Intervista a Franco Lepore

a cura di Synergie Italia

Quando si parla di disabilità e città, il tema principale è quello dell’accessibilità urbana, ma non si tratta solo di questo: una città inclusiva per le persone con disabilità necessita di azioni che garantiscano loro il diritto di essere cittadini attivi.

È per questo che abbiamo scelto di intervistare l’Avv. Franco Lepore, Disability Manager certifcato, Presidente dell’Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti (UICI) del Piemonte, socio fondatore della Fe.D.Man (Federazione Disability Manager), che ha prestato servizio per il Comune di Torino come Disability Manager da Giugno 2019 a Giugno 2021.
Il suo contributo ci permette di capire il valore e la necessità della figura del Disability Manager in ambito comunale, con l’obiettivo di un reale cambiamento culturale verso una cittadinanza inclusiva.

Grazie mille Avvocato Lepore per aver dato la sua disponibilità ad essere intervistato; secondo la sua esperienza maturata in Comune, quali sono le azioni che una città deve mettere in pratica per potersi definire inclusiva?

Prima di tutto ricordo che l’inclusione delle persone con disabilità si attua attraverso la collaborazione tra Istituzioni, Associazioni e cittadini. Pertanto anche i Comuni devono fare la loro parte. Una città, per considerarsi veramente accessibile e inclusiva, deve avere: edifci pubblici o aperti al
pubblico, spazi urbani, privi di barriere architettoniche o sensopercettive; un sistema di trasporto pubblico (mezzi e infrastrutture) pienamente accessibile e fruibile; un’offerta di proposte e programmi con itinerari accessibili; personale opportunamente formato e preparato a rispondere ai vari
tipi di esigenze. Ovviamente queste azioni, per essere veramente incisive, devono essere coordinate tra loro.

Ci sono alcuni aspetti e/o attività che sono considerate prioritarie nelle pubbliche amministrazioni?
Le politiche sulla disabilità, essendo trasversali rispetto a tutte le sfere della vita quotidiana, devono essere promosse da tutte le articolazioni delle Amministrazioni Comunali. Inoltre la disabilità è un tema specifco e molto delicato, pertanto è quanto mai opportuno affdarsi a fgure esperte e competenti come il Disability Manager. Infne occorre impegnare risorse adeguate al fne di eliminare le barriere architettoniche e sensopercettive, nonché per migliorare l’accessibilità e l’inclusione delle Città. Ricordo che le politiche sulla disabilità non portano giovamento solo alle persone con disabilità, ma in generale a tutta la cittadinanza, con un conseguente miglioramento della società.


Emerge la necessità in ambito comunale di figure come il Disability Manager, che abbiano competenze specifche e che possano collaborare con gli enti e le istituzioni del territorio, con l’obiettivo di promuovere una città che sia aperta, viva,inclusiva.


Ci vuole parlare di un’azione che è stata messa in atto dal comune e che si è rivelata importante ed efficace?
Nel corso del mio mandato ho intrapreso diverse azioniper promuovere l’inclusione delle persone con disabilità. Ci sono però due iniziative di cui vado particolarmente orgogliosi. In tema di mobilità, nel gennaio 2020 ho contribuito a far approvare dalla Giunta Comunale una deliberazione che consente alle persone con disabilità, titolari del contrassegno di parcheggio per disabili, di parcheggiare gratuitamente in tutte le aree di sosta a pagamento della città delimitate dalle strisce blu. Successivamente questo provvedimento, anche a seguito dell’aggiornamento della normativa vigente, è stato esteso a molte altre Città italiane. In tema di attività di sensibilizzazione, nel 2021 ho organizzato un percorso formativo per i dipendenti comunali. L’obiettivo è stato quello di fornire ai dipendenti che interagiscono maggiormente con i cittadini le nozioni di base sulle varie esigenze delle persone con disabilità. Inoltre si è voluto fornire ai dirigenti indicazioni specifche su come valorizzare le capacità residue dei lavoratori con disabilità per una loro piena inclusione lavorativa. Il percorso formativo, che ha visto la partecipazione di oltre 200 dipendenti, ha permesso di accrescere l’attenzione e la sensibilità che la Città deve riservare ai cittadini con disabilità.
Si tratta di una testimonianza preziosa che dimostra quanto si può e si deve fare per far sì che ognun* possa essere un* cittadin*. Emerge dunque la necessità in ambito comunale di fgure come il Disability Manager, che abbiano competenze specifche e che possano collaborare con gli enti e le istituzioni del territorio, con l’obiettivo di promuovere una città che sia aperta, viva, inclusiva.



Ripopolamento e occupazione nel Sud Italia

a cura di Randstad

Ripopolare i piccoli borghi, rilanciare l’occupazione al Sud, favorire l’economia circolare, la sostenibi lità e l’inclusione. Sono questi alcuni degli ambiziosi obiettivi che si è posta Randstad anche grazie agli investimenti e alle linee guida del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Tutto questo, attraverso il Progetto Coesione che ha già trovato dei “compagni di viaggio” di riferimento sul territorio come l’Associazione South Working ed Everywhere TEW.

Il Progetto Coesione nasce nel 2021 con una prima esperienza pilota legata al borgo di Aliano, un paese con meno di 1000 abitanti (909 per la precisione) nel cuore della Basilicata. Circondato dai famosi calanchi, cumuli di terra chiara e argillosa che hanno ispirato lo scrittore Carlo Levi nel suo
periodo di confino, il borgo di Aliano ha sofferto negli ultimi anni di un incessante flusso migratorio causato dalla mancanza di opportunità di lavoro.

Per provare a invertire questa tendenza comune a molte realtà del Sud Italia, nella primavera del 2021 Randstad ha aperto una prima sede di back office amministrativo delocalizzato. Una prima esperienza per essere pionieri di un nuovo modo di “creare lavoro” in territori dove, molto spesso, sono presenti persone e competenze ma non aziende. La legittimazione e diffusione dello smart working (adottato da Randstad già nel 2017) accelerata dalla pandemia, può quindi essere una soluzione a due (e più) problemi: la people scarcity e la mancanza di opportunità di lavoro al sud che, a sua volta, causa emigrazione e spopolamento dei borghi.


South Working® – Lavorare
dal Sud nasce a marzo 2020
con l’obiettivo di colmare il
divario economico, sociale
e territoriale tra Nord e Sud,
tra aree industrializzate e
marginalizzate del Paese,
attraverso un processo di
riattivazione dei territori
tradizionalmente periferici

Con il progetto Coesione, Randstad ha creato un esempio concreto di investimento di risorse in contesti geografci fragili mettendo quindi a terra, i principi della trasformazione digitale, della crescita sostenibile e inclusiva, della coesione sociale e territoriale che sono i punti fondamentali verso cui l'’intero Paese si sta muovendo.

Questo progetto mira a coinvolgere Istituzioni, Aziende e Candidati per la progettazione di nuove modalità di lavoro. L’iniziativa si snoda attraverso tre principali linee progettuali.

Oltre 600 persone, in un solo mese dal lancio dell’iniziativa, si sono già candidate per offrire la propria professionalità come “south worker”. Un’opportunità resa possibile anche grazie alla collaborazione tra Randstad e South Working, un’intesa che continuerà anche nella partecipazione al Bando Borghi del Ministero della Cultura per promuovere progetti per la rigenerazione, valorizzazione e gestione del
patrimonio culturale dei piccoli centri italiani, favorendone il rilancio sociale ed economico.

Per una cultura inclusiva e la creazione di valore nei territori

a cura della Redazione

Le aziende oggi sono sempre più attente ai temi dell’inclusione e della tutela delle diversità, ma ci sono alcune società più visionarie che si sono assunte questo impegno sin dai loro esordi. È il caso del Gruppo Hera, tra le maggiori multiutility nazionali, pioniera in Italia delle politiche in ambito “diversity, equity & inclusion”, che da oltre 10 anni lavora su progetti, attività e iniziative per ridurre le disuguaglianze e valorizzare la diversità a 360°.

Un approccio maturato internamente, anche grazie al supporto del gruppo di lavoro guidato dal Diversity Manager, e poi promosso anche fuori dal contesto aziendale, per favorire città sempre più inclusive.

Il nostro modello culturale d’impresa ha tra i principi fondamentali la volontà di generare valore nel lungo termine attraverso la creazione di valore condiviso per gli stakeholder, anche a beneficio dell’ambiente e delle nuove generazioni, favorendo l’equità sociale. Un impegno per la sostenibilità che ci caratterizza sin dalla nascita, tanto che lo scorso anno abbiamo ritenuto opportuno esplicitare anche nel nostro Statuto il concetto di corporate purpose. Da anni sosteniamo politiche volte a promuovere la valorizzazione delle diversità” – dichiara il presidente esecutivo del Gruppo Hera Tomaso Tommasi di Vignano. “Un percorso che ci ha portato a sviluppare numerose iniziative per migliorare il rapporto con i nostri clienti, anche stranieri o con disabilità, e per contribuire alla diffusione di una cultura inclusiva nella società attraverso progetti con le scuole e le associazioni nei territori serviti”.

Per rendere i propri servizi accessibili a tutti, ad esempio, il Gruppo Hera da anni utilizza materiali di comunicazione multilingue per assistere i clienti con diversi background culturali nell’effettuare le varie prassi commerciali, coinvolgerli e diffondere buone pratiche come la raccolta differenziata e iniziative di risparmio idrico ed energetico. Anche gli stessi servizi online sono multilingua e una app come “Il Rifiutologo”, che fornisce informazioni sui servizi ambientali, è fruibile in modo semplice e intuitivo da persone diversamente abili grazie alla sua compatibilità con i comandi vocali di Alexa.

Sempre per migliorare la fruizione dei servizi in un’ottica inclusiva e di circular smart city, sono state create isole ecologiche per la raccolta differenziata e totem multifunzione che erogano acqua e servizi smart (dalla ricarica dei dispositivi elettrici, alla connettività internet fino al monitoraggio ambientale tramite sensori), utilizzabili anche da utenti con disabilità motorie. Senza dimenticare il progetto, primo in Italia, portato avanti dalla controllata Hera Luce con il Comune di Trieste, per l’installazione di semafori dotati di dispositivi innovativi che dialogano con i bastoni smart dei cittadini non vedenti, per fornire loro informazioni vocali di orientamento urbano e favorire una maggiore autonomia personale in città.


Da anni Hera sostiene politiche per la valorizzazione delle diversità, con progetti didattici per le scuole e con iniziative dedicate a lienti stranieri e con disabilità

Dall’inizio del 2020, in collaborazione con la sezione emiliano-romagnola dell’Ente Nazionale Sordi (ENS), il Gruppo Hera ha avviato un progetto volto all’abbattimento delle barriere comunicative nei principali sportelli clienti della regione: per migliorare la trasparenza e favorire al contempo l’inclusione, fornisce a proprie spese un interprete simultaneo nella lingua dei segni su richiesta di clienti non udenti che desiderino maggiori informazioni su consumi, contratti e offerte commerciali. Dallo scorso febbraio, poi, in tutti gli sportelli dotati di monitor nelle sale di attesa viene diffuso un video per sensibilizzare i cittadini nell’interazione costruttiva con le persone non udenti.

Hera punta, infine, sulle nuove generazioni, con numerose iniziative dedicate ai ragazzi e volte alla diffusione non solo di buone pratiche quotidiane a sostegno della sostenibilità ambientale e dell’economia circolare, ma anche con attività formative che promuovono il rispetto, l’integrazione delle diversità e il superamento degli stereotipi, nell’ambito dei propri progetti didattici gratuiti “La Grande Macchina del Mondo” rivolti alle scuole di ogni ordine e grado su tutti i territori serviti.

Per le scuole medie secondarie di primo grado, ad esempio, con il supporto di Work Wide Women e il gioco interattivo Diversity@School, sono stati organizzati workshop per stimolare gli studenti a riflettere sulla diversità come valore, per sconfiggere la paura che molto spesso accompagna i pregiudizi di genere, etnia, sesso e religione anche tra i banchi di scuola e promuovere un linguaggio inclusivo. In collaborazione con il progetto internazionale InspirinGirls, sviluppato in Italia da Valore D, alcune manager Hera – impegnate con passione e successo nei più diversi ruoli professionali STEM – incontrano ragazze e ragazzi delle scuole medie per incoraggiarli a seguire le proprie aspirazioni, senza ostacoli o condizionamenti dovuti al genere. Perché sono proprio i più giovani gli alleati perfetti per costruire un futuro sostenibile e più rispettoso.

Bellezza, s.f.: Qualità di ciò che appare o è ritenuto bello ai sensi e all’anima. (Treccani)

In queste pagine leggiamo della diversità e dell’inclusione. C’è chi fra noi è uguale, o simile. E c’è chi è disuguale, o dissimile. Differente. Però, condivideremo il futuro negli stessi luoghi e negli stessi attimi. E vorremo sempre, senza eccezioni, che il nostro futuro sia più bello o, se non altro, non meno bello del nostro presente. Noi disuguali o dissimili a volte non cerchiamo nemmeno la bellezza nel futuro. Già pensare di avere un futuro sembra un grande dono. Se addirittura vi troviamo anche la bellezza…!Voi potete dare un futuro alla bellezza. 

Noi possiamo dare bellezza al futuro: la bellezza degli universi che, fino a ieri, erano a voi nascosti. Mi viene in mente un chiasmo: Diversità e inclusione, così vicine e così in parvenza lontane.

Quanto fragile può essere la bellezza! Come Alice si guarda allo specchio, anch’io mi guardo. Vedo cose di cui non posso parlare. Sono gay? No. Appartengo a un’altra etnia? No. Ho qualche disabilità fisica? No. Vedo i miei pensieri, le mie preoccupazioni, il mio non riuscire sempre a resistere, sentirmi sotto pressione per la volontà di essere perfetto e il non riuscire ad ammettere che perfetto – come il mondo vorrebbe - non lo sono. 

Vedo ciò che dagli altri è inteso come debolezza, mille debolezze, mille fragilità. 

Se solo ne parlassi. Ma non posso farlo: metterei in gioco tutta la credibilità, tutta la fiducia che ponete in me. Pensereste che non sarei più forte, capace, condottiero. 

Ma io sono il più grande dei condottieri anche con mille fragilità. 

Grazie, alle fragilità. Io sono le mie forze e le mie fragilità. Perché quanta umanità possiamo trovare nelle nostre fragilità. Quanta bellezza.

In latino bellus “bello” è diminutivo di una forma antica di bonus “buono” (Treccani). Ciò che è ritenuto bello ai sensi e all’anima. Buono.

E chi siamo noi allora per decidere che possiamo parlare della nostra pigmentazione, dell’appartenere a un genere o all’altro, dell’attrazione fisica ed emotiva, della cultura e religione, delle difficoltà nel camminare, vedere, sentire? 

La bellezza dell’inclusione è infinita, nel tempo e nello scopo. Guardiamo oltre lo specchio e scopriremo mondi che in realtà ci appartengono e di cui le usanze della società non permettono di parlare. Noi siamo i creatori delle usanze, Kate”, dice Enrico V.

Non vi è bellezza tanto immensa quanto la liberta di essere chi siamo. Ancor di più: la libertà di essere. Di andare a dormire senza la paura di svegliarsi – o essere svegliati - perché qualcuno ha deciso di porre fine alla nostra libertà. 

Non permetteremo a nessuno di privarci della libertà solo perché può farlo. 

Di privarci della bellezza, solo perché può farlo.

La bellezza è la libertà.

Libertà, s.f.: La facoltà di pensare, di operare, di scegliere a proprio talento, in modo autonomo. In linea di massima il diritto di ogni individuo di disporre liberamente della propria persona (Treccani).

In linea di massima, appunto.

How to develop a product for everyone - Innovation thanks to D&I

This article intends to benefit from my learnings & observations, as a Global Diversity & Inclusion Consultant: from cosmetic industry giants harnessing the power of data analytics and AI to best practices on how to tackle diversity & inclusion for a more sustainable and fair future.

During these bold conversations, Ellie Austin and Sara Castellanos the WSJ News Editors dove into two companies - L’Oréal, the world’s largest cosmetics company - and - Megababe, a conscious and size-inclusive small brand very niche specialized on thigh chafe, boob sweat and funky pits.

Deputy CEO Barbara Lavernos: What L’Oréal says on Innovating Beauty by Including Everyone

L’Oréal currently has 4000 projects in their ongoing research and labs focused on hyper personalisation of individual skin. AI is at the core of the personalisation: from lipstick that matches your skin tone or hair color to take a picture of your favorite bag and have the exact match of the color being produced at home.

“We want to personalize our products to suit their own needs and desires for their skin, their hair, or for what they are aiming to become in terms of personality thanks to personalization products” said Barbara.

Through this approach the big brand is transitioning from standard products to personal products to enhance the uniqueness of each individual.

In terms of talent attraction, for L’Oréal, it’s indispensable to attract diverse talent from a technology perspective in terms of diverse gender, culture and diversity of thought.

“We have about 30% of women in tech today and we aim for equilibrium but we are struggling to get women jumping into action. That is why what we are doing as a company is really trying to attract young women toward the tech world or science” added Barbara.

L’Oréal also really wants to reach a broader diversity of consumers. By listening to them, they identified a range of product need for menopause and have formulate those needs.

Such as makeup for those with lashes being older, thickness of the hair.

CEO Katie Sturrino: What Megababe says on Taboo Issues, Size Inclusivity and Redefining Beauty standards

Megababe mission is to provide women with solutions for real problems, to deal with daily taboo issues such as butt acne, boob sweat, thigh chafing.

For Katie, it’s surprising that cosmetic giants have established that thigh chafe is a niche problem. 7% of women in the country (US) are plus-size. That means their thighs rub together!

“That does not sound like a niche problem to me. I think it comes down to the people in the room at big companies who may be stuck in an old mindset and they are trying to catch up” said Katie.

Besides breaking taboos in cosmetics, Katie is also challenging fashion brands on Instagram:

#SupersizeMyLook where you can create outfits recently worn by celebrities to show that women of all sizes can be playful with fashion.

 #MakeMySize highlights brands that failed to make clothes that fit her.

Katie mentioned Veronica Beard as an example of a brand that has responded well to her highlighting its lack of inclusivity.

“Since then, they have expanded their sizing and they have done a beautiful job representing both sizes. The way that I communicate with brands is never in a negative way. There is no downside in responding and saying thanks for this feedback” said Katie.

According to Katie, Victoria’s Secret is doing brilliant campaigns because they have made such a change. Despite all their efforts Katie has not done a try for Victoria’s Secret as she does not think she would fit their underwear as her size is 18,20.

Jonah Hill’s “please don’t talk about my body” post makes Katie wonder how many women in Hollywood have tried to say “please do not talk about my body or let’s talk about something else” and that has never quite had the impact of when one man said it.

While the giant beauty company - L’Oréal - showed its incentives of how to include every individual, Katie’s legacy and search for real impact - with Megababe - is a must. 

It is evident that big brands need to learn from the small ones. Consumers are looking for brands that make more sense and that respond properly to their needs. Diversity & Inclusion foster the conscious recognition of biases and human needs.

Daniela Felletti

1981, Global Diversity, Equity and Inclusion 

Consultant and Educator

The Future of Beauty is a virtual event organized by Wall Street Journal

L’estasi di Santa Teresa 

Una balaustra separa lo spettatore dalla Santa Teresa di Bernini, realizzata dall’artista tra il 1647 e il 1652 per la cappella della famiglia Cornaro, nella chiesa di Santa Maria della Vittoria, a Roma. L’effetto che Bernini ricerca è quello di una misurata distanza del riguardante rispetto alla sontuosa epifania di marmo: la giusta posizione del fedele di fronte all’esperienza mistica, che si può avvicinare, ma non dire. Eppure è sterminata la platea di interpreti che hanno tentato di penetrare il mistero di Teresa d’Avila (1515-1582): santa per combinazione, e per ironia della sorte massima icona della Controriforma. Non si può tacere la biografia, gustosamente ricostruita dall’acume di Vita Sackville-West: la nascita in una Castiglia “di pietre e di santi”, quarta di dodici fratelli, la fuga dalla dimora paterna per entrare nel monastero dell’Incarnazione, a quarant’anni una seconda “conversione”, a cinquanta la pubblicazione de “Il libro della vita”, un dedalo di ricordi familiari e amorosi e insieme l’integrale messa a nudo di un’anima: quasi una terapia attraverso la scrittura che permise alla donna di costruire sé stessa. E poi ancora, ad un’età che avrebbe reso consigliabile il silenzio del chiostro, un turbinio di viaggi, politica, riforma: nella diffidenza del papato, Teresa “la vagabonda” fonda in vent’anni diciotto monasteri; in odore grave di eresia, Teresa “la posseduta” trionfa sull’Inquisizione, che la processa ma non la condanna; dagli alumbrados a San Giovanni della Croce, tutto un mondo eterodosso, ovviamente maschile, è al crocevia di questa ribelle ironica, volitiva, spiritosa: “O Signore, liberatemi dai santi musoni”, pare che chiedesse a Dio. 

Questo spirito inquieto non poteva non interrogare la psicologia: e così Santa Teresa si impone alla coscienza della psicanalista Silvia Lequerc, protagonista del fluviale romanzo di Julia Kristeva dedicato alla santa spagnola. Coinquilina delle sue “notti sottomarine”, Teresa invade la vita di Silvia, ma diventa anche l’occasione per comprendere sé stessa e le donne che incontra in terapia. Una serenata sognante e maestosa, Teresa, mon amour, di cui è difficile restituire il passo: ma qualche suggestione possiamo recuperarla anche qui. 

Il misticismo come rivoluzione innanzitutto: il nostro tempo relega la mistica alla contemplazione, eppure proprio la mente (e spesso il corpo) dei mistici sono stati sempre, suggerisce Kristeva, un laboratorio segreto di visioni e concezioni capaci di immaginare altri mondi, di rinnovare il pensiero e le istituzioni. Secondo, e qui la definizione è di Teresa stessa, l’idea della personalità come “castello interiore”: un apparato dalle molte stanze, dalle plurime transizioni e sfaccettature. E dunque non un castello in cui l’identità si arrocca, piuttosto un caleidoscopio in cui questa si svolge, si perde, si libera. Una, trina, forse inafferrabile la nostra identità: ci voleva il Barocco a rappresentare questa turbolenza. 

Terzo, l’estasi e il suo significato: di cosa gode Teresa? No, il sesso non c’entra: per Freud Teresa era la patrona dell’isteria, ma già Lacan aveva escluso ogni movente libidico. “Ce n’est pas ça du tout”. 

Bisogna invece ricondurre l’estasi al significato letterale di “ex-stare” e il suo senso sta tutto in quel prefisso: “stare fuori”, fuori sé. Che vuol dire immergersi nell’infinito desiderio dell’altro, dell’Altro assoluto, del divino che penetra come se fosse uno sposo. L’Io “ek-statico” è l’Io trascinato fuori da sé stesso: un piacere contagioso che coinvolge e sconvolge tutti i sensi. 

“Bùscate en mì”, cercati in me, è il titolo di un discorso che Teresa pronunciò tra lo sconcerto generale nel 1577: formulato, pare, ripetendo le parole che Dio le aveva dettato. E questo “Cercati in me”, ci dice Kristeva, non è il “Conosci te stesso” inciso sul frontone del tempio di Delfi: che alla fine era solo un invito a essere saggi, rivolto da Apollo ai suoi adoratori. Né il “Cosa so?” di Montaigne, in cui la fede cristiana, pur non rinnegata, si annuvolava di dubbi. Né tantomeno il cartesiano “Penso dunque sono”, che riduceva ogni certezza al soggetto pensante. 

L’Io di Teresa nasce invece “fuori di sé” perché nasce insieme all’amore dell’Altro e per l’Altro. Teresa viene da noi a dirci che la conoscenza di sé ha luogo solo nello sdoppiamento, nel transfert dei nostri legami più profondi. “Gli animi che amano vedono fino agli atomi”, dice Silvia in un monologo alla Molly Bloom, e in questa esplorazione diventiamo finalmente intellegibili a noi stessi. Di tale pienezza - intima, personalissima – poco o nulla si può predicare. Ed è forse per questo che mentre un dardo trafigge il cuore della santa, l’angelo di Bernini, “stupidamente”, ride. 

Riferimenti bibliografici

Jacques Lacan, Encore, Éditions du Seuil, 1975

Julia Kristeva, Teresa, mon amour, Donzelli, 2009

Vita Sackville West, Teresa d’Avila, Mondadori, 2003 

Teresa d’Avila, Il castello interiore, Giunti, 2017

Teresa d’Avila, Libro della mia vita, Edizioni Paoline, 2016 

 Massimo Moretti, “La Santa Teresa del Bernini tra critica e psicanalisi”, in Dimensioni e problemi della ricerca storica, Carocci, 2017

Gianluca Cabula

1983, laurea in scienze politiche e in beni culturali, diversity manager SACE S.p.A.

Umberto Eco diceva: “Se riflettiamo sull’atteggiamento di distacco che ci permette di definire come bello un bene che non suscita il nostro desiderio, comprendiamo che noi parliamo di bellezza quando godiamo qualcosa per quello che è, indipendentemente dal fatto che lo possediamo. È bello qualcosa che, se fosse nostro, ne saremmo felici, ma che rimane tale anche se appartiene a qualcun altro.” (Storia della Bellezza, Bompiani 2018).

Il concetto di bellezza ci accompagna da sempre, fin dall’antichità. Tra i Greci vi era chi lo associava alla natura e alla bontà, oppure a un sistema di armonia e proporzioni del corpo, la cultura Rinascimentale pur rifacendosi alla tradizione greca, lo associava invece alla spiritualità e al divino (la “donna angelicata” di Dante e Petrarca). Questo per fare alcuni esempi lontani nel tempo. Tutto è cambiato con l’avvento della seconda rivoluzione industriale del IX secolo e la conseguente trasformazione delle realtà urbane. Fino ad arrivare all’epoca moderna dove anche il concetto del bello assume le stesse caratteristiche del fenomeno della moda e, cioè, di una ricerca continua di novità e una ricorrente sostituzione dei prodotti - seguendo le velocità dello spirito del tempo.

Oggi, ed è iniziato tutto con l’avvento di Internet, viviamo giorni in cui alla vita reale si affianca prepotentemente quella virtuale, giorni dell’egemonia incontrastata dei social network. È normale e fisiologico che, in presenza di questi nuovi modi di comunicazione, anche la moda e il concetto del bello abbiano subìto e subiscano trasformazioni. Il bello è diventato anche imperfezione, inclusione, autenticità. Esoprattutto appare più democratico.

A questo proposito non possiamo non parlare dell’importanza che nuove figure, come influencers e bloggers, hanno assunto da una decina d’anni a questa parte, e allo stesso tempo del grande dibattito spesso molto critico nato intorno ad essi. 

Nel 2016 suscitarono vasto clamore le parole indignate della Direttrice di Vogue America, Anne Wintour, che criticò aspramente la massiccia presenza di fashion bloggers e influencers nelle prime file delle sfilate, il cui unico scopo era a suo dire “cambiare outfit ogni ora” per “pavoneggiarsi davanti gli obiettivi con abiti presi in prestito”, dichiarando così “la morte dello stile”. 

Perché il pubblico abbia abbandonato le riviste patinate in favore dei nuovi strumenti comunicativi, primo fra tutti Instagram, è questione sulla quale ci si interroga tra addetti ai lavori e non, da diverso tempo. Una risposta è sicuramente da ricercare nell’immediatezza dello strumento “social media” che consente di arrivare subito all’obiettivo, che sia diventare follower di un influencer o di una stilista, seguire una sfilata in diretta streaming o altro, esso crea l’illusione che chiunque possa ottenere successo e visibilità, indipendentemente dalle competenze, dall’esperienza e dalla fatica. L’agognato “tutto e subito”: basta avere faccia tosta e uno smartphone.

Queste trasformazioni riguardano esattamente il concetto di bellezza convenzionale e non convenzionale. Sono cambiati i parametri di riferimento perché è cambiata la società. 

La moda per sua natura non è inclusiva; come afferma la sociologa Patrizia Calefato nel suo interessante e accurato libro “La moda e il corpo, teorie, concetti e prospettive critiche” (Carocci editore, 2021) storicamente la moda borghese è stata (ed è tutt’ora) concepita come un sistema destinato prevalentemente a classi agiate, a corpi magri, a generazioni giovani, a pelle bianca, a costituzioni fisicamente sane. Tuttavia, la moda può e dovrebbe avere gli strumenti per diventare sistema democratico di inclusione e non di esclusione.

In questa direzione si è mossa anche la Camera Nazionale della Moda Italiana che nel 2019 ha pubblicato un manifesto sulla diversità e l’inclusione individuando 10 punti che dovrebbero portare a un cambiamento significativo del “sistema moda”. Il punto 5 in particolare evidenzia la necessità di un recupero della dimensione etica dell’estetica al fine di arrivare a un’evoluzione culturale degli standard di bellezza, visto che in passato alcuni di questi canoni di bellezza fisica e modelli psicologici si sono rivelati estremamente dannosi. 

Da diversi anni, ormai, gli stilisti cercano di adeguarsi a questa trasformazione della società per essere in linea con i nuovi concetti di orientamento sessuale, diversità e identità di genere. Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, è stato il primo a portare in passerella una modella dalla bellezza non convenzionale come Armine Harutyunyan con l’intento di promuovere una bellezza universale che sovverta i canoni classici. E sempre lui ha scelto una ragazza con sindrome di down, Ellie Goldstein per pubblicizzare un mascara del brand, spingendosi ancora più avanti in questa sacrosanta campagna a favore dell’inclusione e della diversità. Certo c’è sempre chi solleva dubbi sull’autenticità dell’intento di un brand accusato di voler fare solo parlare di sé e che, quindi, tratti l’operazione come puro marketing, non è nostra intenzione entrare nel merito.

Come osserva la sociologa Patrizia Calefato nel già citato saggio, le immagini della moda oggi giocano molto sulla trasversalità dei tratti sessuali. Sulle passerelle vediamo modelli efebici e fanciulle piatte come ragazzini adolescenti; l’immagine di personaggi pubblici dichiaratamente trans non rappresenta più l’eccezione; infatti, fu la griffe Givenchy tra i primi marchi del lusso a lanciare come testimonial della sua campagna pubblicitaria nella stagione 2010-2011 la modella brasiliana trans Lea T. 

La moda anche in passato ha proposto modelli di donna mascolina e androgina. Il cinema ci ha regalato icone meravigliose come Greta Garbo e Marlene Dietrich oppure uomini dallo stile spiccatamente effeminato come Rodolfo Valentino. Il genere è un concetto in movimento e la moda è in grado di esprimere il genere sessuale come rappresentazione e performance; in questo senso essa dimostra come il suo linguaggio che solo in apparenza sembra frivolo può invece porsi con intelligenza e senza pregiudizi all’altezza delle problematiche sociali e civili del nostro tempo, soprattutto di quelle che hanno come protagonista il corpo. (La moda e il corpo. Teorie, concetti, prospettive critiche. Carocci editore, 2021).

Quello che sarebbe auspicabile è che non si facessero più classificazioni dell’essere umano usando aggettivi ormai fuori moda e fuori tempo. La moda sarà davvero inclusiva solo quando non ci saranno più etichette e la bellezza non sarà più una necessità bensì un modo di esprimere sé stessi e la propria natura, qualunque essa sia per essere in armonia col mondo che ci circonda. La bellezza dovrà diventare stile di vita, avendo come priorità benessere e salute e non potrà prescindere dall’amore per sé stessi e per gli altri. È evidente che non esiste un unico modo di essere belle e belli. Questo è il messaggio che la moda ha iniziato ad abbracciare e che deve impegnarsi a portare avanti con coraggio e autenticità.

Clara Carlini

1971, laurea in scienze politiche, 

former fashion correspondent. 

Annalia Luciano

 1971, fashion consultant e co-fondatrice di Amodino Milano

Un abito corto, senza maniche e stretto ai fianchi. È l’immagine forse più immediata per inquadrare l’ideale di bellezza di Coco Chanel, la stilista per antonomasia se si guarda al XX secolo. Una donna che ha attraversato due guerre e diversi modi di sentire, portando una concezione del tutto nuova di femminilità. La sua scalata verso l’Olimpo del “kalós” comincia in giovane età, quando arriva a Parigi, per aprire la sua prima bottega, finanziata da Étienne de Balsan, ex ufficiale che l’aveva ospitata nella sua tenuta. La futura imprenditrice aveva trascorso quegli anni come una delle tante amanti del francese, che l’aveva conosciuta nel caffè-concerto La Rotonde dove lei si esibiva come cantante in erba. Lì era apprezzata unicamente per il suo aspetto esteriore e per l’interesse che riusciva a suscitare negli avventori del locale ma, soprattutto durante la convivenza con l’ormai ex partner, Coco aveva capito che farsi valere non vuol dire puntare sulle apparenze, ma distinguersi in qualcosa. 

E ci era riuscita, ad esempio, con l’equitazione, uno sport ritenuto disdicevole per le nobildonne che, agli occhi della società, perdevano il loro smalto a cavallo. Coco è diversa dalle altre: innanzitutto rifiuta di salire in sella “all’amazzone”, ossia con le gambe dallo stesso lato, poiché vuole avere, durante le corse, la stessa comodità degli uomini. Così ruba i pantaloni del compagno e, quando ancora non ha disegnato alcuna collezione, comincia ad aprire la strada verso l’emancipazione a coloro che la circondano, suggerendo di indossare per praticità un capo di abbigliamento ritenuto da sempre maschile.

Alla base dei suoi successi, oltre a un prodigioso ingegno, ci sono sicuramente le sue preziose mani, che la aiutano a comporre creazioni trasversali a ogni ambito, dalla moda al teatro, dove rovescia continuamente i canoni e non solo per le donne. È il 1926 e sta andando in scena l’Edipo Re di Jean Marais, opera per la quale Chanel viene coinvolta nella realizzazione dei costumi e, contro ogni aspettativa, decide che il protagonista debba recitare nudo, coprendo solo le parti intime. L’ennesima rivoluzione, come accadrà successivamente per busti e crinoline, spazzati via perché oscurano lo splendore femminile che per Coco deve essere sinonimo di comodità e scioltezza nei movimenti.

Un’operazione analoga avviene per la cura del corpo e dell’aspetto fisico. Nel 1963 Edoardo Vianello canterà “Abbronzatissima”, elogiando la tintarella come punto di forza per la grazia femminile. Fino a qualche decennio prima,  soltanto le classi più umili trascorrevano ore al sole,  costrette a lavorare la terra: motivo per cui nella moda abbondavano gli ombrellini, utili a difendere i visi chiari, ritenuti simbolo di nobiltà. Con Chanel un colorito più scuro entra nei salotti e, per cambiare la mentalità corrente, la stilista si attiva personalmente, di ritorno da un soggiorno in Africa, mostrando ai fotografi, senza timore, un’accesa abbronzatura.

La bellezza scultorea, di derivazione classica, e un modello quasi principesco erano esclusivi ma anche  escludenti e Chanel lo aveva capito. D’altronde il fisico minuto e il taglio corto di capelli (in seguito alla morte dell’amore di una vita, Boy Capel) le conferivano un fascino sui generis per l’epoca, diventando un tratto distintivo e attraente per molti. Da Stravinskij al granduca della dinastia Romanov, tanti pretendenti di spicco daranno vita a un vortice di relazioni nelle quali Mademoiselle, come spesso è chiamata, si sentirà libera di esprimersi e di affermarsi.

Per lei la moda non era solo una patina esterna, ma costituiva l’essenza delle donne, scandita da elementi fondamentali come i colori. Pensiamo in particolare al nero, tradizionalmente adoperato per il lutto: con Chanel diventa l’effigie dell’eleganza tra i tailleur e il tubino, descritto in apertura. Un cerchio che non si può chiudere senza menzionare il profumo per eccellenza, il N°5, che la couturier scelse da una rosa di alternative messa a punto dal chimico Ernest Beaux. Coco amava ricordare di spruzzarsene qualche goccia, anche per fare pochi passi: lo si deve al proprio io interiore.

Un’abitudine che rientra nell’esigenza, ripetuta a più voci oggi, e sin dall’inizio della pandemia, di volersi bene, a prescindere dalla propria forma fisica o di altre, irrilevanti, caratteristiche. Essere a proprio agio è il segreto da cui nasce la fortuna di uno stile che non passa mai di moda, proponendo una bellezza senza tempo.

Emanuele La Veglia 

1992, laureato in editoria, culture della comunicazione e della moda, giornalista professionista.

Consigliera neoeletta del Comune di Milano, Vicepresidente della Commissione Pari Opportunità

Tutta la bellezza di chi non teme le traversate in solitaria: mi restituisce questa immagine la conversazione con Monica J. Romano, prima donna transgender eletta Consigliera Comunale alle recenti elezioni amministrative di Milano, poi, nominata Vicepresidente della Commissione Pari Opportunità. Dietro a ogni suo passo, compresa la strategia che l’ha portata al successo elettorale, c’è la bellezza della non omologazione e dell’autonomia di pensiero come atto di volontà consapevole e ragionato, sposato fino in fondo anche nella scelta di rivolgersi ai suoi concittadini puntando interamente su una propria idea di città e su competenze professionali e accademiche di alto livello, maturate in 15 anni nella gestione delle Risorse Umane: un lavoro impegnativo che, tuttavia, dopo la laurea in Scienze Politiche e un Master in Diversity Management presso la Fondazione Giacomo Brodolini a Roma, non le ha impedito di dedicarsi all’impegno civile e alla scrittura. La sua storia ha la bellezza del coraggio di sfidare bias cognitivi e immaginario collettivo legati a transgenerità e non conformità di genere, senza, tuttavia, usare la propria appartenenza ad una ‘minoranza’ a scopo politico; le 938 preferenze testimoniano un successo conquistato facendo leva sui contenuti: gli stessi a cui quasi mille milanesi hanno dato fiducia. Monica, la tua campagna elettorale si è svolta interamente al di fuori della comunità LGBT+ milanese, dove da oltre vent’anni ti dedichi ad attività di volontariato sociale e dove avresti potuto ‘giocare in casa’…

Ho lasciato la ‘bolla’ per avventurarmi nei mercati, nelle fiere, nei quartieri popolari che, secondo alcuni, una persona trans* dovrebbe evitare. Invece, sono stata accolta benissimo e ancora sono grata alle tante persone che mi hanno dedicato tempo, ascoltata e hanno messo in borsa il volantino con il numero che sarà attivo per tutto il mio mandato. Con i volontari che mi hanno sostenuta, abbiamo distribuito oltre 500 copie del mio programma elettorale completo! I temi di punta sono stati lavoro, parità di genere e inclusione, anche se con i milanesi il confronto è stato a 360°: sicurezza, inquinamento, viabilità, nuove disuguaglianze… 

In tutta la campagna elettorale, non hai mai pronunciato la parola ‘transgender’, pur non vergognandoti affatto della tua storia. Perché? 

L’anno scorso la comunità LGBT+ italiana ha riconosciuto il mio impegno di oltre 20 anni nella battaglia per i diritti civili con il premio speciale per la categoria ‘attivismo’, nell’ambito di ‘Star T. Trans Celebration Night’, evento organizzato dal Coordinamento Torino Pride in collaborazione con l’Università di Torino. Ho, inoltre, pubblicato tre libri sul tema della transgenerità in ottica sociale. Tuttavia, ho voluto dare spazio ad altro, nella convinzione che chi si candida ad amministrare una città debba dimostrare competenze adeguate a un eventuale mandato, nell’interesse della qualità di vita della collettività. Credo che i milanesi abbiano percepito la concretezza, la semplicità e la trasparenza del mio messaggio, come l’approccio senza filtri e lontano dai sensazionalismi attesi: un atteggiamento ereditato dal papà, fiero migrante siciliano, mentre dalla mamma ho ereditato l’amore per la cultura umanistica.

La schiacciante maggioranza dei tuoi elettori sono persone eterosessuali, in prevalenza donne, oltre a moltissimi giovani. Come lo motivi?

Con le prime ho trascorso molto tempo, affrontando temi quali femminicidio, patriarcato, femminismo, accesso alle materie STEM e misoginia. Credo abbiano colto la passione e l’autenticità delle mie intenzioni rispetto a queste grandi questioni: un dato ‘bellissimo’ alla luce di tante polemiche strumentali sollevate da una parte minoritaria del femminismo che vede in noi donne transgender una minaccia. Per raggiungere i giovani, invece, ho cercato di entrare nella loro dimensione, quella social, attraverso Instagram e Tik Tok.

Continua a essere radicato in molti il pregiudizio per cui una donna transgender non possa avere successo per i suoi soli meriti. Perché è così difficile accettarlo?

Credo sia conseguenza di una diffusa visione che ci vorrebbe tutte prive di istruzione, cultura e capacità. Sostenere: “È stata eletta perché è transgender” è una soluzione comoda, perché giustifica un dato di fatto, scaricando la colpa a mode e tendenze, ma fa torto alla verità dei fatti.

Molti si attendono che tu ti limiti a occuparti esclusivamente di diritti trans* o LGBT+. Hai messo in conto che rivolgerti a tutti i cittadini milanesi, senza distinzione, comporta l’inimicizia o l’ostilità della ‘base’?

Certo, significa andare incontro alle accuse di alto tradimento delle frange antagoniste dei movimenti, che reclamano a gran voce che io debba rendere conto alla ‘base’, ma io non rinuncerò ad andare oltre gli steccati nella pratica politica: ne vale la pena, perché tante sono le soddisfazioni che derivano dall’uscire dalla propria comfort zone.

Il ricordo più ‘bello’ della fatica elettorale? 

Tra i ricordi più belli ci sono le domeniche con le signore sui sagrati delle Chiese: mi ha emozionata parlare di Fede con loro ed essere invitata a casa per un caffè. Poi ci sono anche le mamme che mi hanno presentato i figli, con cui ho parlato di genitorialità e scuola. Nell’accostamento fra persone e dimensioni, solo apparentemente lontane, c’è tutta la grande bellezza di cui abbiamo bisogno. Di cui anche Milano ha bisogno.

Silvia Camisasca

1976, dottoressa in fisica nucleare con dottorato in applicazioni fisiche ai beni culturali, giornalista professionista.

Cosa dice la Legge italiana in merito all’affermazione di genere

Dopo il fallimento del cosiddetto DDL Zan in Parlamento, la proposta di legge - di pochi articoli - che avrebbe considerato reato le forme più gravi di sessismo, omobilesbotransfobia e abilismo, parlare di sesso e genere, specie in una riflessione sulla bellezza, risulta più complicato di quanto non sia mai stato.Tutt* cercano sé stess* nella vita: come dice il preambolo della Dichiarazione d’Indipendenza americana, tra i diritti inviolabili esiste anche quello alla ricerca della felicità. Questa ricerca è espressione della bellezza e dell’unicità di ciascun* e dovrebbe potersi svolgere in condizioni di libertà e sicurezza: l’appoggio e l’accompagnamento degli altri e dello Stato è una delle più forti manifestazioni di bellezza e solidarietà, dell’esserci gli uni per gli altri.

A volte la ricerca della felicità passa anche dalla ricerca dell’identità di genere e dei corpi che più sentiamo appartenerci. 

Secondo la Corte costituzionale, il diritto all’identità di genere fa parte del diritto all’identità personale garantito come diritto inviolabile della persona. 

La bellezza dei diritti costituzionali (fondamentali, inviolabili, imprescrittibili) sta in ciò: non dipendono dal volere dell’autorità, dal capriccio del singolo, dal potere di questa o quella burocrazia. 

Vanno però attuati, resi concreti.

In Italia, sin dal 1982 la legge riconosce la possibilità di un percorso di affermazione del proprio genere a chi vive una situazione di incongruenza tra il sesso anagrafico assegnato alla nascita e il genere internamente percepito e vissuto. 

Fino al 2018 tale situazione era considerata un disturbo mentale, diagnosticato come disforia di genere ma, secondo la nuova classificazione internazionale delle malattie (ICD-11) dell’OMS, l’incongruenza di genere non è più da considerarsi un disturbo, bensì una situazione non patologica da annoverare nell’area della salute sessuale.  

La legge italiana n. 164 del 1982 fu tra le primissime in Europa a consentire la rettificazione dei documenti anagrafici e l’accesso agli interventi chirurgici, sul solo presupposto esplicito delle “intervenute modificazioni dei caratteri sessuali”. 

Purtroppo, ancora oggi alcuni Paesi dell’Unione europea negano o rendono estremamente difficili questi passaggi: è il caso dell’Ungheria, che di recente ha abrogato la possibilità del riconoscimento giuridico del genere ancorandosi al solo dato biologico, e di altri paesi dell’Europa centrale, che ancora prevedono requisiti assai gravosi come, per esempio, la sterilizzazione forzata. 

A ben vedere, nonostante la legge italiana non si esprimesse apertamente su questo punto, anche in Italia l’interpretazione e la prassi avevano condotto all’obbligo di sterilizzazione per poter ottenere la rettificazione anagrafica. Nella vecchia impostazione, che è durata almeno fino al 2015 anche se aveva cominciato a sgretolarsi vari anni prima per effetto di alcune sentenze di merito, la persona doveva rivolgersi al tribunale per chiedere prima l’autorizzazione a sottoporsi agli interventi; una volta effettuati, doveva ritornare in tribunale per chiedere la modificazione dei dati anagrafici attraverso l’annotazione della sentenza di rettificazione sull’atto di nascita. 

Dal 2011, per effetto di una legge di semplificazione del processo civile, questo procedimento in due fasi  è scomparso e, dopo una importante sentenza della Corte di Cassazione dell’estate 2015, cui si è aggiunta quella della Corte costituzionale dell’autunno dello stesso anno, è scomparso anche l’obbligo di sottoporsi ad intervento chirurgico di riattribuzione di sesso (quello che a livello internazionale era stato stigmatizzato, appunto, come sterilizzazione forzata e che, per esempio in Svezia, ha generato forme di compensazione e riparazione per le vittime). 

Sicché, oggigiorno in Italia la giurisprudenza consente di richiedere la rettificazione anagrafica del nome e del genere anagrafico (maschile/femminile) sul solo presupposto delle intervenute modificazioni dei caratteri sessuali secondari, per esempio per effetto di terapia ormonale e/o interventi estetici. Per chi lo desidera, l’intervento chirurgico – che deve comunque essere autorizzato dall’autorità giudiziaria – può essere richiesto contestualmente alla richiesta di rettificazione anagrafica. La legge non si esprime invece, né potrebbe farlo, su quali siano i presupposti medico-sanitari per avviare il percorso di affermazione di genere, la cui definizione è rimessa a standard e approcci scientifici nazionali e internazionali, in costante evoluzione ma purtroppo ancora poco attenti alla situazione di persone non binarie poco o per nulla medicalizzate, che percepiscono e vivono una fluidità tra i generi al di là della dicotomia maschio/femmina.  

L’impostazione giuridica, comunque, a partire dal 2015 è nel senso di riconoscere che la legge “in coerenza con supremi valori costituzionali, rimette al singolo la scelta delle modalità attraverso le quali realizzare, con l’assistenza del medico e di altri specialisti, il proprio percorso di transizione” (Corte Cost., sent. 221/2015). Ancora più esplicitamente, la Corte di Cassazione ha affermato che ogni scelta relativa al percorso di transizione non può che essere il risultato di “un processo di autodeterminazione verso l’obiettivo del mutamento di sesso” (sent. n. 15138/2015).

Queste sentenze hanno adottato un’interpretazione della L. 164 che ha consentito di porre chiaramente l’accento, più di quanto fosse mai stato fatto in passato, sui diritti individuali e sull’autodeterminazione della persona, ancorché solo all’interno di una logica strettamente binaria (da cui la maldestra locuzione del ‘mutamento di sesso’). 

Tutto bene, dunque? Purtroppo, nel corso del tempo si è instaurata una prassi medica e giudiziaria che prevede una serie di requisiti, da intendersi come precondizioni per l’accesso ai trattamenti medico-chirurgici (che devono essere autorizzati dal giudice): tra essi spiccano la diagnosi psicologica, la terapia ormonale ed altri ancora. 

Nei ricorsi ai Tribunali si è soliti allegare almeno una relazione psicologica, con la diagnosi di disforia di genere e l’esclusione di disturbi mentali, una certificazione endocrinologica, con la prescrizione della cura ormonale già iniziata e il regolare esito della terapia, e un certificato di stato libero, per dimostrare di non essere sposati.  Se sposat* invece, sarà necessario citare in giudizio coniuge e figli, se ve ne sono, e il matrimonio verrà sciolto ex lege all’esito del procedimento (questo perché la legge italiana, ancora, non ammette il matrimonio fra persone dello stesso sesso, tutt’al più la conversione del matrimonio in unione civile – ma non viceversa…).

Ebbene, in questo contesto appare subito evidente che tanto il dispositivo medico, per quanto attiene all’accertamento dei presupposti e all’accesso ai trattamenti, che quello giuridico, per quanto attiene alla rettificazione anagrafica e all’autorizzazione agli interventi, sottopongono la persona trans (considero questo un termine ombrello, omnicomprensivo, anche se purtroppo ancora stigmatizzante) a molteplici vagli di varia natura, spesso lunghi e dispendiosi. Questa impostazione, che culmina nel vaglio dell’autorità giudiziaria per ottenere la rettificazione dell’atto di nascita e l’aggiornamento dei documenti di identità personali, è il portato del fortissimo stigma che in passato ha considerato le persone trans come folli, deviate, criminali, legittimando una lunghissima serie di abusi che ancora non si è arrestata, nonostante gli organismi europei per la protezione dei diritti umani abbiano posto chiaramente in luce, perlomeno nell’ultima decade, che è necessario porre fine a sì manifeste violazioni dei diritti. 

Se la prassi medica e le norme giuridiche ancora richiedono parecchi passaggi per arrivare alla sentenza del giudice che disponga la rettificazione di attribuzione di sesso (per usare la terminologia della legge italiana), si sono però diffuse alcune buone prassi che mirano sostanzialmente ad ‘anticipare’ gli effetti della sentenza nella gestione interna dell’identità personale di alunni, studenti, lavoratori e lavoratrici dipendenti, atleti e atlete. È questo il caso della identità o carriera alias, che si è diffusa in alcuni istituti superiori o università, aziende, società sportive come strumento di riconoscimento delle differenze e inclusione delle persone trans a prescindere da, o perlomeno in attesa della sentenza che ufficializzi la rettificazione anagrafica. Non dimentichiamo che il percorso medico e quello legale possono durare anni e che questa situazione espone le persone trans, specialmente in questo lasso di tempo, ad una serie di possibili abusi, discriminazioni e violenze, specialmente laddove l’aspetto fisico non corrisponda più a quello risultante dai documenti di identità. Ricordiamo infatti che per la legge italiana il nome proprio della persona deve corrispondere al sesso, sicché, a differenza di quanto avviene in altri Paesi, in Italia non è possibile adattare solo il nome o la fotografia sui documenti alla identità vissuta e manifestata socialmente, al di fuori del complesso iter giudiziario che abbiamo visto. 

Il carattere di rigidità che l’attuale impianto imprime al riconoscimento ufficiale dell’identità di genere, inoltre, si salda con l’uso pervasivo dei marcatori di genere in tantissimi ambiti della vita pubblica e lavorativa, essendo il “sesso anagrafico” alla base del funzionamento di parecchi enti pubblici o datori di lavoro: pensiamo al codice fiscale, alla posizione previdenziale, all’anagrafe sanitaria, alla composizione delle liste elettorali, agli istituti educativi e di istruzione, solo per citarne alcuni (evidentissimo il problema con il Green Pass). È chiaro che introdurre maggiore flessibilità sia nella registrazione che nell’uso dei marcatori di genere, tanto nella sfera pubblica che in quella privata, diffondere l’uso dell’identità alias e, in maniera ancora più incisiva, ripensare la necessità di autorizzazione del tribunale, sono passaggi che consentirebbero alle persone trans di esercitare effettivamente il proprio diritto all’identità personale e all’autodeterminazione in tutte le sfere della vita. Non sarebbe questo, ancor più, un modo di concretizzare la ricerca della felicità e la bellezza dei diritti costituzionali?

Matteo Bonini Baraldi 

è avvocato del Foro di Bologna. 

È stato funzionario dell’Agenzia europea dei diritti fondamentali a Vienna ed è anche consulente e formatore. Nei momenti liberi apprezza la musica, la lettura, l’orticoltura e i viaggi. Il sito web del suo studio professionale è www.studioboninibaraldi.it e la sua email avvboninibaraldi@studioboninibaraldi.it. 

Ha curato con il MIT – Movimento Identità Trans la stesura della piattaforma per il superamento della L. 164/1982 sulla rettificazione di attribuzione di sesso, che può essere consultata sul blog del MIT all’indirizzo 

https://mit-italia.it/una-proposta-di-piattaforma-per-la-riforma-della-legge-164-82/.

Nel 2022 verrà pubblicato il suo studio per il Parlamento europeo sulla prima strategia UE per i diritti LGBTIQ.

Sottoporsi a un’operazione chirurgica per allineare il proprio corpo alla propria percezione dell’identità di genere. Un percorso continuo di “ricerca della bellezza” quello del mondo “trans”, diffusa abbreviazione che fa riferimento alla condizione di chi avverte di appartenere a un genere diverso rispetto a quanto registrato all’anagrafe. 

La questione è attualissima e va a svilupparsi lungo due binari fondamentali: il supporto medico-chirurgico e la sfera psicosociale. D’altronde l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) definisce la salute “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” e, precisa, “non semplice assenza di malattia”.

Chiamare in causa la medicina vuol dire, nel caso specifico delle persone transgender, riferirsi alle terapie ormonali che si sommano agli interventi. Le relative protesi possono variare per corporature e, soprattutto, esigenze differenti: non esiste un unico canone di bellezza, ma siamo dinanzi a una concezione che cambia a livello individuale. Basti pensare all’occupazione professionale, e a molte altre motivazioni, che possono spingere a scelte diverse fra loro. 

Per fare luce sull’argomento abbiamo interpellato il dott. Gennaro Selvaggi che dirige l’Unità per l’Affermazione di Genere presso il Sahlgrenska University Hospital di Goteborg, in Svezia mentre, in Italia, collabora con alcune università e società specialistiche. La sua équipe conduce 160 operazioni l’anno che comprendono vagino-plastiche, fallo-plastiche, mastectomie, mastoplastiche additive, e riduzioni del pomo di Adamo: termini che attengono alla ricostruzione di organi sessuali o alla modifica di parti del corpo legate a un particolare sesso. 

La sensazione, che apprende da chi si rivolge a lui, è una ricorrente voglia di rinascita, a maggior ragione dinanzi a discriminazioni, difficoltà burocratiche e vuoti normativi. Nelle visite preoperatorie è solito mostrare delle foto relative, rispettivamente, alla situazione attuale del corpo e all’obiettivo a cui mirare. A sua volta raccoglie le preferenze delle persone che gli mostrano “modelli” a cui potrebbero ispirarsi. Tante sono le domande sulla riuscita finale e si rivela centrale la rete di amicizie a cui si ricorre per ricevere consigli e testimonianze. 

Nell’intento di approfondire come evolve il concetto di bellezza nel perseguimento dell’identità di genere, è importante fare alcune distinzioni. Il dottor Selvaggi è un chirurgo plastico ricostruttivo e ci spiega come la chirurgia estetica sia solo un aspetto della sua disciplina. Dunque, oltre a tutto ciò che concerne, ad esempio, la crescita o la diminuzione della barba, non bisogna perdere di vista lo stato complessivo, la sensazione di sentirsi a proprio agio. Perché, aggiunge, la bellezza si può trovare all’interno di sé, ma anche nelle relazioni familiari, a scuola o in ufficio.

Non a caso, alla base del discorso, c’è la “disforia di genere”, malessere diffuso che ha una sua diagnosi ampiamente codificata a livello scientifico. Ecco che è utile considerare la bellezza a 360 gradi poiché non è solo qualcosa di esteriore, bensì una qualità che attiene all’anima e a una serenità tanto cercata nel corso degli anni. 

“Se il problema fosse puramente estetico - fa presente il dott. Selvaggi – non ci sarebbe accesso alle cure offerte dal sistema sanitario nazionale o dalle compagnie assicurative. Mentre l’intervento per la affermazione di genere rappresenta una reale soluzione all’incongruenza tra il genere assegnato alla nascita, ossia maschio o femmina, e il genere in cui la persona stessa si identifica crescendo”.
La questione non è soltanto anatomica o scientifica, ma ha in sé tratti sociali e politici: alla scienza, quindi, si accompagna il versante umanistico e la maturazione di una crescente sensibilità sul tema.

“In tale direzione – ci racconta il dottor Selvaggi - in Svezia ho notato una maggiore apertura rispetto all’Italia, e un accesso più facile alle cure, dovuto a una diversa organizzazione e ripartizione delle risorse che sono a disposizione dello Stato”. È necessario sicuramente fortificare le famose “soft skills”, perché nel settore sanitario possono e devono avere un ruolo rilevante le relazioni e una buona dose di empatia. L’armonia può essere raggiunta nell’incontro tra saperi apparentemente distanti per arrivare così a un’umanizzazione della cura. La bellezza è uno spettro, nel quale trovare il proprio posto, e l’aspirare ad essa diventa, almeno in parte, sinonimo di una costante ricerca della felicità.

Emanuele La Veglia

1992, laureato in editoria, culture della comunicazione e della moda, giornalista professionista

Oltre le diagnosi per corpi transgender desideranti

Il 2022 è entrata in vigore l’undicesima versione della Classificazione internazionale delle malattie (ICD-11) curata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). La novità di questa recente versione è aver derubricato il Disturbo dell’Identità di Genere e aver inserito nel capitolo relativo alle Condizioni correlate alla salute sessuale la definizione di “Incongruenza di Genere”. Non più una diagnosi, quindi, ma una condizione possibile dello sviluppo sessuale. È stata una grande novità per la comunità transgender internazionale che vede riconosciuti i propri bisogni speciali per quanto riguarda i percorsi medici e psicologici di affermazione di genere e una depatologizzazione della propria identità e del proprio vissuto. In questa riflessione sulla bellezza connessa al mondo transgender vorrei proprio partire dalla definizione dell’ICD-11 di Incongruenza di Genere: “L’incongruenza di genere è caratterizzata da una marcata e persistente incongruenza tra il genere vissuto da un individuo e il sesso assegnato. Il comportamento e le preferenze di genere da soli non sono una base per assegnare le diagnosi in questo gruppo.” Per molti anni è stata necessaria una diagnosi per essere “veramente credibile” come persona transgender. Spesso mi chiedo se l’incongruenza sia nell’occhio dei clinici e della società e non nella mente delle persone transgender e gender-nonconforming. Per diverse decadi psichiatri e psicologi hanno basato le proprie diagnosi su un bias sessista e patriarcale considerando vere donne transgender e veri uomini transgender solo chi aderiva completamento ai canoni estetici e comportamentali (oltre all’avere un orientamento rigorosamente eterosessuale) dettati da una visione cisgenere ed eterosessuale di ciò che sia uomo e donna, non considerando le varie possibilità e sviluppi che l’essere umano è capace di cogliere nella propria sessualità. 

Spesso il passing diventa pervasivo nella vita delle persone transgender. Con questo anglicismo si indica quando e quanto si possa passare come persona cisgenere in società, nascondendo qualsiasi caratteristica fisica che possa far intendere che ci sia stato un passato in un genere assegnato alla nascita diverso da quello in cui si vive attualmente. Nella rincorsa all’ideale estetico cisgenere, ci si sottopone anche a chirurgie invasive affinché il passato possa essere cancellato. 

Tutto questo deve far riflettere. Il passing è l’aderenza totale a certi immaginari estetici e preserva le persone transgender, in particolar modo le donne, dal bullismo, dalla discriminazione e dalla violenza. Appartenere anche solo esteticamente al gruppo privilegiato e maggioritario preserva e “passare” per molte persone significa salvare la propria vita e proteggersi in parte dal minority stress. 

Dall’altra parte decostruire la norma sui corpi può farci rimanere smarriti e senza una soluzione. In parte Deleuze e Guattari ci vengono incontro quando parlano di assemblaggio. Esso consiste nel mappare aspetti complessi e contraddittori di stasi sociale momentanea, trasformazioni e recuperi di posizioni (marginali). La nozione di assemblaggio è utile per denotare le connessioni e le relazioni umane con altri esseri umani, animali, oggetti, istituzioni e artefatti culturali. Un assemblaggio annulla il privilegio del corpo umano come il luogo in cui si trova il desiderio di genere e sessuale. Secondo Deleuze e Guattari, gli esseri umani sono macchine desideranti a cui non manca nulla; non sono né un sesso né due, ma “n sessi”, il che “capovolge l’ordine statistico dei sessi”. 

Le persone non hanno un’integrità diversa da quella prodotta attraverso connessioni affettive all’interno di assemblaggi costituiti da relazioni con altri corpi, cose e idee e, come tale, l’affettività è centrale per comprendere le relazioni umane. Queste connessioni delle macchine desideranti umane, attraverso le quali si svolgono le vite, le società e le storie, ci permette di analizzare le capacità emergenti, i flussi e il divenire di un assemblaggio come oggetti di studio e considerare l’estetica transgender oltre il passing e osservarla come si crea attraverso desideri e affetti divergenti rispetto a un immaginario eterosessuale.

Il concetto di macchina desiderante, qualcuno che ha desideri produttivi verso il mondo, permette un’analisi di corpi divergenti in varie situazioni politiche, personali e pubbliche. C’è maggiore spazio per una comprensione inclusiva delle somiglianze e differenze delle persone transgender e gender-nonconforming se ci rifiutiamo di giudicare “sovversivi” bensì incorporiamo gli assemblaggi come una necessità etica e metodologica. Partire da questo punto di vista analitico è prezioso perché ci permette di riconfigurare le differenze all’interno di categorie più ampie di uomini transgender, donne transgender e persone non binarie, e trasformare la comprensione delle connettività storicamente divergenti che costringono e producono diverse intensità incarnate.

Bibliografia:

Deleuze G and Guattari F (1984) 

Anti-Oedipus: Capitalism and Schizophrenia

London: Athlone Press. 

Deleuze G and Guattari F (2004) 

A Thousand Plateaus: Capitalism and Schizophrenia. London: Continuum. 

Deleuze G and Guattari F (2007) 

We always make love with worlds. In: Lock M and Farquhar J (eds) Beyond the Body Proper: Reading the Anthropology of Material Life. 

Durham, NC: Duke University Press, pp. 428–432.

Valentina Coletta

1985, attivista transgender e femminista, laureata in psicologia clinica presso l’Università degli studi di Roma “La Sapienza”. 

Collabora con l’associazione Ora d’Aria e il Dipartimento di psicologia dei processi di sviluppo e socializzazione di “Sapienza” Università di Roma. 

Si occupa dei temi legati alle migrazioni delle persone transgender, la tratta e lo sfruttamento del lavoro sessuale

Registrazione Tribunale di Bergamo n° 04 del 09 Aprile 2018, sede legale via XXIV maggio 8, 24128 BG, P.IVA 03930140169. Impaginazione e stampa a cura di Sestante Editore Srl. Copyright: tutto il materiale sottoscritto dalla redazione e dai nostri collaboratori è disponibile sotto la licenza Creative Commons Attribuzione/Non commerciale/Condividi allo stesso modo 3.0/. Può essere riprodotto a patto di citare DIVERCITY magazine, di condividerlo con la stessa licenza e di non usarlo per fini commerciali.
magnifiercrosschevron-down