe pront* a dimettersi nel caso in cui l’azienda chiedesse un rientro full-time in ufficio, secondo il Global Human Capital Trends Report 2023 di Deloitte. E ora si è scoperto che la flessibilità lavorativa fa bene al cuore: 10 anni di riduzione del rischio di malattie del cuore per chi fa un lavoro flessibile, rispetto a quello tradizionale 9-17, secondo uno studio delle università di Penn State e Harvard.
Quindi oggi non servono ulteriori dati o argomentazioni. La partita si gioca tutta sui confini della nostra mente. Chi decide di romperli, regala nuovo spazio, benessere e libertà. Chi non lo fa, perde l’occasione. E rimane imprigionat* al loro interno.