AFTERSUN
Callum sta per compiere trentun anni ed è in vacanza con la figlia Sophie di undici in un resort turco che ha visto giorni migliori. Sophie vive con la madre in Scozia perché i genitori sono separati. Il padre ha lasciato la Scozia e questa vacanza è un’occasione rara per stare insieme prima della riapertura della scuola. Tra atmosfere sonnolente, ore pigre, attività “all inclusive” e molte riprese di videocamera da parte di entrambi – il film è ambientato negli anni ’90 -, assistiamo a un brano di vita e di rapporto padre-figlia che si ispessisce strada facendo, senza però alcuna enfasi drammatica, rivelandosi un flashback della figlia ormai adulta. Un ripensamento di quella vacanza e di quel rapporto.
Il titolo “Aftersun” fa riferimento alla lozione doposole, segno dell’accudimento del padre verso la figlia, alle ore notturne che portano con sé penombre e umori diversi dalla solarità diurna, ma probabilmente anche alle immagini che restano impresse sulla retina, ovvero una memoria fisiologica brevissima che sembra alludere all’altra memoria, quella inconscia dei ricordi impressi nella mente, e a quell’altra ancora – analogica – che registra momenti di vita attraverso la videocamera usata dai protagonisti. Basterebbe questo a indicare che il film è ben più raffinato e stratificato di quel che appare a prima vista: non è un esercizio di maniera fatto di lentezza, dialoghi frammentari, inquadrature fintamente amatoriali, musica esclusivamente intradiegetica (ma come è bella e quanto sono eloquenti i testi abbinati alle immagini...), atmosfera a tratti insistentemente “subacquea” e ovattata, bensì un testo visivo sapiente. E infatti l’abile utilizzo del linguaggio della macchina da presa – quella della regista e quella amatoriale dei protagonisti – e l’uso di immagini riflesse disseminate un po’ ovunque nella pellicola – negli specchi, nella superficie dell’acqua, nello schermo di un televisore – sono lì per indicare che nell’unità apparente dell’io esiste invece una scissione. Callum, affettuoso e esteriormente sereno con la figlia, è percorso da un disagio interiore, forse depressione (“Non ti senti mai come se affondassi dopo una giornata incredibile?” si confidano padre e figlia guardando i parapendii che veleggiano sospesi e fragili nel cielo), manifestato dalla regista attraverso inquadrature di lui spesso sullo sfondo e fuori fuoco o fuori campo rispetto a quello che Sophie riprende. Quando è fuori dallo sguardo altrui Callum fa Tai Chi, fuma una sigaretta, singhiozza, si butta nel mare di notte…
Si è parlato per questo film di “ossessione scopica” e in effetti lo sguardo sul mondo da parte degli/delle interpreti e dell’autrice passa attraverso la videocamera, a volte attraverso piccoli interstizi da cui spiare, viene filtrato dalle lenti degli occhiali da sole, un modo per isolare l’oggetto della visuale oppure di sottolineare per contrasto quello che avviene fuori campo. Anche il finale del film è un dialogo di sguardi mediato dalla videocamera tra la Sophie ormai adulta divenuta madre e il padre, un incrocio a distanza – temporale e metaforica – tra Sophie che rivede i video di quella vacanza fino al commiato in aeroporto, e il padre che fa un’ultima ripresa prima di spegnere la videocamera ed estrarre la videocassetta, dare le spalle al pubblico e percorrere un corridoio vuoto fino a sparire oltre una porta a doppia anta. Forse Sophie non l’ha più rivisto da quella volta. Forse Sophie da adulta soffre come soffriva allora suo padre. Forse.
Grazie a questo linguaggio curato, un film apparentemente noioso e goffo nella sua frammentarietà e banalità di dialoghi e sequenze, crea invece una fluidità narrativa coinvolgente: una vicenda centrata continuamente sull’hic et nunc da riprendere, si apre alla dimensione del ricordo del passato nel tentativo di trattenerlo, forse, o di colmare i vuoti irrisolti, “unire i puntini” verrebbe da dire, per comporre e vedere l’intero disegno. Allo stesso modo anche lo spettatore/la spettatrice è chiamato/a a immaginare il futuro dopo questa vacanza. Nulla di straziante o di commovente, anzi piuttosto ci viene restituita l’autenticità di quel rapporto padre-figlia con tutte le normali piccole gioie o insidiose complicazioni della vita. Insidiose al punto che lo spettatore/la spettatrice comincia a prendere nota e decodificare il non detto, il fuori campo, e certe azioni riprese e apparentemente “lasciate cadere” dalla regista, come presagi di un dramma che sta per accadere e colpirà Sophie (verrà molestata da ragazzi più grandi? finirà per bere una birra di troppo?) o Callum (si suiciderà?). Invece non accade nulla degno di nota, lo spettatore/la spettatrice è semplicemente coinvolto/a dall’abilità dell’autrice di tenere allerta la nostra attenzione nell’assistere a un rapporto fatto di amore, quell’amore che forse può curare la nostra sofferenza e darci un’altra possibilità di cambiare e prenderci cura di noi stessi/e. È tutto nelle parole di “Tender” dei Blur e “Under pressure” di David Bowie, solo due dei numerosi brani della significativa colonna sonora di questo bel film.