Prima di incontrare lui, Lara era una persona normale con una vita piena. Amava ballare, passare dalla movimentata allegria della compagnia ai momenti più solitari, interiori e riflessivi, vivendo a pieno esperienze ed emozioni. Poi si è innamorata dell’uomo che sarebbe diventato suo marito ed è tutto cambiato.

Cosa ti ha attratto di lui?

Mi ha colpita la sfrontata determinazione dei suoi sentimenti, unita ad una delicatezza ed un animo nobile, quasi d’altri tempi. In poco tempo si è mostrato essere la persona perfetta per me, quella che mi permetteva di essere autentica e che rendeva la mia vita migliore. Tutto di lui sembrava essere cucito sulla mia vita e sulla mia pelle: non avevo alcun dubbio che fosse la persona migliore che potessi incontrare.

Quando ti sei accorta che qualcosa non andava?

C’è voluto tanto tempo per riuscire a rendermi conto di cosa stesse realmente succedendo e di chi avessi accanto. Si fa l’errore di pensare che la violenza riguardi “solo” calci e pugni, ma c’è una forma di violenza ancora più difficile da riconoscere, persino per chi la vive: quella psicologica, emotiva ed economica. Inizia lentamente con l’allontanamento dalle persone a te care, con lo svilimento e la privazione dei tuoi interessi e passioni, con continui giudizi, critiche, umiliazioni. Una svalutazione continua, fatta di ricatti, insulti, controllo, inganni, punizioni e minacce che ti confondono perché, mentre ti distruggono, proprio un attimo prima che tu reagisca, si trasformano in scuse, promesse. Così ritorni a quei momenti felici ed incantati nei quali lui è di nuovo quella persona meravigliosa che ti ha fatto innamorare. Con la sua abilità nel ribaltare sempre le situazioni, ti induce a sentirti responsabile di quei suoi comportamenti, a dubitare di te stessa, a sentirti sbagliata, incapace, insicura, visionaria, malata e persino folle. Una volta avviato, questo processo diventa un’inesorabile escalation di drammi sempre più psicotici e sempre più agiti: alle urla e agli insulti seguono scatti d’ira che trovano sfogo prima sugli oggetti, poi con il passare del tempo, arrivano a te. Ci vuole veramente tanto tempo, tanta disperazione e tanto coraggio per riuscire ad aprire gli occhi e vedere la realtà per quella che è: una psicosi che non lascia scampo. Ma era mio marito ed io avevo giurato che mi sarei presa cura di lui: ho cercato di aiutarlo con ogni mezzo, nonostante lui vivesse nella negazione più totale del problema, proiettandolo su di me. Ogni volta, si ricominciava tutto da capo.

Come hai fatto a non accorgertene prima?

Questa è la domanda più dolorosa che pongo a me stessa, perché implica la mia responsabilità nell’essermi messa in questa condizione. Genera senso di colpa e profonda vergogna. Credo che una persona sana mai potrebbe immaginare simili forme di inganno, manipolazione, prevaricazione e violenza.

Come hai reagito?

Solo quando ho realizzato che anche i miei figli erano in pericolo, sono scappata e non mi sono più voltata indietro. Mi sono rivolta ad un Centro Antiviolenza, che mi ha aiutata a maturare la consapevolezza che non si può salvare chi non vuole essere salvato e che non avevo altra scelta che la separazione. Mi sono rivolta al tribunale, sicura che avrebbe fatto luce sui fatti inconfutabili e ben evidenti, ma il magistrato, pur riconoscendo i problemi e la pericolosità del soggetto, ha archiviato il caso, cosa purtroppo non infrequente. Così ho fatto ricorso in corte d’appello per portare avanti il procedimento penale a carico del mio ex marito: è iniziato un calvario fatto di vessazioni, distorsioni dei fatti, manipolazioni, dissertazioni volutamente distruttive, perizie false e screditanti nei miei confronti al fine di favore la rivalutazione del ruolo paterno in nome della bigenitorialità. Sotto il ricatto dell’affidamento dei bambini, ho dovuto ritirare tutte le denunce e imbavagliarmi: non potevo rispondere, difendermi, dimostrare, nemmeno respirare. Sono stati gli anni più dolorosi della mia vita: ho dovuto difendere me e i miei figli da chi dovrebbe tutelarci e lottare con tutta me stessa per riuscire a smentire quelle false accuse. Il mio ex marito ne è uscito immacolato ed è stato reso ancora più potente: sa che può tutto e ne approfitta per tormentarmi, strumentalizzando i nostri figli. Mi sono sentita cementata viva da false accuse: sono rimasta imprigionata per tanto tempo, nel dolore, nell’incredulità, nella solitudine, nella vergogna, nel terrore, nel timore di non essere creduta.

Quando hai iniziato a capire che potevi uscirne?

L’incontro con Igor Suran, il Direttore Esecutivo di Parks, ha rappresentato per me l’inizio di un lento e lungo processo di trasformazione interiore: ho compreso che il disagio, l’isolamento e la sofferenza che io ho provato sono comuni a tante persone. Tutti noi abbiamo la necessità di essere ascoltati, riconosciuti e accolti… prima di tutto da noi stessi. È importante condividere, anche nei momenti più difficili: ho perso tante persone in questo cammino; ho sentito la solitudine e l’abbandono. Non tutti sanno capire, non tutti vogliono esserci ed è doloroso. Ma se non ti chiudi, se dai la possibilità agli altri di scoprire chi sei veramente, scoprirai di non essere sola: Da questo preciso istante ho iniziato a togliere il primo strato di cemento in cui mi avevano seppellita: è un percorso faticoso e delicato, un intenso lavoro interiore su sé stessi. Io ho scelto di smettere di soffrire per ciò che ho subito e mi sto impegnando con tutte le forze per non essere schiava del terrore per ciò che potrebbero ancora accadere. Non posso cambiare ciò che è stato: so di aver fatto tutto il necessario con gli strumenti e le conoscenze che avevo in quel momento. Seppur ferita, ho reagito e ora posso camminare a testa alta: questo mi rende fiera. Non posso cambiare la realtà che mi circonda, ma posso e voglio cambiare il mio modo di affrontarla, sapendo bene quali siano le mie risorse, i miei valori, la persona che sono e che voglio essere, nonostante tutto. Ho imparato a cercare e riconoscere le “benedizioni nascoste”: quei piccoli segni e doni che, anche nel momento peggiore, riescono a farti essere grato per qualcosa o per qualcuno. Sono grata, perché ho l’opportunità di una nuova vita da costruire.

Vedo. Riconosco. Valorizzo: sono le tre parole-chiave alla base delle politiche in ambito Diversity & Inclusion del Gruppo Hera, una delle maggiori multiutility italiane operante nei servizi ambientali, idrici ed energetici, che ha appena ricevuto, per il quattordicesimo anno consecutivo, la certificazione Top Employer per i risultati raggiunti nell’ambito delle politiche lavorative.

Tre parole che tracciano i principi alla base della cultura aziendale e mettono in luce il tema profondo dell’identità, quella stessa identità che rende uniche le persone e che non può essere rinchiusa in strette maglie o categorie.

Ma cosa significano?

“Vedo la realtà e gli altri, al di là degli stereotipi che mi rendono miope”. “Riconosco le specificità e mi metto nei panni di chi ha caratteristiche e stile di pensiero diversi dal mio”. “Valorizzo i tratti distintivi di ciascuno ed elimino le barriere che possono essere fonte di esclusione”.

Per il Gruppo Hera vuol dire mettersi in ascolto e trasformare le diversità in un valore condiviso, comprendere il punto di vista dell’altro, favorendone l’inclusione, anche a partire dal linguaggio che scegliamo di usare e che dà forma al pensiero e a ciò che ci circonda. Perché le parole hanno un’incredibile forza: possono confortare o discriminare e in questa direzione, la multiutility - fra le tante iniziative interne all’azienda - ha proposto un’attenta riflessione sull’importanza della comunicazione inclusiva, nella quale ognuno possa sentirsi rappresentato e valorizzato. È quanto accaduto, per esempio, con il recente aggiornamento del Codice Etico aziendale nel quale, a 16 anni dalla sua prima introduzione, la parola “persona con la sua originaria e assoluta dignità” ha preso il posto del termine dipendente, per indicare lavoratori e lavoratrici nella loro interezza, in una dimensione che sappia coglierne l’identità come un valore al quale fare riferimento all’interno dei rapporti e della vita aziendale.

Si parte da un principio per reinterpretare tutti i processi del Gruppo, dal modello di leadership alla misurazione delle performance del management, fino all’individuazione dei talenti e alla selezione. Viene meno il concetto di ideale unico a cui tendere, a favore della valorizzazione delle eccellenze individuali e del contributo distintivo che ogni persona può apportare al risultato collettivo.

Quello sul valore dell’identità è un impegno che per la multiutility si traduce in modo trasversale nel portare avanti politiche e strategie inclusive che rendono protagonista la popolazione aziendale. Hextra ne è un esempio: il sistema integrato di welfare aziendale, introdotto nel 2016, è frutto dell’ascolto dei dipendenti, per meglio comprendere i bisogni e incrementare il loro benessere fisico, economico, familiare e psicologico. Su quest’ultimo tema, proprio a cavallo della pandemia, è stata intensificata la capacità di dialogo e supporto a lavoratori e lavoratrici con iniziative e attività dedicate: dai webinar agli incontri con psicologi e psicoterapeuti, passando per percorsi di supporto alla genitorialità e per la promozione di un equilibrio psico-fisico ed emozionale. Perché garantire dignità e identità sul posto di lavoro genera valore, ancor di più se parliamo di persone fragili, per le quali il Gruppo Hera ha messo a disposizione “Return to Work”: un percorso della durata di dodici settimane, diviso in più fasi e in collaborazione con psicologici, nutrizionisti, medici ed esperti di yoga e mindfulness, con l’obiettivo di promuovere stili di vita sani e coltivare l’equilibrio psico-fisico ed emozionale.

Il percorso intrapreso dal Gruppo Hera verso la direzione dell’inclusività e del benessere personale raccoglie costantemente riscontri positivi e i progetti vanno nella direzione di un cambiamento culturale sempre più distante da stereotipi e pregiudizi.

Ed è così, passo dopo passo, azione dopo azione, che la multiutility, attenta nel praticare politiche che riguardano l’uguaglianza di genere e la valorizzazione delle diversità nel luogo di lavoro, è ormai da tempo ai vertici del “Diversity & Inclusion Index” di Refinitiv (che analizza le performance delle società sulla base di molteplici fattori ESG e rappresenta uno dei riferimenti principali per gli investitori che guardano con favore alle realtà che adottano una politica orientata alla D&I) e, per il quarto anno consecutivo, anche nel Bloomberg Gender-Equality Index 2023, che valuta le prestazioni delle aziende impegnate nel sostenere l’uguaglianza di genere, attraverso lo sviluppo di politiche attive dedicate e la trasparenza nella divulgazione delle informazioni.

In Hera l’ascolto delle persone, delle esigenze e delle diversità, continua. La strada è ancora lunga e complessa, ma è necessario percorrerla per diventare portatori di un vero cambiamento sociale.

La casa è l’ambiente in cui possiamo essere noi stessi, un prolungamento della nostra identità. Questo è ciò che emerge dal Report “Life at Home” che IKEA realizza dal 2014 e che racconta la continua evoluzione dell’idea di casa attraverso le testimonianze, le abitudini e i punti di vista di persone da tutto il mondo. IKEA riserva per le proprie persone, i co-worker, la stessa cura dell’unicità attraverso la visione “IKEA Talent Approach”, secondo cui ciascuno è un talento. Ne parliamo con Sara Carollo, Co-worker Experience Manager di IKEA Italia.

Cosa significa “Identità” per IKEA?

IKEA nasce nel sud della Svezia dalla visione, a mio avviso moderna e geniale, del fondatore Ingvar Kamprad. Nell’identità di IKEA confluiscono la cultura della campagna svedese e i valori legati alla semplicità e alla natura. Tale identità si è sviluppata nel tempo. IKEA oggi continua ad avere l’ambizione di creare una vita quotidiana migliore per tutti. Questa mission si concretizza da 80 anni in competenza e passione nel contribuire a creare il posto più importante al mondo, il luogo in cui ci sentiamo protetti, accolti, in cui possiamo esprimere la nostra diversità e unicità: la casa. Tali principi sono nel DNA dell’azienda fin dal principio.

Come IKEA valorizza l’identità delle persone, clienti e dipendenti?

Attraverso l’unicità di ciascuno. È questo il pilastro della nostra People Strategy con cui invitiamo i nostri e le nostre dipendenti a portare se stessi al lavoro e quindi vivere liberamente il proprio orientamento sessuale, l’identità di genere, la propria religione, cultura. Coltiviamo un ambiente di lavoro in cui la persona è riconosciuta come unica e facciamo in modo che l’unicità trovi uno spazio di espressione. Lo stesso vale per il cliente che deve sentirsi accolto all’interno dei nostri ambienti, dallo store fisico al sito internet. Deve sentirsi a casa.

L’identità di una grande realtà come IKEA è la somma di tutte le unicità che la compongono. Come trovano modo di esprimersi i talenti di ciascuno?

In IKEA crediamo che ciascuno è un talento – non a caso “Everybody is a talent” è uno dei nostri motti chiave - secondo una visione che chiamiamo “IKEA Talent Approach”. Siamo convinti che il talento si possa esprimere in molti modi e, per raggiungere i nostri obiettivi, di aver bisogno di abilità e personalità diverse fra loro. Per questo motivo il Gruppo IKEA ha creato la “Talent Focus Week”, un evento globale dedicato alla celebrazione di tutti i 163.000 talenti che lavorano in IKEA. Nel corso di questa settimana vengono organizzati workshop interattivi, conferenze e tavole rotonde tra colleghi e colleghe di diverse funzioni. I/le partecipanti hanno modo di conoscere sé stessi, i colleghi e le colleghe e tutto ciò che IKEA, come azienda, ha da offrire. Come la possibilità di candidarsi per posizioni lavorative a livello global, di intraprendere un percorso di carriera verticale e di avere uno spazio di confronto continuo.

Sara Carollo
Co-worker Experience Manager IKEA Italia

Come la sua identità professionale e personale si è evoluta attraverso la sua crescita all’interno di IKEA Italia?

Quest’anno festeggio vent’anni di carriera in IKEA. La mia identità è strettamente legata a quella dell’azienda per cui lavoro da così tanto tempo. Non potrebbe essere diversamente. Quando sono stata assunta mi identificavo nei valori dell’organizzazione, ma non avevo la stessa sensibilità che possiedo oggi verso le tematiche di diversità, inclusione, sostenibilità. Sono cresciuta negli anni grazie alle esperienze professionali e personali che mi hanno consentito di incontrare culture e visioni diverse. Sono diventata ambasciatrice di nuovi valori che perseguo nella vita quotidiana, nei rapporti con i familiari, amici, colleghi, nelle scelte che faccio.

Da tempo IKEA ha intrapreso un importante lavoro relativo alla gender equality. Quali sono i risultati di questo impegno?

Il percorso di IKEA nel raggiungimento della parità di genere è iniziato nel momento della nascita dell’azienda. E questo è uno degli obiettivi elencati da Ingvar Kamprad ne “Il Testamento di un Commerciante di Mobili” del 1976. Oggi raccogliamo i risultati di tutto quello che è stato fatto nel tempo: in IKEA Italia il 47% dei leader in posizione manageriali sono donne; il 57% della popolazione di IKEA Italia è formata da donne, il gender pay gap è prossimo allo zero. Tutto questo si ottiene valorizzando la gender equality in fase di recruitment, di development, nei processi di sviluppo delle competenze e di compensation. Inoltre, la cultura svolge un ruolo fondamentale: IKEA Italia è tra i fondatori di Valore D, da cui abbiamo ereditato “Me4Women”, un programma di mentorship della leadership al femminile che è molto apprezzato dalle nostre co-worker.

Un ultimo progetto di cui siete particolarmente orgogliosi?

Siamo molto orgogliosi del percorso che stiamo facendo, quest’anno, sul tema dei pregiudizi inconsci. In tutti i negozi e tutte le unità di IKEA Italia, leader e manager stanno avendo la possibilità di partecipare ad un workshop di 4 ore chiamato DECIDE che affronta il tema dei pregiudizi inconsci con la prospettiva delle neuroscienze. Un grande investimento informativo che coinvolgerà oltre 500 leader e manager e siamo sicuri avrà un impatto molto positivo sul nostro processo decisionali.

Spesso si crede che la pausa sia un momento estraneo alla musica. La verità è un’altra: la pausa è musica, un respiro essenziale per l’esecuzione di un brano. “Proprio come negli spartiti, anche nella vita le pause sono importantissime – spiega Ilaria Caccamo, head of sales di Indeed Italia –. Si tratta di momenti dedicati alla crescita e allo sviluppo personale che i recruiter devono saper riconoscere, non stigmatizzare”. Questa visione, che Indeed porta avanti quale sito numero uno al mondo per chi cerca e offre lavoro, è un sintomo positivo del cambiamento in corso nel mondo del lavoro, che coinvolge dipendenti e aziende.

Ilaria, come sono cambiate le identità di dipendenti e aziende? C’è consapevolezza di tale cambiamento?

Il cambiamento parte dalla consapevolezza dei dipendenti. In Indeed abbiamo coniato l’espressione “great realization”, esemplificativa della realtà attuale, che ricalca “great resignation” (fenomeno caratterizzato dal progressivo aumento del numero di dimissioni dei lavoratori dal proprio impiego, ndr). Dopo la pandemia le persone hanno capito che non possono più rinunciare all’equilibrio vita-lavoro e al sentirsi in linea con i valori dell’azienda per cui lavorano. Per cui hanno iniziato a ricercare nelle aziende caratteristiche nuove, focalizzandosi non più soltanto sulla mansione, ma anche sui benefici offerti e sulla cultura aziendale. Anche la consapevolezza delle aziende cresce ogni giorno. È diventato molto più difficile assumere: c’è una guerra per accaparrarsi i migliori talenti. Quindi le organizzazioni hanno bisogno di essere attraenti per i propri dipendenti – dando maggiore importanza al benessere delle persone - e di rinnovare la propria identità, al fine di rafforzare la talent attraction e di rendere i dipendenti i primi veri testimonial dei valori aziendali. I vecchi sistemi di ricerca del personale non sono più idonei a raggiungere gli obiettivi di hiring in un clima molto più competitivo e complesso.

L’inclusione parte dal reclutamento dei talenti. Quali pratiche di hiring inclusivo consigliate ai vostri clienti? Perché è importante metterle in atto?

Oltre a condividere l’attenzione ai temi D&I, le aziende devono mettere in atto azioni concrete. Per ottenere un processo di recruitment più inclusivo, è importante ridurre gli elementi soggettivi che possono influenzare gli intervistatori – che, come tutti gli esseri umani, sono soggetti a stereotipi e a pregiudizi a volte inconsci – sostituendoli con elementi oggettivi, come test attitudinali, skill assessment, domande che simulano lo scenario di lavoro e permettono di valutare le reali competenze di una persona. In questo modo si riesce a valutare il potenziale dell’individuo e non solo il curriculum. Inoltre, molti dei criteri su cui i recruiter basavano il proprio lavoro sono ormai superati. Ad esempio, nei passati decenni erano valutati negativamente i periodi di congedo dal lavoro.

Ma ciò che veniva percepito come una mancanza, oggi deve essere riconosciuto in maniera differente. Molto spesso, si tratta del momento della maternità o di una pausa dalla carriera per prendersi cura di una persona fragile, ruolo che notoriamente ricade soprattutto in capo alle donne. Tali momenti in realtà sono frangenti di vita dedicati alla crescita e allo sviluppo personale e, pertanto, vanno riconosciuti.

Come Indeed valorizza le identità delle proprie persone? Quali sono le iniziative che avete progettato in ambito D&I?

Molte sono le iniziative, alcune dedicate alla cultura interna, altre al miglioramento del mercato del lavoro. In Indeed abbiamo istituito dei gruppi di lavoro che affrontano temi per noi fondamentali, come la genitorialità, la leadership femminile, l’accessibilità. L’obiettivo è ridurre del 50% il tempo necessario per assumere qualcuno entro il 2030, aiutando trenta milioni di persone ad entrare nel mondo del lavoro. Tali mete sono la nostra stella polare: tutto ciò che facciamo è svolto in funzione di quanto appena detto e progettato con una mentalità volta al cambiamento della situazione attuale. Una delle questioni per cui ci stiamo battendo, soprattutto in Italia, è il gender pay gap. Suggeriamo alle aziende di pubblicare i salari negli annunci, per aiutare le persone a superare il problema delle retribuzioni di partenza. La trasparenza salariale è il primo passo per abbattere la disparità. Non solo, le aziende che inseriscono il salario nell’offerta ricevono il 30% in più di candidature. È un beneficio per tutti.

Alla luce di quanto detto, quali sono gli elementi che oggi rendono efficacie l’employer branding?

Innanzitutto, è necessario garantire una cultura aziendale sana. La cura per i propri dipendenti, la possibilità di offrire benefit e percorsi di carriera sono il primo passo. Quando l’azienda riesce ad instaurare una cultura valoriale forte, allora ha qualcosa di concreto da comunicare all’esterno. Qui entra in gioco l’employer branding (la capacità di un’impresa di diventare un’azienda ricercata come valido datore di lavoro, un vero e proprio brand, ndr). Non esiste brand senza comunicazione. Oggi hanno sempre più peso le testimonianze dei dipendenti, che lasciano review su siti e piattaforme, come Glassdoor, motore di ricerca del lavoro che fa parte del gruppo Indeed.

Quanto e come i valori di unicità, diversità e inclusione hanno influito sulla sua lunga carriera?

L’esperienza lavorativa che ha influito maggiormente è stata quella nel sud-est asiatico. Ho lavorato a Singapore, Tokyo e Sidney, gestendo dipendenti con attitudini lavorative e culture diverse provenienti da Singapore, India, Giappone, Malesia, Cina, Korea, nazioni in cui la comunicazione e i modi di parlare di business sono diversi. In quell’occasione sono uscita dalla mia zona di comfort, ho messo in discussione tutto ciò che sapevo fare. Ho capito che dovevo pormi in maniera nuova. Sono diventata molto più predisposta all’ascolto, a non fare sempre domande dirette – tipiche del modello di business occidentale – a lasciare tempo per prepararsi ed essere confidenti. Ho imparato a mettere in evidenza le unicità delle persone e delle loro culture, riscontrando una verità: la diversità arricchisce e porta innovazione.

Non riconoscersi in una realtà è un problema. Un ambiente che incoraggia l’inclusione e la diversità, che ci fa dire: “appartengo a quel posto, lì vedo opportunità per me, mi riconosco in quelle persone e in quei valori”, è la prima condizione per desiderare di far parte di un gruppo di persone e di un’Organizzazione.

Qual è il contributo che una realtà come Janssen Italia, l’azienda farmaceutica del Gruppo Johnson & Johnson, può dare a questa valorizzazione dell’identità e quindi, in una prospettiva più ampia, avere un impatto positivo sulla società e comunità di cui fa parte?

Diversità, Equità e Inclusione (DE&I) rappresentano i valori con cui tutti i collaboratori vivono e lavorano quotidianamente, con i quali costruire una cultura che accoglie e valorizza l’unicità di punti di vista, background, formazione ed esperienze. Solo in un contesto ricco di persone, storie e approcci differenti possono nascere l’innovazione e la creatività. In Janssen Italia crediamo sia fondamentale partire dalla relazione con le persone e da un dialogo aperto con tutti i componenti dell’ecosistema salute, a partire dai propri collaboratori, per attivare un ascolto capace di migliorare costantemente la nostra azienda e il nostro modo di operare.

Il valore delle persone è in cima alla scala delle priorità a tutti i livelli e viene perseguito anche tramite le iniziative delle ERG (Employee Resource Group), gruppi volontari di colleghi che condividono interessi, stili di vita ed esperienze. Uno spazio aperto e sicuro di confronto e sviluppo personale e professionale.

Promuoviamo politiche di diversity, parità di genere e leadership al femminile, dedicando grande attenzione al benessere e alla salute dei collaboratori attraverso una filosofia di supporto alla persona che va da iniziative mirate al sostegno in particolari momenti della loro vita - come, ad esempio, la gravidanza - a programmi educativi sui corretti stili di vita e la prevenzione.

L’approccio al welfare dell’azienda è finalizzato ad abbracciare, supportare e valorizzare la diversità, creando un ambiente capace di assicurare a tutti il rispetto e la possibilità di realizzare il proprio potenziale di crescita professionale.

Valorizzare le differenti identità significa essere incubatori di innovazione. Raccogliamo e includiamo la diversità di pensiero, di prospettiva, di età, di provenienza e da questa diversità cerchiamo di far emergere nuove idee, nuovi approcci, nuove prospettive. Per cui ogni persona, con le sue caratteristiche e con la sua unicità, porta valore aggiunto all’azienda.

Le identità sono i talenti che devono essere coltivati e fatti crescere nella comunità in cui operiamo. Per questo il nostro impegno oltre ai nostri collaboratori si rivolge ai giovani studenti italiani: crediamo che debbano essere i primi a credere nella propria identità, nella costruzione del proprio talento, nella crescita personale e lavorativa senza ostacoli e pregiudizi.

Questo impegno ha preso la forma di un progetto, Fattore J, che rappresenta un percorso formativo promosso insieme a Fondazione Mondo Digitale per raggiungere le nuove generazioni in collaborazione con gli istituti scolastici italiani e con una fitta rete di associazioni pazienti e società scientifiche: l’obiettivo principale è quello di diffondere una crescente consapevolezza sul valore dell’investimento in salute e sui grandi progressi della ricerca e avvicinare a questi temi i futuri talenti della scienza di domani. Attraverso laboratori, sessioni interattive, momenti di confronto con la partecipazione delle associazioni pazienti, siamo portavoce di messaggi sull’importanza della scienza e dei progressi scientifici per un futuro più sano e migliore.

Crediamo che portando agli studenti questa nuova consapevolezza possiamo abbattere pregiudizi di genere verso il mondo della scienza, stimolare in loro curiosità e interesse verso la ricerca ed empatia verso chi è diverso da noi perché malato. Basti pensare che abbiamo coinvolto nel progetto ad oggi oltre 200.000 giovani, il 60% dei quali sono studentesse.

Una responsabilità sociale che si riassume nella nostra missione, un obiettivo ambizioso verso un futuro in cui le malattie possano essere un ricordo del passato.

La scienza compirà tra 10 anni più progressi di quanti ne ha fatti negli ultimi 100: per questo come azienda farmaceutica valorizziamo le nostre persone con supporti e programmi di Welfare al passo con i tempi e le esigenze dello scenario che viviamo, investiamo nel Paese con la nostra ricerca e innovazione collaborando con le istituzioni e partner di eccellenza, guardiamo alle nuove generazioni con progetti e messaggi di fiducia e agiamo con rispetto nella comunità in cui operiamo, osservando il Nostro Credo, nato oltre 75 anni fa e incentrato sul rispetto dell’individuo, sia esso dipendente dell’azienda, paziente, medico, cliente, fornitore o azionista.

Per sentire, capire la musica, l’ho dovuta sempre prima leggere e poi ascoltare. È una contraddizione enorme, per me che adoro la musica. Per riprendermi tutto ciò che la sordità mi toglie, devo prima conoscere i testi, indagare i commenti e i significati. Solo così, una canzone diventa parte di me. “Come together” dei Beatles, ad esempio, offre una sequenza di batteria tra le più complesse da realizzare. Un’emozione unica, intima, tamburellare con le dita mentre la canzone va…

Mi chiamo Daniele Regolo, ho 50 anni e sono Brand Ambassador Diversity & Inclusion presso Seltis Hub. Quando avevo circa due anni i miei genitori hanno scoperto che ero un bambino sordo, probabilmente sin dalla nascita. Ricordo ancora tutti gironzolare intorno a me. Otorinolaringoiatri, logopedisti, insegnanti di sostegno e i miei genitori, ovviamente.

È inutile dire che nascere negli anni ‘70 con una sordità pre-linguale ha avuto un impatto fortissimo sulla mia esistenza (e lo ha ancora adesso, dopo tanto tempo). Allora, l’essere sordi era prima di tutto e soprattutto un problema. Una montagna gigantesca da scalare e non una condizione da accettare e da rielaborare. La visione generale della sordità era “medico-centrica” al punto che anche alcuni strumenti di inclusione, come l’insegnante di sostegno a scuola, poteva diventare una situazione boomerang che sottolineava la distanza tra me e i miei compagni invece che annullarla.

Ma come in ogni storia, anche nella mia c’è stato un punto di svolta. A venticinque anni ho conosciuto Renato Pigliacampo, psicologo non udente e autore di libri scientifici. Mi fece leggere “Vedere Voci” di Oliver Sacks, libro che mi ha cambiato nel profondo. Grazie a quell’incontro iniziai a fare pace con l’essere sordo: la mia disabilità non era più un ostacolo, ma una condizione che avrebbe richiesto un continuo percorso di ridefinizione del me. Da questa consapevolezza è nata la decisione di occuparmi ogni giorno di D&I, nel lavoro e nella vita.

Da quel momento ho continuato a chiedermi: chi sono io? La risposta si è moltiplicata, come se ci fossero tanti me stratificati. Sono un lavoratore, una persona con disabilità, un padre, un velista (per me andare in mare è un atto di fede, non lo sport domenicale).

Sono anche la mia voce. Arrivato a sentire pochissimo, nel 2018 mi sono sottoposto all’intervento di impianto cocleare: un cambiamento radicale. Sono passato dal non udire quasi più nulla a sentire ogni sfumatura di suono. Ho scoperto sonorità che non conoscevo soprattutto quelle medio acute. Non sapevo che in “Come together” la chitarra alla fine fosse accompagnata da una irresistibile sonorità di piatti.

Mi ci sono voluti diversi mesi per abituarmi al nuovo me. Ora non mangio più le parole quando parlo, posso conversare con alcune accortezze anche al telefono e ascoltare la musica in un modo diverso, più completo. Le parole dei Doors, dei Beatles, dei Pink Floyd fanno parte di me - già, perché la disabilità mi ha fatto sperimentare molteplici identità. Chi l’avrebbe mai detto!

In questo percorso rivedo con indulgenza alcune esternazioni che mi ferivano: “Ma tu non sei un vero sordo! Parli…”. Mi sono reso conto che la consapevolezza sui bisogni delle persone sorde è ancora molto scarsa da parte della società. Ma conoscere è importante per includere. Ad esempio, molti non sanno che la parola sordomuto è da abolire dal vocabolario. Si tratta infatti di un termine obsoleto, che, in base all’articolo 1 della Legge 20 Febbraio 2006, n. 95 è stato cancellato e sostituito dal termine Sordo in tutte le dispositive vigenti (L.95/2006).

Non solo, tra i sordi esistono due comunità con punti di vista a volte differenti: quelli a favore della lingua dei segni e quelli a favore della lingua orale. Una diatriba antica come il mondo. Il “Congresso Internazionale per il miglioramento della sorte dei Sordomuti”, tenutosi a Milano nel 1880 fu una data storica che segnò il destino di tutti i sordi del futuro perché venne approvata una risoluzione che esaltava la lingua orale e bandiva la lingua dei segni. Di fatto la lingua segnica continuò a “tramandarsi” di nascosto, fino ad oggi. Martha’s Vineyard, un’ isola del Massachusetts, negli USA, è famosa perché nel corso dell’Ottocento circa lo 0,7% della popolazione era sorda, una percentuale di circa venti volte superiore la media nazionale dell’ epoca. La condizione era così diffusa che moltissimi abitanti conoscevano la lingua dei segni e la usavano regolarmente anche fra persone udenti.

La contrapposizione tra chi è a favore e chi contro la lingua dei segni è ancora in atto nella comunità dei sordi. Per questo è importante informarsi e conoscere ogni sfaccettatura di questa dimensione, perché nessuna persona sorda è uguale all’altra e ciascuno richiede degli ausili o “accomodamenti ragionevoli” precisi. È anche per questo che in Seltis Hub, ogni volta che si organizza un evento - che sia aziendale o aperto al pubblico, online o in presenza - utilizziamo un approccio intelligente all’organizzazione. Si individuano le esigenze dei partecipanti prevedendo la sottotitolazione di ogni intervento e l’attività di interpreti LIS. Siamo in grado di avere un rapporto diretto con le persone, chiediamo loro di indicarci la modalità che preferiscono. Perché inclusione è anche intelligenza, personalizzazione, strategia, umanità ed equilibrio.

Oggigiorno, i temi di DE&I fanno sempre più parte della cultura delle grandi aziende perché è fondamentale creare le condizioni necessarie affinché, in un ambiente di lavoro inclusivo, ciascun* possa esprimere liberamente il proprio valore. Per questo motivo, in Sisal è nato l’Inclusion Team formato da trentatrè collegh*, il cui operato è espressione del mindset inclusivo in azienda. Il ruolo del team è duplice: da un lato, si fa portavoce di domande, dubbi ed esigenze delle persone in azienda, dall’altro si impegna a sensibilizzare colleghi e colleghe sulle tematiche DEI.

Nel corso dei vari incontri dell’Inclusion Team, si è spesso affrontato il tema dell’identità in tutte le sue forme: di genere, religiosa, professionale, culturale... Forse viviamo in una società ossessionata dall’identità, sia in senso positivo che negativo, e da una sorta di dovere nel difendere a tutti i costi le diversità. In una società fortemente multiculturale come la nostra, in cui i confini sono diventati sempre più labili e le culture sempre più legate le une alle altre, è davvero ancora possibile parlare di identità/diversità?

Con alcuni membri dell’Inclusion Team di Sisal, provenienti da altri paesi, è stato affrontato il tema del Third Culture Kid, per capire - insieme a chi vive quotidianamente una sfida interiore nel comprendere la propria multiculturalità - cosa significhi la parola identità.

Paul Chidi Duru
Store Specialist di Sisal

Sono di origine camerunense e sono arrivato in Italia nell’ottobre del 1998. Al mio arrivo, come accade a tutti coloro che emigrano (italiani compresi), è stato difficile farmi accettare. Ricordo episodi di estrema diffidenza nei miei confronti dovuti al colore della mia pelle. Quando ero alla ricerca del primo lavoro mi son sentito dire: “Non diamo lavoro ai ragazzi di colore”, anche se avevo tutti i documenti in regola.

Poi ho avuto la fortuna di incontrare l’amore, mi sono sposato e ho avuto tre figli. Questo cambiamento ha permesso di vivere la mia diversità con meno problemi, ora mi sento accettato e meno discriminato. Le mie radici sono e resteranno sempre camerunensi, ma mi sento anche italiano: non prevale nessuna delle due identità. C’è un bellissimo detto africano che condivido con voi: “Una noce di cocco in un oceano arriva sempre in una spiaggia dove può mettere radici”.

A volte incontro ancora atteggiamenti di diffidenza e di razzismo, però penso che tra gli italiani ci siano quelli che hanno da sempre accettato “il diverso”, quelli che hanno imparato ad accettarlo e quelli che ancora sono diffidenti.

Penso e spero che le cose cambieranno con le nuove generazioni nate in Italia: questo è il mio sogno e il mio augurio per tutti i giovani perché loro sono il nostro futuro.

L’inclusion team all’interno della nostra azienda è come una palestra dove impariamo ad accettare le diversità per utilizzarle in maniera costruttiva. La diversità fa solo bene alle aziende.

Aeshvarya Jain
Innovation & Platform Expert di Sisal

Per me l’identità italiana è abbastanza nuova, dato che vivo qui da soli cinque anni. Quando c’è un modello di vita che viene dal mio passato, la mia identità indiana prevale su quella italiana.

Attualmente mi trovo in una fase in cui sto cercando di equilibrare le mie due anime, perché credo che sia importante mescolarle e crearne una unica. Quando sono arrivata in Italia ho riscontrato alcune difficoltà: il primo scalino da superare è stato il linguaggio; la seconda sfida è stata insegnare a pronunciare correttamente il mio nome; per non parlare delle differenze nell’alimentazione! Non sono mancati piccoli atti di discriminazione nei miei confronti, seppur non gravi.

Oggi ho capito che è importante cercare di integrarsi: imparare la lingua, quindi, è stato fondamentale per comunicare le mie differenze alle persone intorno a me.

Mathieu Sarau, meglio conosciuto come Vincent Moon, disse:

Sappiamo che l’homo sapiens è nato in Africa, quindi siamo tutti africani. Se andiamo più a fondo scopriremo che siamo tutti polvere di stelle. Quanto è bello questo pensiero? Al posto di essere tante razze o popoli diversi, siamo un solo popolo, quello della natura.

Harpreet Singh
Innovation & Platform Expert di Sisal

Essendo arrivato in Italia a tre anni ho imparato presto a trovare un equilibrio tra le due identità, quella italiana e quella indiana. Ci sono però momenti in cui una prevale sull’altra, questo accade ad esempio quando torno in India, dove mi trovo spaesato davanti a situazioni che non riesco a comprendere al volo, perchè le guardo da una “prospettiva italiana”.

Nella vita quotidiana, invece, le due identità convivono anche se, per chi mi conosce bene, ormai di Indiano mi resta solo l’aspetto: infatti ho deciso di indossare il turbante per non perdere le mie origini. Quando mi sono trasferito in Italia, i primi giorni di scuola sono stati quelli di maggior disagio, ma essere bambini permette di essere più estroversi e facilita la creazione di amicizie e l’inclusione.

Ricordo questo: quando giocavamo a calcio dovevo ogni volta scegliere in che squadra stare: Italia contro Resto del Mondo! Io non sapevo mai in che squadra giocare… ma alla fine sceglievo sempre l’Italia.

Via Fratelli Gracchi, 36, Cinisello Balsamo, Milano. Sono le 6.30 del mattino e Am’Hamd Hafi è già di fronte all’ingresso di Sodexo. Ci tiene tantissimo ad essere puntuale al lavoro, per questo arriva sempre con qualche minuto di anticipo. Difatti è lui che tutti i giorni dà il via alla giornata delle 250 persone che lì lavorano. Lo fa rigorosamente in divisa e sempre con il sorriso, perché a lui piace lavorare, e farlo al meglio. Ora Hafi – si fa chiamare per cognome perché è più facile da ricordare – lavora qui da 5 anni a tempo indeterminato. La sua storia inizia molto tempo fa, nel 1987, quando lascia il Marocco. “Ora l’Italia è la mia casa, io sono italiano, anche i miei tre figli – un maschio e due gemelle – lo sono”. In quarant’anni lontano dall’Africa ha fatto i più disparati mestieri. Autista, giardiniere, operaio, fino a quando, a sessant’anni e senza lavoro, si è rivolto ad A&I Cooperativa Sociale Onlus, con la quale Sodexo collabora da tanto tempo. Così è nato l’incontro. Doveva essere un tirocinio temporaneo, ma l’impegno, la serietà e la tenacia hanno cambiato il corso degli eventi: ora è parte integrante dell’azienda. Quando lo racconta si commuove ancora: “Ero talmente emozionato da essere rimasto pietrificato alla notizia. Sono felice di questa opportunità”.

Ogni giorno Hafi porta un pezzetto della sua identità in Sodexo, azienda che conta 422.000 dipendenti, presente in 53 Paesi. Solo nella sede in provincia di Milano operano 86 persone di diversa nazionalità.

Nell’edificio dall’altra parte della strada, dove si trova la mensa interaziendale di Sodexo, incontro un’altra storia di multiculturalità. Sono le 7 del mattino e Aurora Greca sta iniziando a scaldare i fornelli. Lei è un mix unico da cui è sfociato un amore infinito per la cucina. Papà greco, mamma albanese. A 14 anni arriva in Italia. Ha iniziato a lavorare vent’anni fa in Sodexo come addetta mensa, oggi è cuoca di terzo livello. Alla festa di Natale le è stato conferito un riconoscimento speciale. “Questo lavoro per me è dignità, sono nata per fare questo – dice con soddisfazione –. E sono orgogliosa, da donna, del mio percorso in un ambiente che è prettamente maschile”. E aggiunge: “Io mi sento italiana, anche grazie a questo lavoro ho potuto raggiungere la soddisfazione più grande: costruire delle relazioni importanti in una terra che ora percepisco come mia”.

Poco dopo il momento della pausa caffè, nella palazzina B, conosco Amanda Dal Cortivo, architetta brasiliana dell’area Kitchen Design, e Carine Toutain, dell’area BIGS, francese ma in Italia da più di ventisei anni.

Amanda è innamorata di Milano. “Dopo essermi laureata in Brasile, sono venuta in questa città perché è la capitale del design – spiega –. Mi ha colpito sin da subito il fatto che qui, diversamente dal Brasile, non esisteva la declinazione al femminile della parola “architetto” e si tratta di un settore dove la presenza maschile è maggioritaria, soprattutto nei cantieri”. “In questo ufficio invece siamo tre architette – dice con il sorriso –. Qui mi sento libera di esprimere chi sono, rivendico con forza le mie origini. Sono contenta quando i/le collegh* riconoscono la mia solarità”.

Carine lavora nello stesso ufficio di Amanda, ma per un’area di business diversa. “Ho lasciato la Francia quando avevo 18 anni, non è stato facile all’inizio tessere delle relazioni all’università, c’era un pregiudizio soprattutto nei confronti delle ragazze straniere”, racconta. “Ho studiato beni culturali, ma il destino mi ha portato in Sodexo, in cui lavoro da 26 anni. Qui ho avuto sempre l’opportunità di fare nuove esperienze che hanno portato al riconoscimento del mio ruolo al di là di ogni pregiudizio”.

Ore 13.00, è l’ora della pausa pranzo. Lungo la strada della mensa mi imbatto in Alexis Lerouge, direttore marketing del settore aziende, da trent’anni in Italia, e Veronique Tassigny, della sede parigina, a Milano per un breve periodo. “Sono via dalla Francia da talmente tanti anni che ora non mi identifico più in essa – spiega Alexis –, ma il fatto di essere francese mi ha aperto alla multiculturalità in un periodo in cui in Italia questa era ancora un miraggio”. “Quando ho iniziato in Sodexo ero più preparato di altr* - continua –. Quando ti trovi a lavorare in Spagna, in Turchia, in Slovenia, acquisisci la capacità di tollerare e l’intelligenza, fondamentale, di informarsi sulle culture delle persone con cui stai operando”. “Esatto – aggiunge Veronique –. Con questo lavoro ho imparato che inclusione è saper ascoltare gli altri per comprendere le diverse abitudini”.

Nelle parole di Veronique è sintetizzata l’attenzione di Sodexo – alla quale UNHCR ha conferito il premio “Welcome. Working for refugee integration” per tre anni consecutivi - all’identità culturale delle persone dentro e fuori l’azienda, valorizzate attraverso diverse iniziative. Come “Global Chef”, un programma di avvicinamento alle culture internazionali per i clienti Sodexo che permette loro di godere di un’esperienza del tutto originale, gustando pietanze autentiche e vivendo atmosfere internazionali, di altri paesi e culture.

Come il webinar organizzato con AIDP - Associazione Italiana per la Direzione del Personale per favorire l’inserimento lavorativo di migranti e rifugiati e promuovere un ambiente di lavoro eterogeneo ed inclusivo; i corsi di italiano per stranieri avviati nel 2009 e che continuano tutt’ora; il KIDS DAY 2018 in cui si è parlato di inclusione attraverso dei laboratori di cucina etnica in collaborazione con A&I Onlus, Cuochi a Colori Milano e #Mamafood.

Silvia Soannini interviews her colleague Alex Henderson, Senior Vice President at State Street, Head of EMEA Transfer Agency Operations, about how far the financial sector, and State Street in particular, have come in helping employees to bring their whole selves to work.

Do you believe that the banking/financial sector is inclusive of diversity? Was it inclusive towards you?

There’s been significant progress. Aside from the fact that providing inclusive environments is the right thing to do, there is a greater understanding of the fact that a diverse workforce drives innovation and creativity, and enhances our ability to serve our clients’ diversifying needs. This is an evolution, the momentum is there, and we can all still be actively making a positive difference in this space.

Personally, in my earlier career, I have experienced comments about how I tick a number diversity boxes with the insinuation it has fast-tracked my career – I was a young, female in a leadership role, without a university degree, and married to a woman. This used to affect my confidence – you do wonder if you’ve been considered for something because you represent a minority group. Today, I’m confident that I am in my position due to performance alone.

How would you define identity? Is it relevant in the workplace?

Personal identity is who you are, and self-identity is how you perceive or define yourself. We find greater alignment between our self-identity and personal identity, and in my opinion happiness, in places that are open, accepting and inclusive – where you can be you. Identity is a very relevant topic that should drive dialogue about everyone bringing their whole selves to work and thriving. Having to compromise or hide who you are can be damaging, and all businesses have a duty of care to their people, so identity needs to be a leading topic of conversation.

How can international groups and companies be more inclusive of all employees’ identities and increase their sense of belonging?

International organisations must consider how they build awareness, provide access to education, nurture dialogue, and train and promote Human Leadership. They must be vocally, consciously and actively aware of their people’s diverse needs so they can support their physical and psychological safety. At State Street, the Employee Experience, which focuses strongly on Inclusion, Diversity & Equity, is a foundational pillar of our organisational strategies. The focus our organisation has on this topic is working. Prior to joining in August 2021, I was interviewing at another company. The roles were not dissimilar and I chose State Street purely due to the people I met through the interview journey and the way they made me feel.

What do you think prevents some LGBT people – particularly women – from freely expressing their ‘difference’, even in an inclusive environment that protects and encourages freedom of expression?

Firstly, not all societies or cultures are the same – it is often difficult and sometimes illegal for people in the LGBT community to be transparent. I worked in Malaysia for 8 years and the company I worked for had a very inclusive culture. I could not be open or freely discuss my personal life, because of the laws in Malaysia. Over time, people discovered that I was married to a woman; I didn’t talk about it, but I didn’t actively hide it, either. That created an open door for a few colleagues in the office to be open and discuss their personal challenges with me.

I have also seen people in the LGBT community suffer from low confidence because of negative experiences with family, their social environment, their culture, and the law. Even in the most inclusive environments, it can be challenging for people to trust the inclusivity if they have had prior negative experience and that is why it is important we can all foster an environment of belonging – and build that trust!

What projects and policies has State Street adopted that deserve to be talked about?

Inclusion and diversity are embedded in our culture, values and behaviours.

We prioritise making sure that every employee feels they are represented, embraced and celebrated, and our global force of leaders represents the diverse markets we serve. We are very proud of the inclusive and safe environment we have created at State Street.

We empower our employees through employee networks, which play a critical role in creating an inclusive culture. Our Pride Employee Networks promote events and programmes that highlight challenges for LGBTQ communities across the globe. They include the Better Banter campaign, which highlights the impact of non-inclusive language in the workplace, and a reverse-mentoring programme that involved LBGTQ role models working to make the workplace safer for LGBTQ colleagues, women and minorities. In 2022 our Poland Pride Network hosted an event where our LGBTQ role models shared their coming out stories. This was an incredibly powerful and emotional event that reinforced how far we have come.

Entrando in azienda siamo accolti da un messaggio: “Takeda esiste per offrire una salute migliore per le persone e un futuro più luminoso per il mondo”. La priorità indicata è quella di mettere i pazienti al primo posto, per garantire loro la migliore qualità della vita. Una sfida sociale che le persone Takeda condividono con impegno ed entusiasmo.

Le persone sono la chiave del successo e questo si raggiunge solo tramite la collaborazione per obiettivi comuni: valori che, ogni giorno, ispirano e guidano il nostro lavoro. In Takeda ci impegniamo per creare un ambiente di lavoro che stimoli ciascuno a dare il proprio contributo nel modo migliore, che sia sicuro, confortevole, inclusivo. Qui ognuno può crescere come individuo, realizzando così il proprio potenziale.

Molte le iniziative, i programmi, i gruppi di lavoro attivi in azienda per ascoltare le esigenze di tutti e consentire di non lasciare indietro nessuno. Lavoriamo continuamente per ricercare modelli operativi efficaci ed efficienti e definire insieme nuovi percorsi.

È su queste basi che nel 2021 abbiamo istituito un ERG – Employee Resources Group – con rappresentanti di tutte le aree aziendali diversi per genere, seniority e background, al fine di portare e valutare insieme le iniziative più disparate e incoraggiare una cultura del lavoro sempre più aperta.

L’idea di fondo in Takeda è quella di liberare il potere della diversità promuovendo una cultura dove l’inclusione è concepita non come un’iniziativa isolata ma come parte integrante dei valori aziendali. Per ottenere ciò, è essenziale garantire che ogni singolo elemento si senta coinvolto e abbia la possibilità di contribuire all’interno dell’organizzazione in prima persona.

È così che è nata l’idea delle Quality Conversation, un momento in cui i membri dei team possono comunicare con trasparenza, chiarezza e libertà, delineando le proprie esigenze di miglioramento e crescita, stimolando in questo modo la fiducia reciproca e consentendo a Takeda di evolvere.

Un’altra iniziativa di cui andiamo molto fieri è l’Exceptional People Experience, un vero e proprio viaggio in cui è coinvolta tutta l’azienda basato su quattro pilastri: diversity equity & inclusion, life long learning, agility-continuous process improvement e wellbeing. Questo modello si propone di fornire strumenti innovativi declinati per garantire la migliore esperienza di lavoro.

La diversità è quindi parte integrante della cultura aziendale, e Takeda si contraddistingue, con orgoglio, rispetto alle pari opportunità e alla diversità di genere: vantiamo un equilibrio di genere nella totalità della popolazione aziendale con un 47% di popolazione femminile tra Leaders e Managers e il 52% di donne in R&D.

Io, così come Annarita Egidi, la nostra General Manager, ho sottoscritto il “Manifesto per un maggiore equilibrio di genere in Sanità”, redatto dall’Associazione “LEADS Donne Leader in Sanità”, per favorire il superamento delle disuguaglianze di genere e promuovere la presenza paritaria delle donne nelle posizioni di vertice delle organizzazioni pubbliche e private operanti nella Sanità, e faccio parte del Comitato Scientifico dell’Osservatorio creato da LEADS insieme a LUISS Business School per supportare questo percorso con dati sulla situazione italiana.

Ma DE&I non è solo parità di genere, e il nostro impegno è rivolto anche su molti altri fronti. È così che abbiamo deciso di associarci a Parks - Liberi Uguali e a Valore D per avere nuovi spunti, anche dal confronto con altre aziende, e rendere il nostro ambiente di lavoro sempre più inclusivo e rispettoso.

Il nostro impegno ha avuto un riscontro molto positivo tra i dipendenti e siamo e orgogliosi che sia stato riconosciuto anche all’esterno: quest’anno, per il terzo anno consecutivo, Takeda Italia è Top Employer ed è stata certificata per la prima volta Caring Company, riconoscimento promosso da Lifeed destinato alle aziende che investono in leadership generativa e nelle proprie persone.

Non possiamo che essere fieri del percorso intrapreso ma è nel prossimo futuro che contiamo di fare ulteriori passi avanti. Siamo al lavoro per individuare nuove sfide, come l’implementazione del programma Caregiver interno che permette alle nostre persone, grazie al supporto di una società esterna di consulenza, di condividere la propria esperienza mettendo a fattor comune competenze e capacità, e lavorare per il congedo di paternità, perché, quando parliamo di uguaglianza, deve essere garantita su tutti i fronti.

Tasnim Ali, creator di grande successo, è prima di ogni cosa una donna perdutamente innamorata della vita. È sufficiente parlare con lei al telefono per capirlo. La sua energia, il suo modo di essere schietta e sincera hanno conquistato TikTok, community in cui lei, all’età di 21 anni, ha aperto un canale per raccontare la sua religione, l’Islam, e la sua cultura.

“Mio padre è Imam, ma questa è stata una mia decisione”, rivendica con orgoglio, parlando con accento romanesco, la scelta di combattere pregiudizi e ignoranza ogni giorno grazie al lavoro su TikTok, dove oggi è ascoltata da oltre 739 mila followers.

Ora ha quasi 24 di anni ed è da poco diventata mamma diTalìa. “Sono una mamma che si sente libera e fortunata - spiega -. Anche se nell’Islam non crediamo nella fortuna ma nel destino. Mi sento una donna più responsabile, sempre più innamorata della mia religione. Ogni giorno mi rendo conto di quanto sia bello tutto quello che mi è stato donato”.

Sono fiera di essere EGIZIANA, ma c’è un unico posto in cui posso vivere: ROMA

Tasnim, sei una content creator, donna, madre, moglie, e tante altre cose. Quali tra tutte le identità che ti formano pesa di più in questo momento?

L’essere madre prevale su tutto, è un qualcosa che ti segna definitivamente. Per il tempo, per la pazienza, per la capacità di riportarti al tuo essere bambino, una identità che non pensavo più di avere.

Tua figlia si chiama Talìa. Qual è il significato di questo nome?

Colei che legge il Corano ad alta voce.

Secondo te, la scelta del nome è un gesto che conferisce una identità?

Assolutamente no. I genitori non definiscono la personalità dei propri figli. Scegliere il nome è un obbligo che ci viene imposto come genitori. Se Talìa avesse potuto lo avrebbe scelto da sola. Ovviamente la scelta del nome dipende dal mio vissuto, dalla cultura mia e del padre, dalla religione che pratichiamo. Il nome resterà per sempre, ma sarà lei a crearsi, giorno dopo giorno, la propria identità. Io la crescerò nello stesso modo in cui sono stata cresciuta, con i principi della mia religione e i valori della nostra cultura.

Le persone della community TikTok sono solite farti tante domande, spesso molto dirette. Come vivi questa relazione con i follower?

Non percepisco le domande dalla community come un’intrusione nella mia vita. Sono stata io a creare questo canale diretto, ad abituarmi a rispondere ad ogni domanda. Le domande e le risposte eliminano il pregiudizio. Soprattutto quando si tratta di quesiti che in molti vorrebbero porre, ma che si vergognano a porre. Ci vuole coraggio per chiedere apertamente. Nel rispondere si distrugge il pregiudizio.

Ci sono state domande che ti hanno spiazzato? Soprattutto ora che è nata la bimba.

Adesso la cosa che mi chiedono di più è: quando farai mettere il velo a tua figlia? Come se fosse già in partenza una imposizione. La domanda giusta è se glielo farò indossare. La risposta è che io non farò niente, sarà lei un giorno a scegliere per sé stessa.

Sei un bellissimo mix di culture. Hai origini egiziane e sei romana di adozione. Hai mai avuto confusione sulle tue identità culturali?

Rivendico con orgoglio il mio sangue, il mio essere egiziana, mi piace dirlo agli altri e mi piace che gli altri siano consapevoli di questo. Ma casa mia è qui in Italia, a Roma, che amo follemente. In Egitto c’è uno stile di vita totalmente diverso dal nostro, a cui farei fatica ad abituarmi. Ad esempio, non ci sono orari, tutto è aperto h24, c’è una divisione netta tra i super ricchi e i super poveri, non esiste una via di mezzo. Per cui mi sento egiziana, ma anche italiana. L’Italia è il paese in cui voglio vivere e crescere mia figlia. Non potrei vivere altrove.

Qual è la cosa che ami di più di Roma?

Adoro il caos. Mi piace la vita, la folla. A Roma non mi sento mai sola.

Con il tuo progetto su TikTok hai contribuito ad abbattere molti pregiudizi relativi all’Islam. Quanto ancora c’è da fare da questo punto di vista? Le domande che ti pongono sono le stesse dell’inizio del tuto percorso?

Spesso mi chiedo se c’è ancora bisogno del confronto. La riposta è sì. Non è mai abbastanza. Ci saranno sempre persone che avranno bisogno di queste spiegazioni. Lo farò finché servirà.

I passi avanti che hai fatto sono tanti. Ti sei mai sentita sconfitta nel tuo percorso?

Purtroppo sì, quando ho ricevuto critiche da persone della mia stessa religione. Non avevano capito il mio intento, ossia parlare e far conoscere per abbattere gli stereotipi.

Qual è il più grande pregiudizio sull’Islam che hai avuto il piacere di sfatare?

I pregiudizi sono molti. Una delle più grandi soddisfazioni è stato far capire che Islam non è sinonimo di terrorismo. C’è ancora molto da fare sull’immaginario, sbagliato, della donna oppressa legata all’Islam, lo vedo nei commenti dei video che pubblico.

Come rispondi a questi commenti?

Rispondo che tutto quello che faccio, lo faccio per volontà unicamente mia. Sono figlia di un Imam, che ancora oggi studia e insegna il Corano. Lui mi ha mostrato una via, ma sono stata io a scegliere di percorrerla. E questo vale anche per tante altre ragazze. Da tempo faccio parte – sempre per mia decisione - dell’associazione GMI (Giovani Musulmani d’Italia), una dimensione di incontro per tanti giovani di questa religione. Come spesso dico, l’impedire alle figlie di autodeterminarsi è una mal interpretazione del Corano; fortunatamente una posizione di minoranza nella nostra comunità religiosa.

Cosa significa per voi il termine “identità”? Può il lavoro contribuire alla costruzione dell’identità di una persona?

Se guardiamo all’etimologia del temine identità indica in generale l’eguaglianza di un oggetto rispetto a se stesso. Ma essere uguali a se stessi nel tempo è quasi impossibile, dal momento che persino al livello infinitesimale ogni atomo è in continuo movimento e evoluzione. Questa complessità è ciò che rende questo tema affascinante e molto dibattuto. In OMG pensiamo che la nostra identità di persone evolva, con le fasi della vita, con la consapevolezza che ne deriva, con le esperienze che facciamo e che ci aprono nuovi modi di relazionarci agli altri e di vedere noi stessi. Tutto questo bagaglio entra anche nell’ambito lavorativo, nessuno di noi è il proprio job title, infatti, quel che facciamo al lavoro non esaurisce il racconto della nostra complessità come essere umani, ma aver cura dell’identità di un collaboratore significa vedere la persona al di là del ruolo specifico, ed è importante farlo per riconoscerne l’unicità.

Quale importanza attribuite alla diversificazione delle risorse che lavorano per voi? Ha a che vedere con l’espressione dell’identità di ogni persona?

Negli ultimi anni abbiamo intrapreso un percorso di riflessione sui temi DE&I che ci ha portato sia a porre maggior focus sul concetto di diversità in azienda, sia a lavorare sul concetto di libera espressione del proprio potenziale e della propria identità. Nel 2019 abbiamo creato un team DE&I in OMG, con focus leader dedicati a 5 temi sui quali porre l’attenzione: LGBTQ+, Disabilità, Gender, Genitorialità e Interculturalità. Quello che abbiamo imparato in questi anni di scambi, iniziative e formazione rispetto a questi temi è che un ambiente inclusivo diventa terreno fertile per poter liberare diversi aspetti della propria identità che vanno a rendere l’esperienza di crescita in azienda più completa.

Quest’anno abbiamo ottenuto, inoltre, la certificazione UNI/PDR 125 per la gestione della parità di genere, un ulteriore passo verso l’equità sistemica in Omnicom Media Group e un bellissimo progetto per imparare a guardare la relazione tra persone e mondo del lavoro da una prospettiva più ampia, che ci permette di porci obiettivi che riguardano l’impegno civile che ogni azienda ha, nel rendere anche il lavoro un ambito in cui la sostenibilità sia un fattore chiave di sviluppo.

Ci sono iniziative specifiche che avete intrapreso per far emergere meglio il potenziale e l’identità dei vostri collaboratori? Se sì, ci sono stati dei benefici?

In questi anni abbiamo intrapreso diverse iniziative per fare focus sull’espressione della propria identità. Uno dei primi progetti organizzati dal team DE&I è stato “Io sono”. Abbiamo chiesto ai colleghi e alle colleghe di raccontarsi con un termine e una immagine, ne è nato un progetto social per Instagram che ha messo in evidenza sfumature diverse delle nostre persone.

Quest’anno abbiamo chiesto agli oltre 650 colleghi e colleghe se tra loro ci fosse qualche musicista o cantante. Ci siamo ritrovati con due band nate in pochi giorni, che hanno suonato insieme durante la nostra festa di Natale, creando una performance divertente e coinvolgente.

Anche al lavoro, se siamo messi nelle condizioni di poter esprimere liberamente diversi aspetti della nostra identità, comprese le nostre passioni, a trarne vantaggio è l’arricchimento della relazione con gli altri e anche l’allenamento a vederci come la somma delle nostre parti con tutto ciò che concorre a renderci unici.

LINDA SANTO
People Director Omnicom Media Group

OMG si occupa della comunicazione di molti brand, notate che l’espressione di sé è ancora soggetta a bias culturali e sociali sui media?

I brand stanno facendo passi avanti nel raccontare la diversità ma, da cinquantenne, noto ancora situazioni in cui i segni dell’età vengono cancellati con programmi di fotoritocco, o mi stupisco davanti alla scelta di testimonial ‘giovanili’ per prodotti che sarebbero perfettamente in target over 50. L’età non è l’unico aspetto dell’identità che a livello mediatico non è rappresentativo della realtà; nello storytelling mainstream dei brand mancano molte delle sfumature che caratterizzano l’essere umano: le disabilità, le diversità culturali ed etniche, le diversità sessuali e i modelli di relazione… Se è vero che molti passi in avanti sono stati fatti, soprattutto su un utilizzo più inclusivo del linguaggio visivo la strada da percorrere è ancora lunga e l’impegno delle aziende deve essere concreto e consistente in questo senso.

Secondo i dati del Diversity Brand Index, la crescita dei ricavi per un brand inclusivo può superare il 23% rispetto ad un brand non inclusivo. Cosa ne pensate di questo dato?

È un dato che non mi stupisce. In particolare, il pubblico compreso tra i 18 e i 25 anni è maggiormente attento all’aspetto Diversity & Inclusion nelle pubblicità e nella comunicazione, tanto da considerarlo spesso come acquisito, scontato, necessario. La richiesta di autenticità nella rappresentazione mediatica della vita, fa del DE&I un elemento che queste fasce di pubblico ricordano e considerano decisivo al momento dell’acquisto; la generazione Alfa sarà ancora più intransigente sull’impegno inclusivo dei brand. Di contro, nell’ambito degli addetti ai lavori, i marketer Millenial e Gen Z sono gli unici che già si sforzano di pensare in termini inclusivi: i professionisti appartenenti a generazioni diverse spesso sono ancora nell’area delle buone intenzioni ma faticano a cambiare mindset.

Quali azioni concrete può compiere un’azienda per non incorrere nel rischio di “diversity washing”?

I brand devono riconoscere il loro potere nel plasmare l’immaginario perché possono realmente cambiare la forma della nostra cultura scegliendo come comunicare e come investire. L’inclusione deve essere però parte della cultura aziendale fin dalle sue radici, non un tema di facciata, perché il pubblico riconosce una campagna di puro marketing da un posizionamento autentico sui temi legati alla diversità: la cosiddetta Brand awareness, quella naturale diffidenza che soprattutto le giovani generazioni hanno sviluppato verso la comunicazione di azienda, è uno dei maggiori rischi per i brand. Autenticità quindi, e consistenza nel raccontare il valore della diversità: il nostro mondo è ricco di etnie diverse, di forme del corpo non perfette, di persone con disabilità e di relazioni famigliari eterogenee, sarà sempre più pressante la richiesta di una comunicazione rappresentativa della realtà e inclusiva nella narrazione di questa complessità

Come impostate il dialogo con i clienti su queste tematiche? Ci sono delle difficoltà che riscontrate maggiormente?

Come consulenti di comunicazione cerchiamo di portare costantemente l’attenzione dei nostri clienti su questi aspetti; la strada è tracciata ma c’è un lavoro enorme da fare sui bias culturali e sociali che stanno dietro a molte delle campagne pubblicitarie a cui assistiamo. Serve avere il coraggio di riscrivere la narrativa di marca usando come leva l’empatia verso i bisogni identitari delle persone. Serve riconoscere che non esistono davvero dei cluster in cui incasellare una audience ma piuttosto una meravigliosa complessità, e identità diverse da rappresentare con punti di vista che diano valore a questo nostro essere la somma delle parti.

Ludovica Federighi
Head of FUSE
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