ACCESSIBILI E INCLUSIVE

05 Giu 2022

Le città secondo una diversity manager (e viaggiatrice). Intervista a Cinzia Marzano.

di Francesca Lai

Non esiste un manuale di istruzione per diventare diversity manager. Non esiste nemmeno un modello da seguire, un precedente da cui apprendere. Come diventare, quindi, un/una brav* diversity manager?

“Serve la diversità nel proprio bagaglio culturale”. Cinzia Marzano, International Diversity, Equity and Inclusion manager di McDonald’s, probabilmente è nata per fare questo lavoro. Da sempre affascinata dalle altre culture e tradizioni, è diventata una viaggiatrice accanita dall’età di quindici
anni. La sua storia inizia alle superiori, quando studiava per diventare pilota di aeromobili.

Dott.ssa Marzano, come è diventata diversity manager?
Il mio non è stato un percorso lineare. Ho studiato cinque anni per essere pilota, ma alla fine mi sono resa conto che non era la mia strada. Dopo un corso di laurea triennale in lingue e letterature straniere sono stata a Vancouver per un periodo di studi all’estero perché da sempre affascinata da culture diverse dalla mia. Qui mi sono imbattuta per la prima volta nella materia della Corporate Social Responsability. Era il 2008, il concetto di D&I non aveva ancora una dimensione autonoma ma era incluso all’interno della CSR, che in Nord America era già molto sviluppata. In Italia, invece, la responsabilità sociale di impresa riceveva ancora poche attenzioni. Così ho conseguito la laurea specialistica in Lingue e culture per la cooperazione internazionale in Statale, scrivendo una tesi su CSR e Crisis Communication, a Cardiff.

Ai tempi dell’università il concetto di D&I ancora non esisteva, ma nel suo percorso accademico era già presente il seme della diversità. Qual è stato il suo primo impiego dopo gli studi?
All’epoca la professione del diversity manager non esisteva. Non solo, non assumevano nemmeno CSR manager: era un’area di competenza affidata agli HR o a persone all’interno dell’azienda che nel tempo libero si dedicavano al volontariato. Dopo la laurea sono andata a lavorare in Camera di Commercio italiana a Santo Domingo, dove svolgevo attività di comunicazione. La Repubblica Domenicana era ai tempi una realtà fortemente maschilista, dove ho scoperto ciò che gli inglesi chiamano “colourism”. Pur essendo una società prevalentemente nera, più chiara è la totalità della pelle più è probabile che la persona occupi una posizione di responsabilità e successo all’interno della società. Questo sentimento è così diffuso e internalizzato che si riflette anche nella quotidianità dei dominicani che cercano di spogliarsi il più possibile di qualsiasi segno che ricordi le loro origini. Da questa esperienza è nata la mia passione, all’interno dell’ambito CSR, per le tematiche di diversità e inclusione.

La svolta da diversity manager è avvenuta in IKEA, come è arrivata in questa organizzazione?
Tornata in Italia, ho iniziato un’esperienza lavorativa in Bocconi nel dipartimento Relazioni Internazionali. Il leitmotive è sempre l’incontro con altre culture: il mio compito era includere studenti stranieri, fare in modo che si trovassero a proprio agio e che capissero la cultura italiana e, allo stesso tempo, creare partnership di valore con altre università in giro per il mondo. Da lì sono stata contattata da IKEA per una posizione di mobility coordinator, che richiedeva una conosceva profonda delle diversità culturali per facilitare l’adattamento di manager e famiglie alla realtà Italia e
viceversa. Nel 2018 IKEA ha avviato una transformation a livello globale che ha portato alla creazione di nuovi ruoli, come quello del diversity manager. Ho fatto application ed è diventata la mia professione.

Come si fa a imparare un mestiere per cui non esiste un manuale?
Serve la diversità nel proprio bagaglio culturale. Per questo è stata importante l’esperienza da pilota: mi ha portato a sviluppare delle competenze più tecniche. Servono curiosità, studio costante, un approccio analitico alle cose: tutte skills che si acquisiscono dallo studio delle discipline umanistiche. Ora iniziano ad esserci anche libri, consiglio anche di informarsi tramite i canali meno tradizionali, come i social media dove spesso formatori eccellenti veicolano contenuto molto utili.

Le numerose esperienze di viaggio l’hanno aiutata a prepararsi a questo ruolo?
Sicuramente. Ho acquisito una forma mentis che nasce dalle esperienze in giro per il mondo. Il viaggio può avere diversi approcci. Io quando viaggio cerco di alloggiare a casa di persone del luogo, non in
hotel. Parlando una lingua diversa per capire la cultura e conoscere il diverso. Ho viaggiato tantissimo anche da sola. E lo faccio da quando ho quindici anni.

Ora vive da alcuni mesi a Londra, dove si è traferita e lavora come diversity manager in McDonald’s. Qual è stato il primo impatto con la città?
La diversità che si percepisce a Londra e come viene valorizzata è qualcosa che ti colpisce immediatamente. Dico questo consapevole di essere studiosa della materia e persona che ha viaggiato tantissimo. Ad esempio, non appena atterrata in aeroporto, l’infermiera che mi ha fatto il tampone era una ragazza con il velo, cosa estremamente difficile da vedere in Italia. Sempre nel primo weekend dal trasferimento, durante una passeggiata lungo il Tamigi, ho incontro un ragazzo crossdresser. Qualcosa a cui in Italia non siamo ancor abituati.

Secondo lei perché?
Siamo ancora troppo vincolati dal giudizio all’apparenza. Se magari sei una giovane donna, bionda e con il rossetto, ti servono sempre 15 minuti in più quando sei davanti a una platea per essere considerata un’oratrice autorevole. L’ho vissuto sulla mia pelle e l’ho visto su altre professioniste. Ho assistito in passato a colloqui di sviluppo in cui veniva consigliato di modificare il proprio aspetto, credendo anche di fare del bene. A Londra questa cosa non esiste.

Che forme assume l’inclusione a Londra?
Qualsiasi servizio alla persona e al cittadino può essere condotto a livello digitale, questo può essere un supporto davvero inclusivo che può aiutare qualsiasi unicità. Ad esempio, è estremamente comune vedere persone di colore che occupano posizioni di leadership. In Italia questa cosa ancora non esiste per ragioni storico culturale. Quando lavoravo in Italia e tenevo dei workshop in azienda, mi veniva detto che da noi non esisteva la discriminazione, io chiedevo: nominatemi un solo nero che occupa una posizione di leadership della nostra azienda. Non c’era nessuno, mentre a Londra è la norma.

Lei sente che il suo lavoro può contribuire a migliorare la città in cui vive dal punto di vista dell’inclusività?
È una domanda che mi pongo costantemente. Le persone spesso mi chiedono: “Il tuo lavoro è solo una moda o senti davvero di poter fare la differenza?”. Attualmente su queste tematiche c’è una forte attenzione, quindi può anche essere una moda sebbene io non creda che sia un trend passeggero. L’essere potenzialmente una moda, non è per forza qualcosa di negativo se può fare la differenza in termini di benessere delle persone. Certo, c’è anche un fattore legato alla brand reputation, è innegabile. Le aziende vivono per vendere, che sia un servizio o un prodotto. Ma ciò non toglie che si può avere un concreto impatto positivo sulle città e sulla società. Serviranno anni per avere un cambio di mindset ma è qualcosa che possiamo fare, soprattutto grandi aziende e brand, che hanno una grande potere di linguaggio e rappresentazione.

Secondo lei le organizzazioni hanno la completa consapevolezza di non avere più dei veri confini e che tutto ciò che fanno all’interno, a livello di D&I, può influire positivamente sull’esterno?
Io non credo che ci sia ancora la piena consapevolezza. Soprattutto in Europa, se paragonata agli USA, dove la DEI (Diversity, Equity, Inclusion, ndr) è nata. Il problema è che nei paesi europei spesso questo modello viene applicato alla cieca, come se fosse un copia e incolla: il risultato è che la diversità non viene riconosciuta. “Da noi non esiste questo problema”, sento dire nelle interviste che faccio per
lavoro nei paesi dell’Unione Europea. La diversità viene vista come un problema, non come un qualcosa che porta benefici soprattutto sulla bottom line e viene visto come un settore lontano, che non ha ragione di esistere in Europa. Non c’è una piena consapevolezza e, per questo, dobbiamo fare di tutto per prendere sì ispirazione da un modello americano ma adattandolo con attenzione al contesto di destinazione.

Quali caratteristiche deve avere una città per essere veramente inclusiva?
A livello ideologico, deve poter ascoltare i propri cittadini. Le faccio un esempio: una mia carissima amica, da tempo sulla sedia a rotelle, si è recata in comune a Milano per richiedere il passaporto. Purtroppo, quel giorno non ha potuto accedere agli uffici, situati ai piani superiori (questo
è da sistemare. Lo staff le ha proposto di essere presa in braccio: perché una donna indipendente di trentacinque, dovrebbe accettare una cosa simile? Lei ha poi fatto presente la situazione in cui si è trovata, ma questo avrà delle conseguenze? Bisogna creare degli spazi di ascolto in cui le persone che fanno ciò di cui hanno bisogno possano esprimersi e condividere i propri bisogni.

Lei è una appassionata viaggatrice. Qual è la città più inclusiva che abbia mai visitato?
Sicuramente Londra. Sono rimasta estremamente colpita anche dalle diversità rappresentate Vancouver. Sul bus vedevo donne con il burqa sedute accanto a ragazze in top e pantaloncini. A tempi non avevo gli strumenti per valutare se in quella città ci fossero anche equità e inclusione. Quello che posso dire è che i miei viaggi e le mie passioni solitamente si focalizzano su Paesi poco inclusivi e dove l’equità è un sogno lontano, come America Latina e Africa. Tra le città meno inclusive c’è anche Santo Domingo, una città inaccessibile a livello strutturale: per strada è difficile camminare a causa di criminalità, incidenti e cloache a cielo aperto ai lati delle strade. Ho osservato la stessa cosa in molte città in centro America e in Indonesia. Così come durante il mio ultimo viaggio in Ecuador, dove università e servizi da noi considerati essenziali sono molto cari e quindi inaccessibili ai più. Se non c’è l’accessibilità non possono trovare posto equità e l’inclusione.

Che cosa manca all’Italia per avere città e organizzazioni più inclusive?
Nel nostro Paese inizia ad esserci diversità perché il corso degli eventi la impongono. Ciò che manca è l’equità. Serve una certezza di accesso alle stesse opportunità, fare in modo che tutti abbiano gli strumenti necessari per fruire di tutto quello che città e organizzazioni hanno da offrire.



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