Simbolo intelligente per viaggi inclusivi

a cura della Redazione

Si narra che il primo girasole apparso sulla terra fosse in realtà una giovane ninfa, Clizia, innamorata di Apollo, dio del Sole. Apollo, lusingato dal grande amore della giovane, in un primo momento ricambiò le attenzioni, ma successivamente la abbandonò. Clizia per la disperazione pianse ininterrottamente per nove giorni immobile in un campo, senza distogliere mai gli occhi dal sole. Secondo il mito nato più di duemila anna fa, il corpo della giovane si irrigidì trasformandosi in uno stelo, i suoi piedi divennero radici ed i capelli divennero una corolla gialla. Clizia in questo modo si trasformò nel primo girasole della terra, che ammira il sole tutto il giorno.

Questa è solo una delle tante leggende esistenti sul girasole, il fiore per eccellenza della bella stagione. Tra i simboli più contemporanei associati a questa pianta c’è anche quello dell’inclusione. A livello mondiale rappresenta disabilità nascoste, dette anche invisibili, come l’autismo, dolore cronico e difficoltà di apprendimento, nonché condizioni di salute mentale, mobilità, disturbi del linguaggio e perdita sensoriale come perdita della parola, perdita della vista, perdita dell’udito o sordità.

Le persone che vivono con queste patologie affrontano spesso ostacoli nella loro vita quotidiana, a cui si aggiungono la mancanza di conoscenza o comprensione da parte degli altri. Senza prove visibili della disabilità nascosta, è spesso difficile per gli altri riconoscere le sfide affrontate e, di conseguenza, la simpatia e la comprensione possono spesso scarseggiare. Per questo motivo è stato inventato il “Sunflower Lanyard”, un laccetto usato per aiutare con la dovuta discrezione le persone che ne fanno richiesta: infatti il laccetto girasole permette al nostro staff di riconoscere una necessità particolare e di prestare aiuto o di essere pronto a concedere un po’ di tempo in più al passeggero che lo indossa e ai suoi accompagnatori.

Tutto nasce nel 2016 dall’aeroporto di Gatwick, Londra, per poi diffondersi piano piano in gran parte dell’Inghilterra. Nasce per chi ha delle disabilità nascoste, quelle che non si vedono a colpo d’occhio; non è nato quindi specificatamente per l’autismo, ma per diversi tipi di disabilità come disturbi cognitivi, ansia, ADHD. Gatwick ambisce a diventare l’aeroporto più accessibile del Regno Unito e credo che non avrà difficoltà a raggiungere il suo obiettivo.


Sulla base del successo dei cordini negli aeroporti altre organizzazioni nel Regno Unito li hanno adottati, tra cui supermercati, stazioni ferroviarie, musei e impianti sportivi. Un Italia uno degli aeroporti che ha seguito l’esempio virtuoso di Gatwick è il Marco Polo di Venezia, in cui il braccialetto viene a chiunque ne faccia richiesta. In particolare, i passeggeri con disabilità invisibili, o gli accompagnatori di passeggeri con disabilità invisibili, possono chiedere uno speciale laccetto con i girasoli da indossare all’interno dell’aeroporto. È possibile reperirlo in tre aree: in sala Assistenza Speciale (primo piano landside), all l’ufficio Informazioni Arrivi (piano terra presso la zona arrivi) o all’addetto assegnato all’assistenza.

Una piccola accortezza che incide sul la qualità delle vita di tante persone – adult, bambin*, ragazz* - e famiglie. Quali sono i vantaggi? Innanzitutto, è uno strumento sia per il passeggero che per il personale, perché permette di identificare con chiarezza una persona che necessita di un’attenzione diversa e allo stesso tempo riduce notevolmente lo stress nel disabile grazie alle agevolazioni che sono previste. Basta infatti rivolgersi direttamente al personale e chiedere ciò di cui si ha bisogno.

Indossare il laccetto girasole è una scelta volontaria a disposizione del passeggero per vivere un’esperienza migliore. Un gesto semplice che vale più di mille parole.


Per maggiori informazioni visita il sito:

www.veneziaairport.it/info-e-assistenza/disabilita-invisibili.html

Il racconto di Stefano Bruzzese, delegato del Tonga alla simulazione ONU.

di Francesca Lai

Sarà alto poco più di 506 metri, avrà novanta piani e sorgerà su un terreno di 1,2 acri al 418 11th Avenue di Manhattan. L’Affirmation Tower, grattacielo proget-tato dallo studio di architettura di David Adjaye, diventerà il simbolo dell’inclusione socioeconomica per la città di New York.

Ancora non esiste, ma agli occhi (dell’immaginazione) di Stefano Bruzzese, 25 anni, dottorando in scienze agrarie, forestali alimentari all’Università di Torino, questo edificio è forse uno dei più innovativi e inclusivi mai esistiti.

Scelto tra più di tremila selezionat* per vestire i panni di codelegato del Tonga alla simulazione ONU, Stefano è rimasto colpito da una città in cui l’inclusione è tra le persone, tra le strade, nei palazzi e nei progetti architettonici.

Affirmation Tower non solo cambierà lo skyline e il paesaggio di New York City, ma sarà un potente motore economi- co per le minoranze e le donne: sarà destinato destinare il 35% della forza lavoro a persone di colore, per un totale di oltre un miliardo di dollari.

Da Collegno, provincia di Torino, a New York. Perché hai deciso di candidarti a questo progetto?
Il mio sogno era poter vedere e camminare nel celebre Pa- lazzo di Vetro. Purtroppo, non è andata così: in quei giorni, all’inizio della guerra in Ucraina, il palazzo era occupato per le sedute – quelle vere – degli stati membri. Per cui la settimana di attività si è svolta al New York Marriott Marquis, un centro congressi nel cuore di Times Square. È stata comunque una bellissima avventura: tre giorni pieni di attività due da turista.

Come ti sei preparato per affrontare le giornate di discussione?
Prima delle tre giornate abbiamo avuto l’opportunità di fare una formazione in cui abbiamo scoperto le fondamenta del sistema ONU: dagli organi, ai meccanismi di decisione, al public speaking.

Chi sono stati i tuoi “vicini di casa” all’ONU? Io ho lavorato nel comitato dell’Unicef insieme ad un code- legato, anche lui di Torino. A fianco a noi c’erano i delegati dell’Australia, delle Seychelles, e il Kiribati, piccolo paese dell’Oceania.

Com’erano organizzate le giornate? Le attività iniziavano alle 9 del mattino fino alle 16 e 30 del pomeriggio. Si lavorava da soli o in gruppo in diverse sessioni, si presentavano mozioni sull’ordine del giorno e si votava. Noi, essendo nel comitato Unicef, avevamo il compito di presentare strategie e strumenti volti all’introduzione di politiche giovanili post pandemia. Ogni sera ho partecipato ad eventi diversi. Il più bello è stato il concerto di Francesco De Gregori al Manhattan Center.

Prova a fare un bilancio della permanenza nella Grande Mela. Cos’hai portato con te in Italia?
È stato bello vedere l’affiatamento di tutti noi giovani. Dopo due anni di pandemia, ragazze e ragazzi da tutto il mondo insieme nel vivere giornate intense e fuori dall’ordinario. Si è sentito molto questo calore: non lo dimenticherò mai. Come non scorderò l’emozione di incontrare gli special guest intervenuti, l’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton e il grande Francesco de Gregori. E poi porterò con me per sempre la città, la sua grandezza, il senso di comunione costante, il via vai di gente a qualsiasi ora del giorno e della notte. New York non dorme mai e ha sempre qualcosa da offrire.

New York è una delle città più multietniche al mondo. Qui l’inclusività è di casa?
Chiunque può trovare il proprio luogo. New York è una città libera dove le etnie si incontrano tra loro senza distinzione. È qualcosa che noti subito.

Ci fai degli esempi? L’inclusione pervade la città a partire dai bagni pubblici (in alcuni non ci sono distinzioni di genere) fino all’architettura dei luoghi e dei palazzi. Questa è una tendenza del presente e del futuro. Tra le cose che più mi hanno colpito c’è sicuramente l’Affirmation Tower che sorgerà sul “site K” della città, ad un isolato dalla nota “High Line”, e sarà il simbolo dell’inclusione di sesso e di etnie. Progettato dall’architetto americano David Adjaye, il grattacielo prevede una struttura a parallelepipedi che crescono dal basso verso l’alto. Il significato è proprio l’inclusione: entrerà nella storia perché sviluppato e abitato soprattutto da donne, persone di colore e da tutte quelle “minoranze” spesso ai margini della società.

Consiglieresti ad altre persone di fare questa esperienza? Certamente. In primis viaggiare comporta sempre un arricchimento, in qualsiasi città del mondo. Per quanto riguarda la mia permanenza a New York, l’esperienza della simulazione ti permette di metterti nei panni di quello che i veri diplomatici fanno nella realtà, attività non banale. Non solo, il valore di questo viaggio sta nel poter lavorare con altre persone, diverse per lingua e cultura. In questa occasione ho allenato la mia capacità di leadership e di collaborazione in gruppo. Ecco perché la consiglio.

Sono (anche) affari nostri

a cura di Maschi che si immischiano

Perché non mi riconoscevo in una maschilità aggressiva: la pativo su di me e provavo empatia per le donne che la subivano”. “Perché ho capito che dovevo mettere in discussione tante superficiali certezze”. “Perché venivo da una famiglia “matriarcale” e non mi ero reso conto che all’esterno ci fossero tutte queste ingiustizie. Che ha subito anche mia figlia”. “Per...interesse: perché alla fine la banalità del patriarcato è una fregatura anche per l’uomo, e cambiare le cose conviene a tutti”...

Già: perché un piccolo gruppo di uomini con vari impegni e professioni dà vita ad una associazione dal titolo “Maschi Che Si Immischiano”? Nel provare oggi a richiedercelo, è emerso che la risposta dell’altro conteneva e allo stesso tempo completava la propria. Senza dimenticare un dettaglio, che oggi un po’ ci inorgoglisce e un po’ ci rode: abbiamo creato questa piccola associazione perché - se l’idea è stata di un uomo - a convincerci è stata...una donna. Che conoscevamo e che da allora fa da contrappunto e pungolo alle nostre riflessioni, creando quella alleanza che pensiamo sia l’unico modo per essere tutti e tutte liberi di essere ciò che vogliamo.

Era il 2016. La Parma ricca e felice che tanto spesso si vanta capitale lo stava ridiventando, come già dieci anni prima, anche dei femminicidi. E allora, alla vigilia della Giornata contro la violenza sulle donne, abbiamo capito che in quel 25 Novembre non avremmo più potuto lasciare sole le donne a sfilare in corteo. Quel giorno, e da quel giorno, abbiamo esibito e scandito la triste ma concretissima verità che ci fa da sottotitolo: “Il problema siamo noi”. E dunque, se lo vogliamo, anche la soluzione.
Sei anni dopo, possiamo dire di aver avuto sorprese in negativo e in positivo. Le prime: se le iniziative sono apprezzate, è molto più difficile far percepire quel discorso di introspezione che si traduce spesso - lo abbiamo sperimentato sulla nostra pelle di soci fondatori - in un vero e proprio ribaltamento delle proprie convinzioni e dei propri comportamenti quotidiani. Un esempio: siamo stati felici di veder crescere i followers della nostra pagina facebook fino a circa 3500, salvo poi scoprire che il 60% sono donne. Ancora: le porte a cui bussiamo si aprono facilmente, ma anche perché resiste una convinzione radicata: “io non picchio”, “la violenza non mi riguarda”, ovvero si pensa che ci sia una sorta di distanza tra le persone e quel problema, dunque non costa nulla aderire. Eppure si può scoprire che il femminicida, il violento o lo stalker era l’amico, il vicino o il collega di scrivania: forse solo in quel caso si capisce che il nemico vero è la cultura patriarcale e sessista che un po’ tutti ci portiamo inconsapevolmente addosso.

Ma ci sono state anche belle sorprese: ad esempio nel mondo dello sport. Ed è simbolico che i primi e più convinti interlocutori siano stati gli interpreti dello sport virile per eccellenza: il rugby, dove il concetto-simbolo di fair play si è allargato al tema del rispetto, parallelamente alla crescita che le squadre femminili stanno avendo nella palla ovale. Ma anche nel calcio le nostre iniziative non sono cadute nel silenzio: chi avrebbe detto, almeno fino al decennio precedente, che avremmo visto una squadra di serie B come allora era il Parma esibire una maglietta ancora crociata ma fucsia...? E il discorso si sta allargando ad alcune società giovanili di varie discipline: tema importantissimo, perché lo Sport ha uno straordinario potenziale educativo, non sempre sfruttato nel modo giusto.

Altre grandi ventate di limpidezza e di ottimismo ci vengono dai ragazzi che abbiamo incontrato nelle scuole. Quando si parte dalla vita di tutti i giorni e, ad esempio, li si pone di fronte alle differenti attenzioni che si debbono mettere in pratica quando si esce la sera (dall’abbigliamento alle precauzioni nel ritorno a casa se si deve camminare a piedi) a seconda che si sia ragazzo o ragazza, allora vien fuori trasparente e prepotente l’indisponibilità ad accettare questa e le tante altre quotidiane disparità di genere.

Poi, naturalmente, è diventato preziosissimo fare rete con le diverse associazioni al femminile che si occupano di violenza, di diritti, di pari opportunità, di teatro ecc. Dalla prima volta in cui abbiamo fatto sentire la voce altra, quella maschile, abbiamo visto intorno a noi un positivo stupore. A volte è stato necessario superare qualche comprensibile diffidenza: non eravamo lì per oscurare, ma al massimo per affiancare o stare anche un passo indietro. Ed è vero che non dobbiamo occuparci di tematiche che riguardano le donne: siamo nati per occuparci di noi uomini, della riflessione sulla maschilità e di come ingabbia noi e dall’altra parte, le donne della nostra vita. Niente proposte di corsi di autodifesa, e invece tentativi di rispondere alla domanda: come far sì che le donne non debbano difendersi?

Sui bus in giro per la città, sulle auto del Comune e di qualche cooperativa ha viaggiato la nostra campagna di comunicazione “Scegli che uomo sei” (“Un collega che riconosce o che svaluta le donne?”, ad esempio)

Discorsi che affrontiamo anche nelle aziende, sia con incontri-dibattito, sia con iniziative come la newsletter mensile con vignette “firmate” Gianlo in cui proponiamo di “immi-schiarsi” sulle tematiche della quotidianità condividendo, confrontandoci e ponendoci reciprocamente dei dubbi. Come ripetiamo spesso, l’obiettivo ultimo dei MCSI è... sciogliersi. Attraverso il nostro passaparola a chilometro zero, vorremmo diventare una associazione finalmente inutile rispetto a una presa di coscienza che deve essere collettiva e che ci pare ovvia e scontata, per un mondo migliore. Da costruire insieme, uomini e donne.


Maschi che si immischiano

Associazione nata nel novembre 2016

Mail: maschichesiimmischiano@gmail.com E

Facebook: Maschi Che Si Immischiano Aps

Intervista al Sindaco Matteo Lepore

di Francesca Lai

Sindaco Lepore, ora più che mai l’Italia vede la vera anima di Bologna, città inclusiva e rivoluzionaria. Il 22 febbraio 2022 è iniziato il percorso che porterà alla modifica dello statuto di Palazzo d’Accursio per introdurre simbolicamente il principio dello ‘Ius Soli’ e istituire la cittadinanza onoraria del Comune ai minori stranieri nati in Italia che vivono o studiano in città. Bologna è riuscita dove il parlamento non è arrivato nel 2017. Crede che anche altre città italiane seguiranno l’esempio de “La dotta”?

È quello che spero. In alcuni Comuni il dibattito è già avviato. Penso a Napoli, dove il Consiglio Comunale ha approvato un ordine del giorno con il quale si impegna l’amministrazione ad inserire lo Ius Soli nello Statuto comunale, o a Roma, dove qualche giorno fa l’Assemblea Capitolina ha approvato una mozione per attivare un impegno pubblico sul tema della riforma della cittadinanza. Sono segnali importanti. Così come lo sono stati i tanti messaggi di sostegno e apprezzamento che abbiamo ricevuto da tutta Italia, per la nostra iniziativa sullo Ius Soli. Credo sia una battaglia di civiltà, fondamentale, da portare avanti insieme. Un invito che rivolgo ai cittadini e ai sindaci italiani, soprattutto quelli progressisti e democratici. Perché si tratta di una proposta che guarda alla realtà del nostro Paese, che mira ad includere chi si sente, e di fatto è, italiano a tutti gli effetti, perché parla la nostra lingua, cresce nel nostro stesso contesto culturale, tifa per le stesse squadre di calcio o di basket. È importante che le città sollecitino il Parlamento a fare un passo avanti storico per l’Italia, approvando una riforma nazionale sulla cittadinanza. Oggi più che mai la democrazia deve allargare il fronte dei diritti e dei doveri. Su questo Bologna vuole fare la sua parte, come città dei diritti, coerentemente con la sua storia.

A seguito di questa iniziativa undici mila ragazz* diventateranno cittadin* bolognes*. Bambini e bambine, giovani che un giorno saranno adulti la cui vita sarà segnata da questa. Bologna sarà anche nelle loro mani. Da questo punto di vista, pensa mai alla città tra vent’anni? Come la immagina?

Si tratta di un atto simbolico forte con il quale diciamo che per noi queste ragazze e questi ragazzi sono bolognesi e italiani, e che devono avere gli stessi diritti dei loro coetanei. È giusto e bello che Bologna sia anche nelle loro mani e che possano partecipare attivamente alle scelte del futuro della città. Tra vent’anni mi immagino una grande Bologna. Una città più inclusiva, aperta, capace di attrarre talenti e valorizzare le diversità culturali. Una città pienamente europea capace di contribuire alle principali sfide future, da quella del lavoro, a quella sociale, sanitaria e climatica e sulle nuove tecnologie. Capace di dare risposte concrete e mettere al centro le persone e il loro benessere. Una città più verde e sostenibile, grazie all’importante lavoro che stiamo realizzando, per esempio, con la missione UE delle 100 città a impatto climatico zero entro il 2030. Per fare questo sarà importante affermare la “politica del noi”, avendo cura delle relazioni con le persone e stimolando la partecipazione attiva dei cittadini.

Lei si è definito un “sindaco tra la gente”. Non appena eletto ha introdotto una modalità nuova di ascolto della cittadinanza: il suo ufficio ha migrato per i centri civici di ogni quartiere al fine di raccogliere equamente l’istante di tutti i cittadini. Quanto la presenza sul territorio ha inciso sullo sviluppo della città dall’inizio del suo mandato? Che risultati sono stati ottenuti?

Ho sempre creduto in una politica che metta al centro le persone, i territori, l’ascolto. Quella stessa politica che, oggi, deve tornare a svolgere il ruolo per cui è nata. Cioè essere vicina ai cittadini. Da qui la scelta di voler spostare il mio ufficio, una volta al mese, in un quartiere diverso della città. Un nuovo modo di lavorare per tutta la Giunta e la macchina comunale. La presenza sul territorio in questi mesi è stata fondamentale. Ci ha permesso di toccare con mano cosa funzione e cosa non funziona, di ascoltare direttamente i cittadini e lavorare insieme sulle priorità, zona per zona. Così facen- do andiamo incontro ai problemi quotidiani delle persone, ne raccogliamo i bisogni e le priorità percepite e costruia- mo insieme possibili soluzioni. A spostarsi non sono solo il sindaco e il suo staff, ma anche gli assessori e i dirigenti comunali. Questo ci permettere di cambiare il punto di vista dell’amministrazione, conoscere ciò che accade in prima persona. Da questa conoscenza e dalla cura della comunità e dei territori nascono le risposte concrete da dare ai cittadini. Un metodo di lavoro basato sulla prossimità quindi, che porteremo avanti per tutto il mandato.



Matteo Lepore, sindaco di Bologna

Lo sviluppo di una città è determinato inevitabilmente dall’evoluzione del tessuto macro-sociale e micro. In questa crescita trovano spazio i progetti rivolti all’educazione, come la piazza scolastica di via Procaccini. Lei ha promesso che ogni quartiere ne avrà una. Di cosa si tratta?

La piazza scolastica di via Procaccini è la prima piazza scolastica pedonale di Bologna. 330mq di area pedonale interamente dedicati ai ragazzi di una scuola adiacente ed in generale a tutti quelli che frequentano la zona. Si tratta di uno spazio di socialità con giochi, panchine, scritte a terra con messaggi di inclusione in diverse lingue, piante officinali, rastrelliere. Un’area per garantire maggiore sicurezza stradale e più spazi per i giovani. L’allestimento, sul modello di un altro intervento simile realizzato in via Milano, è temporaneo, con una durata di 12 mesi prima di diventare definitivo. Questa piazza rappresenta il futuro di Bologna, il modo in cui vogliamo cambiare l’uso di alcune strade e spazi della città. Per far sì che lo spazio pubblico torni ad essere al servizio di tutte e tutti, pulito, sicuro, vivibile.

Racconti un altro progetto di inclusione che ha preso vita negli ultimi mesi.
Un altro importante progetto di inclusione, al quale tengo molto, è quello delle Case di Comunità da realizzare in ogni quartiere. Partiamo dal quartiere Savena, dove abbiamo già messo in campo un investimento da 7,5 milioni di euro di fondi PNRR. Nel periodo pandemico il diritto alla salu- te e la cura delle fragilità sono emersi in modo centrale. Per questo credo che oggi sia importante garantire a tutti i cittadini la possibilità di raggiungere un luogo accessibile a tutte e tutti, in cui trovare non solo medici ma anche infermieri e psicologi di comunità, assistenti sociali. In questo mandato vogliamo quindi ampliare le Case della Salute già presenti e trasformarle in uno spazio in cui sperimentare un nuovo modello di integrazione sociale e sanitaria.

Bologna città della conoscenza. Il progetto Tecnopolo, inserito in un quartiere già fertile, tra Università e centri di ricerca di eccellenza nazionali ed europei, ha una importanza strategica dal punto di vista internazionale nazionale. Secondo lei esistono anche i confini delle città? Dove inizia e finisce un territorio urbano?

Il Tecnopolo rappresenta un’infrastruttura strategica per tutto il Paese. Un progetto in cui crediamo molto e grazie al quale saremo al centro dell’Europa, diventando uno dei principali Big Data Hub europei. Una grandissima opportunità per la nostra città, che si inserisce nel progetto più ampio di Città della Conoscenza. La conoscenza e la ricerca sono fattori chiave che ci permetteranno di rendere il nostro terri- torio più attrattivo a livello nazionale ed internazionale. Viviamo in un mondo sempre più interconnesso, nel quale siamo chiamati ad affrontare sfide globali. Per questo credo che non si possa più parlare di confini in senso stretto, ma ci sia bisogno di ragionare in termini più ampi. A Bologna lo stiamo facendo, allargando il nostro orizzonte in ottica metropolitana. Per pensare e agire come un’unica comunità di oltre un milione di abitanti. Solo così saremo in grado di realizzare gli obiettivi futuri e di crescere insieme al nostro territorio.

Bologna città progressista e democratica. Dall’architettura delle idee nascono solide costruzioni. Un inedito punto di confronto a Bologna è la Nuova Fabbrica del Programma: come nasce? Come sta contribuendo e contribuirà alla crescita della città?

La Nuova Fabbrica è stata una iniziativa fondamentale per costruire il progetto per Bologna. uìUn percorso partecipato, che ci ha accompagnato fino alle elezioni, con il quale abbiamo definito insieme a migliaia di cittadini le priorità di Bologna per i prossimi dieci anni. La Nuova Fabbrica è stata caratterizzata da incontri tematici, di studio, momenti di approfondimento e di condivisione di idee e progetti. I lavori della Nuova Fabbrica ci hanno aiutato a fare sintesi e sono stati il punto di partenza prezioso che ci permette oggi di affrontare con maggiore determinazione e consapevolezza le grandi trasformazioni che la città di Bologna dovrà affrontare.

Da ultimo, una domanda che rivolgo alla persona, e non all’uomo delle Istituzioni. Bologna è la città della cultura, dei grandi cantautori, della musica che ha anche un valore sociale. È la città che fa innamorare studenti fuorisede e visitatori. Qual è la cosa che la fa innamorare ogni giorno di Bologna?

Questa è forse la domanda più difficile di tutte. Perché non è semplice scegliere una sola cosa. Dalle sue stradine piene di vita, alla sua storia e cultura diffusa, al suo essere sempre in prima linea quando c’è bisogno di aiutare gli altri. Tutto mi fa innamorare ogni giorno di questa città. Ma se proprio dovessi scegliere, direi la sua anima accogliente ed inclusiva, in grado sempre di sapersi innovare. Bologna è una città che sa dare forza alle persone, ai loro sogni e alle loro speranze. Una città che si batte ogni giorno per la giustizia e per combattere le disuguaglianze. Una città, insomma, che si alimenta costantemente della speranza che un mondo diverso e migliore sia possibile. E questa credo sia in assoluto la cosa più bella.

Lavorare per un futuro più inclusivo e sostenibile

La parità di genere, tema inserito come quinto goal del programma dell’agenda 2030, non è solamente un diritto, ma la condizione necessaria per costruire un mondo migliore.

Al centro di molti dibattiti, in Italia c’è ancora tanto da fare per cambiare il modello culturale e contrastare il gender gap, e i dati lo confermano. Il rapporto sull’indice di uguaglianza di genere 2021 diffuso da European Institute for Gender Equality (EIGE), evidenzia come in un contesto dove l’Europa cresce solo dello 0,6% sull’anno precedente, l’Italia si posizioni al 14mo posto (63,3 punti su 100), inferiore di 4,4 punti rispetto alla media UE. Fanno eco anche i dati di EWOB, l’associazione European Women on Boards, che sottolineano che la leadership femminile nel nostro Paese è ben lontana dall’essere bilanciata, con solo il 17% di donne nei livelli esecutivi, contro il più virtuoso 32% della Norvegia e il 24% della Gran Bretagna, e con il 3% di donne in posizione di CEO, percentuale scesa di un punto rispetto al 2021, il che posiziona l’Italia in fondo alla classifica.

In questo contesto, l’approvazione della Legge Gribaudo, che prevede modifiche al codice sulle pari opportunità tra uomo e donna, deve essere letta come un segnale della volontà di dare un’accelerazione a questo processo. Winning Women Institute, che dal 2017 ha dato vita alla prima Certificazione di parità di genere, ha l’obiettivo di aiutare le aziende a misurarsi e valutarsi sul tema delle pari opportunità nel mondo del lavoro premiando le aziende vir- tuose che raggiungono standard di eccellenza.

“Il nostro processo di Certificazione è distintivo ed esclusi- vo - spiega Enrico Gambardella, presidente di Winning Wo- men Institute -. Il percorso si basa su un’analisi oggettiva e da compiere, passo dopo passo, con la nostra consulenza. Ottenere la Certificazione per l’azienda si traduce in bene- fici effettivi come la diffusione di una cultura aziendale più equa e meritocratica e il posizionamento del proprio brand sia da un punto di vista etico che reputazionale.

È anche dimostrato che le imprese che raggiungono un obiettivo di gender equality sono più performanti in ter- mini di business e più interessanti per i mercati finanziari. Inoltre poiché le aree di indagine per ottenere la Certifica- zione Winning Women Institute sono coerenti con quelle

che chiede la Legge Gribaudo, le aziende che faranno il nostro percorso partiranno avvantaggiate”.
Il percorso di Certificazione consiste in un assessment strutturato che prevede un rigoroso processo messo a pun- to con l’innovativa metodologia Dynamic Model Gender Rating ideata dal Comitato Scientifico di Winning Women Institute, presieduto da Paola Corna Pellegrini, CEO di Allianz Partners.

L’indagine si basa sull’analisi di un set di Key Performance Indicator (KPI) finalizzati ad esaminare l’opportunità di crescita in azienda per le donne, l’equità remunerativa, le politiche per la gestione della gender diversity e inclusion, la tutela della genitorialità. Dall’analisi emergono i punti di forza, le aree di miglioramento e quindi i gap da colmare in termini di pari opportunità.

“C’è infatti ancora un’ampia distanza tra intenzioni e azioni concrete, - continua Gambardella - ed è per questo che ab- biamo studiato un processo di Certificazione, il cui risultato si raggiunge solo con impegno e convinzione. Dal nostro osservatorio, oggi solo 2 o 3 aziende su 10 sono da subito in grado di raggiungere la Certificazione. Per le altre occorre un piano di miglioramento che Winning Women Institute aiuta a preparare”.

Attualmente le realtà certificate sono A&C Broker, Allianz Partners, Amgen, Banca Ifis, Biogen, Bip, BNP Paribas Cardif, Bosch, Carter & Benson, Cameo, Challenge Network, Grenke, Humana, Ipsen, Michelin Italiana, Native, Sisal, Sanofi, Sas, ma ce ne sono almeno una trentina in ‘fase di miglioramento’.

Winning Women Institute ha stretto anche importanti alleanze con AICEO (associazione che conta più di cento CEO di importanti aziende italiane) e con Valore D (associazione di imprese in Italia impegnata sul tema della parità di genere), per una maggiore diffusione e sensibilizzazione della gender equality.

A sottolineare ulteriormente l’impegno verso uno sviluppo più sostenibile, etico, equo, responsabile nel quale il bene comune sia alla base del fare impresa, da gennaio 2022 Winning Women Institute è Società Benefit.

www.winningwomeninstitute.org

Il modello che da Parigi ha preso piede in tutta Europa

di Emanuele La Veglia

Una città inclusiva è un luogo che non solo accoglie chiunque, senza fare distinzioni di etnia, genere, età, ma in cui soprattutto ci si possa sentire a proprio agio. Quante volte, misurando la vivibilità magari di un capoluogo di regione, consideriamo, come parametro, ad esempio metropolitane o autobus? Tasselli che sono sicuramente fondamentali perché è estremamente importante capire il tempo che occorre per raggiungere le mete quotidiane.

Il discorso, apparentemente scontato, è stato teorizzato da un professore universitario, Carlos Moreno, che insegna a Parigi, alla Sorbona. Nato in Colombia, è un divulgatore noto a livello internazionale per il modello “Vile du quart d’heure”, concept con cui ha disegnato la piantina ideale, quella in cui, in soli 15 minuti, percorsi a piedi o in bici, si può arrivare, partendo dalla propria abitazione, ai principali servizi. 

Ridurre le distanze diventa un modo per velocizzare l’accesso a esigenze quotidiane come l’istruzione, il lavoro, l’assistenza sanitaria, i beni di prima necessità, ma anche le risorse per una maggiore cura di sé, e dunque shopping, divertimento, benessere e così via. Può sembrare qualcosa di assolutamente ideale, eppure l’urbanista, classe 1959, ha più volte dichiarato di ispirarsi a documenti diffusi da decenni, come le opere dell’antropologa e scrittrice Jane Jacobs. 

Ancora una volta ecco una figura femminile dietro un’idea rivoluzionaria, che vede appunto le sue origini nel libro in questione, uscito nel 1961 e intitolato “The Death and Life of Great American Cities”. E, analogamente, c’è una donna dietro la diffusione concreta del progetto, ovvero Anne Hidalgo, sindaca di Parigi, al suo secondo mandato e candidata alle ultime elezioni presidenziali. Una figura di spicco che ha fatto da traino a un obiettivo ambizioso che è adesso inseguito da tanti Paesi europei e non solo. 

Un’espressione ricorrente per definire il fenomeno è “localismo cosmopolita” perché la soluzione proposta sta nell’avvicinare tra loro determinati punti di interesse, piuttosto che trovare il modo per collegarli meglio. Un capovolgimento di prospettiva sperimentato con decisione durante la pandemia, poiché, per evitare contagi, si sono moltiplicati i sistemi di sharing, l’utilizzo di monopattini, biciclette e il tornare a essere pedoni quando possibile, evitando smog e traffico.

Le origini andaluse di Hidalgo ci conducono, in un viaggio ideale, nella penisola iberica, dove è Barcellona a fare da capofila con l’adozione dei “superblocks”, i raggruppamenti di più isolati in cui si riduce al minimo la circolazione delle macchine, per lasciare ampio margine a runner, parchi, aree gioco, mentre le code, e il conseguente inquinamento, restano all’esterno dell’area delineata. A fare eccezione, con stabiliti limiti di velocità, sono vetture di residenti e veicoli d’emergenza. 

La trasformazione può interessare, nel mentre, il singolo quartiere, orizzonte senza dubbio attuabile come hanno capito da tempo a Copenaghen, in Danimarca, dove è stato sperimentato il principio dei cinque minuti, entro i quali trovare ciò di cui si ha bisogno. E veniamo in Italia, a Milano, una metropoli che si presta a rispondere, in un futuro prossimo, ai parametri delineati. Al momento la maggioranza dei tragitti sono fattibili in mezz’ora, con i mezzi, ma resta una struttura a cerchi concentrici, in cui andando verso il più interno (dalle parti del Duomo per intenderci) sale il benessere economico e sociale. 

Diversa la distribuzione di Roma, dove i cosiddetti “municipi” sono estesi quanto piccole città. Un contesto variegato in cui il sindaco, Roberto Gualtieri, vuole portare il modello di Moreno. Cosa vi rientrerebbe? Una fermata del trasporto pubblico, scuola, almeno primaria e dell’infanzia, sport, coworking, acquisti base e aggregazione culturale. Intanto, per porsi obiettivi più raggiungibili, c’è chi preferisce puntare forse più “in basso”, ma con continuità, come Sidney, la “15-minutes city” che in Australia rappresenta un esempio di innovazione ambientale e logistica. 

Il post-Covid ha reso più semplice lo scenario tracciato poiché l’emergenza ha insegnato a valorizzare il vicinato, i piccoli negozi e a considerare cosa c’è intorno a noi, prima di spiccare il volo verso altri lidi. Cominciamo allora dal networking “di prossimità” e successivamente portiamone i frutti all’esterno, allargando gli orizzonti tra connessioni tramite i social e viaggi in giro per il mondo, tenendo alta la bandiera dell’inclusione.


Emanuele La Veglia

1992, laureato in editoria, culture della comunicazione e della moda, giornalista professionista.

L’intervista all’Head of Community & Partnership di Nextdoor Italia

Accoglienza, valorizzazione del territorio, sicurezza, sono alcune delle parole che contraddistinguono Nextdoor, una gamma di opportunità da non perdere per chi si trasferisce in un

nuovo posto, ma anche per chi magari ci viveva da prima. Nata come start-up nella Silicon Valley, ha preso piede quasi subito nel continente europeo, formando delle solide comunità in cui ciascuno può mettere a disposizione le proprie risorse oppure abilità. Si possono prestare oggetti, vendere libri o vestiti usati e dare manforte alle attività in loco. Una rete di ambasciatori e di ambasciatrici dell’inclusione, e non si tratta di una definizione puramente metaforica, bensì del ruolo che si può ricoprire a titolo volontario per far sì che l’atmosfera generale del network sia sempre serena.

Andrea Tessari ci racconta l’evoluzione di Nextdoor, progetto che permette di far conoscere i propri
vicini e di creare delle comunità, in diverse città d’Italia, in cui ci sia collaborazione reciproca. Diversi i servizi offerti, all’insegna dell’inclusione.

Un grande universo, a portata di smartphone e pc, che produce incontri autentici e iniziative di solidarietà. Come accaduto per Margherita che da Milano scrive un post chiedendo come dare un supporto concreto ai senza fissa dimora. Allora le risponde Nadia, poco dopo Laura e così via: in tre cominciano a raccogliere le adesioni negli isolati adiacenti. E da uno scambio virtuale origina un tam tam mediatico da cui vengono fuori coperte, pasti caldi e aiuta consistenti.

E lo stesso impegno vale per la diversità etnica, poiché la compagnia appoggia con convinzione le battaglie sociali del movimento Black Lives Matter, per le discriminazioni razziali. L’orizzonte è quello di avere città multiculturali attraverso il potere della tecnologia, una risorsa fenomenale se utilizzata al meglio. Per capire la portata innovativa dell’intero progetto abbiamo scambiato due chiacchiere con Andrea Tessari, Head of Community and Partnership di Nextdoor Italia. Ecco cosa ci ha raccontato.

Con quali premesse è stata fondata Nextdoor?

Alla base c’è, in primis, la volontà di rendere il singolo quartiere un luogo migliore, fatto di persone che interagiscono tra loro in maniera più efficiente e educata. Vogliamo essere il centro delle comunicazioni affidabili, degli scambi di beni e di possibili favori reciproci, andando a migliorare le relazione nel vicinato, sia online che nella vita reale.

Come è arrivata nel nostro Paese?

Il lancio di Nextdoor Italia è avvenuto nel settembre del 2018, sette anni dopo quello negli Stati Uniti dove l’applicazione è nata. Siamo sbarcati, nel corso del tempo, in undici Paesi differenti, raggiungendo in totale 280mila quartieri ormai ben rodati, di cui trecento solo a Milano.

Cosa cambia nelle singole città?

Lungo la penisola italiana ci siamo concentrati su contesti di ampia portata quali Milano, Roma, Bologna,Torino. Il successo è stato abbastanza diffuso e siamo cresciuti bene in ciascuno dei centri citati. Non abbiamo notato differenze sostanziali ma piuttosto un comune bisogno di connessione e di nuove amicizie. Forse una menzione speciale va a Bologna che presenta un engagement fantastico, probabilmente tra i migliori d’Europa.

In che modo l’app favorisce l’inclusione?

Innanzitutto vietando e condannando ogni forma di discriminazione e di violenza e rimuovendo quanto non rispetta le linee guida. I responsabili possono essere puniti con la sospensione o l’esclusione, a seconda della gravità del fatto. Il tono di voce utilizzato nelle discussioni è di fonda- mentale importanza, dal momento che non sono ammesse mancanze di rispetto né offese di nessun tipo. L’obiettivo è di creare dei luoghi migliori, stimolando l’attenzione verso il prossimo, chiunque esso sia.

Che tipo di feedback ricevete?

I riscontri positivi che arrivano dall’utenza sono numerosissimi e di diversa natura, perché con Nextdoor si può fare davvero parecchio. C’è chi, grazie al nostro servizio, ha superato le difficoltà legate alla solitudine, trovando persone con cui condividere hobby e passioni. Diventa, in più casi, un immenso universo in cui risolvere delle problematiche e soddisfare richieste. Scambi di informazioni utili, confronti su parcheggi, episodi verificatisi nei dintorni e molto altro.

Come si compone l’organizzazione?

Siamo una squadra ben assortita e dislocata in tutto il mondo. Il team italiano appartiene


Emanuele La Veglia

1992, laureato in editoria, culture della comunicazione e della moda, giornalista professionista.

STORIA DI UN PARCO INCLUSIVO A CERTALDO

La storia del Parco Libera Tutti è quella di un lungo percorso di rigenerazione urbana avvenuto in un’area verde piuttosto estesa del Comune di Certaldo (Firenze), che è diventata un simbolo per la sua comunità e una palestra di pensiero e di azioni sul tema dell’“inclusione”.

La storia comincia cinque anni fa con un’intuizione il cui potere propulsivo si continua a vedere ancora oggi, in un innesco di concatenazioni progettuali che continuano ad autoalimentarsi. L’idea era quella di ripensare un’area verde sul modello del parco inclusivo: un’idea di parco dove tutti/e i/le bambini/e possano esercitare insieme il loro diritto al gioco e più in generale un’area progettata per essere accessibile a tutti/e senza distinzione di età, capacità motorie, psichiche e sensoriali, dove poter svolgere attività che educhino all’inclusione sociale, alla convivenza nelle differenze e allo scambio tra generazioni. Il tutto, in un contesto accogliente, coinvolgente, stimolante e piacevole secondo un’idea di città che si sostiene su due aggettivi chiave: inclusiva e collaborativa. La pratica dell’inclusione non è stata perseguita solo come finalità ma anche nel metodo scelto per rigenerare il luogo, che ha visto il coinvolgimento diretto della comunità locale in tutte le sue varie espressioni. Un approccio che fa leva sull’idea secondo cui il progetto di un luogo pubblico debba rispondere, prima di tutto, alle esigenze di chi quel luogo lo frequenta e che evidenzia l’efficacia dell’utilizzo delle competenze di chi abita gli spazi per disegnare luoghi maggiormente vivibili. Pertanto nel concepire il Parco Libera Tutti si è voluto coinvolgere sin dalle prime fasi i suoi destinatari finali, i/le cittadini/e, con i/le quali è stato avviato un percorso di co-progettazione. Quel che ne è seguito è stato realmente articolato e complesso, ne riportiamo solamente i passaggi principali, in una sintesi temporale evidentemente semplificata: nell’autunno del  2017 vengono realizzati gli incontri di co-progettazione con associazioni e cittadinanza del territorio, le osservazioni emerse vengono sintetizzate in un masterplan, ossia un progetto architettonico di massima, capace di rappresentare i contenuti e le volontà espresse dai partecipanti. Nel 2018 nasce in maniera spontanea il Tavolo Permanente per il Parco Libera Tutti, di cui fanno parte associazioni, cooperative e cittadini/e intenzionati/e a promuovere i principi di base del progetto e ad animare l’area con attività ed eventi aperti alla comunità.

Nel 2019 l’amministrazione, spinta da tanto coinvolgimento, acquisisce il masterplan e finanzia i lavori per realizzare il primo lotto del parco e a luglio dello stesso anno inaugura la “piazza centrale”, un luogo fortemente connotato anche per la sua valenza simbolica.

L’anno successivo partono i lavori per il secondo lotto, che interessa un campo multisport, un’area pic-nic con arredi usufruibili anche da persone in carrozzina e un percorso accessibile che collega tutto il parco.

A luglio del 2021 si taglia il secondo nastro, nello scenario di una grande festa, caratterizzata inoltre dalla donazione di attrezzature varie (giochi, installazioni artistiche, libri, targhe) da parte di privati, segno della tenuta dello spirito collaborativo nato dal basso e di una rete che si allarga e si infittisce, riconoscendosi in ciò che il parco rappresenta e veicola. Anche l’istituzione scolastica viene attirata nella maglia, grazie agli/alle studenti di Design della comunicazione visiva e pubblicitaria dell’Istituto Enriques di Castelfiorentino, che elaborano soluzioni grafiche per formelle tattili per ipovedenti e non vedenti, segnando un ulteriore traguardo educativo del parco, inteso come apprendimento al servizio del territorio, mediante la valorizzazione dei beni comuni e la messa in atto di pratiche di cittadinanza attiva e consapevole. E arriviamo ad oggi, con in corso due progetti che vedono il protagonismo dei/delle giovani per definire un calendario di attività ed eventi da realizzare durante una rassegna estiva.

Il Parco Libera Tutti è compiuto, ma non concluso, e porta avanti il messaggio, potente, del valore delle diversità, e di come queste possano trovare espressione nella città pubblica, quel luogo dove i mutamenti sociali, economici e culturali lasciano la propria traccia, ridefinendo simboli ed identità, stratificando significati e valori.

Nel parco si incentiva la costruzione di relazioni sociali e la vita aggregativa, indipendentemente da capacità e abilità personali, estrazione sociale, genere, età o provenienza, si sperimentano pratiche collaborative, portando all’attenzione degli/delle abitanti temi di riflessione centrali per la tenuta della collettività, in particolare su cosa sia e come si realizzi l’inclusione sociale. Il parco è uno spazio pubblico e collettivo in cui si è innescato un protagonismo civico senza precedenti, e che oggi cresce proprio grazie al forte senso di appartenenza della sua comunità senza il quale sarebbe una semplice area verde, solo una, fra le tante.


Narrazioni Urbane

www.narrazioniurbane.it - Diego Cariani, Michela Fiaschi, Caterina Fusi, Alessia Macchi.

Riflessioni di cittadinanza a partire da Le città del mondo di Elio Vittorini

di Nicole Riva

Italia, anni Cinquanta del secolo scorso. La Seconda Guerra Mondiale è finita da relativamente poco e lo smantellamento del regime fascista, che aveva modificato tutto l’assetto del nostro Paese, incluse l’architettura e l’urbanistica, è a un buon punto. L’Italia si rimette in piedi e punta sulla nuova edilizia, quella che crea nuove periferie e ingrandisce le città; la popolazione cresce e contemporaneamente anche la richiesta di abitazioni e la necessità di nuovi spazi urbani. È su questo sfondo che Elio Vittorini scrive Le città del mondo, pubblicato incompiuto e postumo solo nel 1969. 

Il titolo rappresenta il boom edilizio e la copertina di stampo metafisico con una Torre di De Chirico (entrambi scelti dall’editore Einaudi) non ci fanno pregustare nulla. Mentre gli occhi degli italiani sono puntati sull’espansione del triangolo industriale al Nord, Vittorini racconta il viaggio di quattro coppie (due padri e due figli diversi tra loro, i novelli sposi, una prostituta e un’aspirante tale) in un reticolo di viaggi tra le città, o forse sarebbe meglio dire cittadine, di una Sicilia ancora rurale. Mentre il Paese va avanti, la Sicilia rimane arretrata e i personaggi creano un’immensa ragnatela di passaggi attraverso il loro continuo viaggiare spesso dettato da una ricerca senza fine.

Tra le pagine viene nominata una moltitudine di città siciliane, ma due sono quelle che spiccano per la loro importanza all’interno dell’impianto narrativo: Scicli e Agira.

Scicli non è solo una città bella architettonicamente, lo è in ogni suo aspetto, tanto che uno dei protagonisti, il giovane Rosario, afferma: «La gente delle città belle era anche buona, né più né meno come la gente delle città brutte era anche cattiva. Le città belle avevano anche questo merito: di rendere la gente brava e buona». Ad Agira invece i personaggi arrivano di notte, trovano la città illuminata e «ogni persona aveva un suo lume accanto». Da un lato una Gerusalemme siciliana e dall’altro una novella Atene.

Se le descrizioni urbanistiche possono sembrare realistiche, i commenti e le impressioni dei protagonisti rimandano continuamente a un mondo di utopia che non rappresenta lo specchio della Sicilia del tempo, ma che porta inevitabilmente il lettore a una riflessione di carattere civico.

L’uomo acquista l’appellativo di “cittadino” nel momento in cui pone la propria persona in stretto contatto con l’ambiente della città. Lo stesso termine “cittadinanza”, che oltre allo stato giuridico, rappresenta anche ciò che viene insegnato per educare alla vita nella società, trae le sue radici dal rapporto tra uomo e città. Ecco allora come una frase all’apparenza ingenua come quella sulla bontà delle persone, generata dalla bellezza dell’ambiente in cui vivono, rivela quanto il luogo e il contesto siano fondamentali per la crescita del cittadino.

Non c’è bisogno di creare mondi di fantasia per averne uno migliore, bensì di investire tanto nei centri quanto nelle periferie per creare l’ambiente più adatto alla crescita personale. Ben vengano gli spazi verdi, l’attenzione verso le necessità e l’inclusione; sono investimenti che porteranno i loro benefici, ma attenzione, perché non può essere solo la bellezza a salvarci.

Agira è una città culla della democrazia e, probabilmente, è posta alla fine del libro perché ciò che i protagonisti cercano veramente con tutto il loro peregrinare è la libertà. Essere liberi non significa non avere regole: significa avere la possibilità di essere fautori del proprio destino. I personaggi del libro continuano a spostarsi perché sembra non sappiano cosa vogliono veramente. Il romanzo non ha una conclusione, non possiamo sapere se alla fine del loro viaggio hanno trovato ciò che dentro di loro stavano cercando, anche se il fatto che il titolo originale del libro dovesse essere I diritti dell’uomo ci dà un ottimo spunto di immaginazione.

Il binomio città/utopia non è una scoperta di Vittorini, il quale si inserisce in un fortunato filone che vede tra i suoi esponenti più importanti Campanella con La città del sole e More con Utopia. Di poco successive alla pubblicazione de Le città del mondo sono poi Le città invisibili (1972)di Calvino, che partendo da una cornice storico letteraria esplodono in un immenso turbinio di fantasia.

Perché la città se per molto tempo il luogo della fantasia in letteratura è stato l’arcadia? Perché non possiamo più permetterci di evadere da dove viviamo per cercare la bellezza nella natura. Il nostro impegno deve essere qui e ora.


Nicole Riva

1991, laurea magistrale in filologia moderna, professoressa di italiano, storia e geografia
nella scuola secondaria di secondo grado.

Dove artico significa inclusione

di Davide Sapienza

A Bodø, contea di Nordland, Norvegia artica, lo spazio tra la terra e il mare è vasto. Davanti alla città, al largo, come un’immensa nave, l’isola Landegode è un faro di terre emerse per  i naviganti. La città stessa non è solo il nucleo armoniosamente cresciuto in due secoli nel territorio, tra il Mare del Nord, i fiordi e le montagne dalle forme fiabesche riflesse nell’inconfondibile cielo artico. Bodø è una creatura proteiforme che si estende in ogni direzione perché le distanze geografiche sono ridotte da un sentire comune degli abitanti della regione. Cinquantamila abitanti e un hub aeroportuale e marittimo (da qui si raggiungono le isole Lofoten) sono quello che rende la città appetibile e facilmente raggiungibile, anche durante l’inverno. Ma questo non dice tutto.

Il professor Steinar Aas, accademico della Nord Universitet, che insieme all’Università artica della Norvegia a Tromsø (i due atenei artici della Norvegia), rappresenta un polo molto vivo dell’intero Nordland, spiega perché, qui, accadono cose impensabili altrove nel suo paese: «abbiamo sempre avuto un’economia aperta, anche per la dipendenza da beni provenienti dall’estero come il grano. Più vai a nord, più la sopravvivenza dipende dalla capacità di adattamento al territorio che cambia, ma è stato grazie alle risorse del mare del Nord che ha attratto molte persone dall’estero e soprattutto dopo la seconda guerra mondiale; il flusso migratorio che la Norvegia vedeva in atto da nord verso sud si è trasformato in un’immigrazione da Svezia, Danimarca, Gran Bretagna, Europa dell’est e poi, con le crisi e le guerre globali, di curdi, somali, eritrei, iracheni, siriani, filippini, tailandesi».

Nell’esteso Nord-Norge vive solo il 10% della popolazione totale della nazione e per raccontare questo nord a tutti i norvegesi, a Bodø si è lavorato a lungo per scrivere una storia nuova: tre anni fa la città si è aggiudicata il riconoscimento di capitale europea della cultura 2024 (https://bodo2024.no/), puntando sulla creatività nel senso più ampio del termine: da quella artistica e culturale, a quella di impresa. Lo spirito dell’innovazione è una visione sociale e geografica, ben sintetizzata dal titolo del progetto: Arcticulation. Gli investimenti previsti superano i venti milioni di euro e questa meta è in realtà vista come un punto di partenza, l’opportunità per raccontare al mondo un artico inclusivo, maestro silenzioso che racconta l’adattamento alla geografia che si fa accoglienza e inclusione.

Anni fa, la città diede un segno forte con la realizzazione del centro culturale Stormen (Tempesta), dove si trova anche la grande biblioteca affacciata sul fronte del porto. Grazie a queste realizzazioni concrete e al coinvolgimento della la cittadinanza si respira quella “articolazione” che Bodø 2024 vuole portare nel futuro. Un futuro che non è verticale, progresso fine a se stesso, ma orizzontale; un futuro di tutti e per tutti nell’area artica del paese, la grande regione del Nord-Norge che si suddivide nelle due contee di Nordland e Troms og Finnmark: geografia i cui primi abitatori furono i Sami.

Il direttore del complesso programma per Bodø 2024 è Henrik Sand Dagfinrud, cantante e insegnante di canto dell’Accademia norvegese di musica che considera questa occasione come «il più grande progetto culturale e sociale del Nordland dei prossimi anni. Uno strumento unico per elaborare domande e risposte su chi siamo e sul perché viviamo qui; una forza trainante per un nuovo sviluppo delle aree urbane e rurali e un’idea di democrazia che contribuirà alla partecipazione. 

Dobbiamo avere il coraggio di muoverci fuori dagli schemi perché la natura della cultura è quella di contribuire allo scambio di opinioni, fare domande, essere critica. Vogliamo evitare che i giovani lascino il nord, attraendoli qui; vogliamo diventare migliori, più intelligenti, più verdi, collegarci a un contesto più ampio nel mondo. Per crescere, Bodø deve uscire dai propri confini, attrarre anche i visitatori ma soprattutto persone che nel nord vogliono vivere».

Secondo Henrik, la pandemia prima e adesso la situazione internazionale con la guerra di aggressione all’Ucraina sono ulteriori motivazioni per spiegare la necessità di progetti simili: «la città ha aderito alla rete internazionale ICORN (International Cities of Refuge Network, organizzazione indipendente di città e regioni che offre rifugio a scrittori, giornalisti e artisti a rischio di persecuzione, con l’obiettivo di promuovere la libertà di espressione): Bodø ospiterà sempre un artista perseguitato altrove. C’è poi la collaborazione con Nordland Teater, che fra le iniziative artistiche utilizza la ferrovia artica Nordlandsbanen (729km da  Bodø a Trondheim), come arena per la comunicazione culturale, oltre che infrastruttura». 

La storia della Norvegia cambiò mezzo secolo fa con la scoperta del petrolio nel Mare del Nord  rendendo il paese uno dei più ricchi al mondo. Questa ricchezza ha innescato, in anticipo rispetto al resto d’Europa, la transizione ecologica, perché ormai, qui, la popolazione ha capito che la diversità è il cambiamento, senza snaturare il proprio carattere, come ricorda Steinar Aas: «la nuova diversità ha reso la città multiculturale, arricchendola. La popolazione locale in modo sorprendente ha preso il cambiamento come stimolo per dimostrare più consapevolezza nei confronti della propria articolata cultura, della propria identità storica e ciò è avvenuto proprio grazie al confronto con altre lingue, tradizioni, religioni, espressioni culturali. Stiamo ri-articolando la nostra identità e la nostra cultura: la Norvegia sta diventando più matura. Sappiamo di essere in pochi a vivere qui e sappiamo che per affrontare le sfide del cambiamento climatico e della sostenibilità, avremo bisogno di nuovi abitanti, di una nuova società, di una nuova economia. Sappiamo che la strada giusta è essere accoglienti e inclusivi». L’artico, insomma, come giardino di un nuovo immaginario, di un futuro insieme. 


Davide Sapienza

1963, liceo scientifico sperimentale, scrittore, promotore della pratica geopoetica.

40 tappe in tutta Italia

a cura della Redazione

Percorrere l’Italia da nord a sud con un pulmino e qualche telescopio e fermarsi laddove di solito il cielo non arriva. È questo l’obiettivo che si è prefissata l’associazione non profit Il Cielo Itinerante, nata nel febbraio 2021 per iniziativa di Ersilia Vaudo, Chief Diversity Officer dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA), Alessia Mosca, già Europarlamentare e Membro del CdA di Crédit Agricole, Giovanna dell’Erba, Notaio, e Giulia Morando, Policy Analyst all’OCSE.

Un progetto ambizioso che vuole avvicinare le materie STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics) ai bambini e alle bambine che si trovano in contesti di fragilità educativa e che provengono da situazioni socio- economiche penalizzanti attraverso programmi educativi innovativi di divulgazione scientifica.

Sulle orme del successo di Forcella Brilla 2020, campo estivo STEM organizzato per i bambini del quartiere napoletano di Forcella, Il Cielo Itinerante nell’estate 2021 ha esteso l’iniziativa ad altre 11 tappe in tutta Italia coinvolgendo oltre 700 bambini con laboratori, eventi artistici e sessioni di osservazione del cielo con telescopi professionali. Quest’anno il tour crescerà ancora con oltre 40 tappe organizzate in tutte le regioni italiane.

Ai bambini è stata regalata l’opportunità di vivere un’esperienza positiva approcciandosi in modo suggestivo e innovativo alla scienza. Il termine “desiderio” deriva dal latino e risulta composto dalla preposizione “de”-, che possiede un’accezione negativa, e dall’espressione “sidus”, che significa “stella”. Esso viene inteso quindi come percezione della mancanza delle stelle e, di conseguenza, come sentimento di ricerca ap- passionata. “Abbiamo tutti un anelito che ci spinge a rag- giungere qualcosa più grande di noi ed è molto importante coltivare nei ragazzi questa capacità di desiderare e sapersi proiettare” (Ersilia Vaudo, Presidente dell’Associazione). “Italia Brilla - Costellazione 2022”, il progetto principale promosso dall’associazione quest’anno, è un tour di 50 tappe che durerà sei mesi e raggiungerà appunto quei luoghi dove vi è maggiore bisogno di investire nell’istruzione dei più piccoli.


L’associazione Il Cielo Itinerante è convinta che fornire a ciascuno gli strumenti necessari per apprendere e comprendere le discipline scientifiche costituisca un fattore essenziale per la costruzione di una società più inclusiva e democratica.



Nel periodo di pandemia, le grandi città hanno mostrato chiaramente le profonde disparità che caratterizzano il tessuto urbano, sia in termini di servizi sia per quanto riguarda le condizioni di vita delle persone che ci vivono. Allontanandosi dal centro delle metropoli, si riscontra una progressiva diminuzione di quelle strutture e quei servizi che costituiscono il motore fondamentale per lo sviluppo e la cresci- ta di aree più periferiche. Il Cielo Itinerante punta quindi a raggiungere piccoli comuni che presentano condizioni più svantaggiate rispetto al resto d’Italia, ma anche le periferie e i quartieri più disagiati che si trovano a pochi chilometri da città come Milano, Torino, Verona, Napoli, Brindisi, Roma e Genova. L’inclusione scolastica di cui Il Cielo Itinerante si fa promotore si realizza tramite strategie educative finalizzate allo sviluppo delle potenzialità di ciascuno grazie allo svolgimento di laboratori a tema spazio, in onore del- la collaborazione con l’astronauta Samantha Cristoforetti, e all’osservazione del cielo con telescopi professionali ed il supporto di astronomi professionisti dell’INAF (Istituto Nazionale di Astrofisica).

Grazie ai dati raccolti durante le tappe del tour, l’associazione svilupperà un’indagine in collaborazione con l’istituto di ricerca Ipsos per delineare le attitudini, le opinioni e l’immaginario degli adolescenti rispetto alla scienza nella loro vita e nel loro futuro. Combattere le disuguaglianze, superare i limiti socio-economici e i preconcetti di genere imposti dalla società sono i primi passi verso l’attuazione di un cambiamento reale che coinvolgerà il domani di tanti bambini e offrirà loro la possibilità di sognare nuovi orizzonti di futuro. Risulta essere spesso invalidante il concetto di “profezia che si autorealizza”: i bambini vengono così condizionati dal lavoro che svolgono i propri genitori e dalle convinzioni comuni che si ritrovano inconsapevolmente a seguire quella strada, senza avere la possibilità di interrogarsi su possibili alternative. L’associazione Il Cielo Itinerante è convinta che, nel secolo del progresso tecnologico e in un paese dove l’ascensore sociale è in discesa, fornire a ciascuno gli strumenti necessari per apprendere e comprendere le discipline scientifiche costituisca un fattore essenziale per la costruzione di una società più inclusiva e democratica. Puntare sulle materie scientifiche non significa dunque voler formare scienziati e fisici, ma dare ad ognuno la libertà di poter scegliere ed essere ciò che vuole.

How a diverse environment helped expand the perspective of someone with no diversity in their background 

by Editorali Staff

I grew up in the countryside, about 30 miles outside of London. I was from an upper-middle class family, went to private school and then to a university, where a large proportion (approximately 35-40%) of my fellow undergraduates also went to private school, and (in my college) almost half the undergraduates were Christians like me.

My exposure to diversity was learning about the other world religions as well as Christianity in my O-level studies aged 14-15 years. There were very few people who were not white at my schools or university, and if there were people with different sexual orientations to me as a heterosexual, I was not aware of it.

Two years after graduating, I moved to London. There are probably several reasons my eyes have been opened to diversityand its benefts as I have got older, but I am sure that working in and (for 8 years) living in London is one of main reasons.

London has always been diverse to varying degrees, but I think the 1990s (the period when I was living there) in particular saw an increase in diversity in many ways. Architecture, food, and culture all became more diverse.

Skyscrapers rose up, living alongside historic buildings; restaurants with international cuisine of every kind became available; the arts scene grew – whether it be art, cinemas or music venues. And diversity begets diversity. These options ledmore people to be attracted to what London had to offer.
With economic growth, more employment became available and with the open borders individuals from diverse backgrounds were attracted by the jobs but also the diversity of lifestyle that was available.

Even London’s three different elected mayors since 2000 have been diverse: Ken Livingstone, a life-long left-wing politician; Boris Johnson, a right-wing journalist-turned-politician who went to Eton
(and is now the Prime Minister); and Sadiq Khan, a Sunni Muslim whose parents migrated to London from Pakistan two years before he was born.

The only way that London has become less diverse in the last 50 years is probably with respect to industry and the economy, with a lot more ‘white collar’ service jobs (fnancial services, lawyers, professional services) and less industry and commerce (the London Docklands is now a fnancial services
hub). However, even this has led to more diversity.
Where I worked was more diverse than it had been before. From the mid-1990s, I worked for an American energy company, and the London offce had employees from about 20 different European countries and many more from across the world; then I worked for Standard Chartered, a global bank with a large footprint in Asia, Africa, and the Middle East – and correspondingly a number of people from those areas in their global headquarters. Diversity at this time came naturally; there was no specifc diversity initiative or target, but the companies I worked for sought people with diverse ideas or who had a diverse footprint – and having people from diverse backgrounds was the result.


Diversity is good for any number of reasons. But people sometimes need a catalyst to help them to understand that. I do not know if it was the only catalyst, but living and working in London was definitely an important catalyst for me in better understanding the benefts of diversity.


These individuals were attracted to the jobs but also to what London had to offer: a global city where everyone could find their place.
London is a global city, but how did that impact me? After my un-diverse background, I was living in the centre of this diverse world. I lived in Soho for a few years, an eclectic area in the centre of London. In this small area, people from all backgrounds fnd something that suits their tastes. I lived five blocks from Old Compton Street, the centre of London’s LGBT community. Everywhere I went, there were people who looked, sounded, or dressed differently from me. That made me more aware. My workplace was more diverse, and I came to realise that diversity of background led to diversity of
thought and, when this was acted upon, it yielded benefits.
When I started managing a team, we all did a behavioural questionnaire to identify our strengths and weaknesses and I saw the grid for the whole team. I started looking to recruit colleagues whose characteristics complemented the rest of the team, rather than mirroring it, to create a team with a
range of behaviours, with strengths across all areas, rather than recruiting people who thought and acted like me. Since I joined State Street, I have continued with that approach, at an organisation which is committed to Inclusion, Diversity, and Equity; this is demonstrated by its culture and specifc
actions – including a global strategy that specifcally aims to address racism and inequality.
Diversity is good for any number of reasons. But people sometimes need a catalyst to help them to understand that. I do not know if it was the only catalyst, but living and working in London was defnitely an important catalyst for me inbetter understanding the benefts of diversity.

Adam Tyrrell 

Senior Vice President CEO, State Street Trustees Ltd 

Registrazione Tribunale di Bergamo n° 04 del 09 Aprile 2018, sede legale via XXIV maggio 8, 24128 BG, P.IVA 03930140169. Impaginazione e stampa a cura di Sestante Editore Srl. Copyright: tutto il materiale sottoscritto dalla redazione e dai nostri collaboratori è disponibile sotto la licenza Creative Commons Attribuzione/Non commerciale/Condividi allo stesso modo 3.0/. Può essere riprodotto a patto di citare DIVERCITY magazine, di condividerlo con la stessa licenza e di non usarlo per fini commerciali.
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