Nel 1936 l’antropologo statunitense Ralph Linton già ci ricordava che le più grandi imprese dell’umanità sono nate dal meticciamento di idee e pratiche culturali, dalla contaminazione di culture e lingue, dagli spostamenti e dai trasferimenti (di persone, di pratiche, di oggetti, animali, piante, usanze): nella nostra vita quotidiana infatti non troviamo nulla che rispecchi puramente un’unica cultura o un’unica lingua o un’unica identità. Ci illudiamo che l’identità crei appartenenza, tralasciando tuttavia che essa, separando “noi” dagli “altri” e distinguendo chi appartiene da chi non appartiene, chiude e divide, ci definisce e ci include escludendo gli altri, attraverso un nuovo razzismo contemporaneo fondato su basi culturali, anziché biologiche, che si diffonde continuamente in nuove forme (Aime, 2020)*.

Ciascun individuo, fin dalla sua nascita, ridefinisce gli equilibri delle proprie appartenenze (sociali, culturali, etniche, linguistiche…) divenendo ciò che è per via di un intreccio ibrido, di volta in volta unico e speciale, tra culture, relazioni, luoghi, lingue.

Chi mai potrebbe definire una volta per tutte quale sia l’identità di un bambino che vive in una città di lingua fiamminga, con madre italiana e papà turco, che parla quattro lingue diverse, frequenta una scuola internazionale e condivide le pratiche religiose della comunità islamica locale?

Fin da piccolissimi, bambini e bambine appartengono peraltro a più comunità diverse (la famiglia, il nido/la scuola, la squadra sportiva, l’associazione ludica, gli amici del parco o quelli delle vacanze, il gruppo musicale, la comunità religiosa, il vicinato, …): essi non crescono in un unico gruppo né in un’unica cultura e per questo ogni identità sfugge, non è mai definita ma ne cela molte altre, perdendosi in stereotipi che si esprimono attraverso espressioni colme di ambiguità: “io sono italiano”, “io sono musulmano”, “io sono nero”, “io sono piccolo”. Non a caso, definire l’identità è aspirazione adulta.

Diversi studi del resto evidenziano che bambini e bambine oggi sono abili nel gestire numerose identità, con valori, regole, codici e linguaggi diversi: le loro modalità di interazione con i genitori e i membri della propria famiglia si distinguono da quelle utilizzate con insegnanti, allenatori ed educatori, così come variano ulteriormente quando si relazionano con altri bambini e bambine, nei diversi contesti che frequentano.

La ricerca antropologica ha altresì mostrato che i bambini non recepiscono passivamente le pratiche culturali della propria comunità: dai resoconti etnografici di molti studi i bambini emergono come soggetti attivamente partecipi alle interazioni sociali e all’apprendimento culturale, acquisendo convenzioni, regole, norme e standard e addirittura modificandoli per i propri scopi. Similmente, bambini e bambine introducono nei propri contesti di vita sempre nuovi gesti e significati, talora inusuali per il proprio contesto (familiare o culturale) di riferimento che pur ampliano la gamma di comportamenti, valori e routine possibili.

L’identità non è dunque qualcosa di innato bensì di acquisito e in continuo divenire e proprio per la sua intrinseca pluralità non può definirsi e tanto meno restringersi a una identità singolare bensì può, tutt’al più, essere riformulata in identità multiple e plurali. Proprio in funzione di ciò e della crescente complessità delle plurime identità di ciascuno, che variano con l’ampliarsi delle sue appartenenze e delle sue relazioni con più gruppi, l’educazione assume un ruolo centrale.

Educare bambini e bambine alla diversità (culturale, sociale, familiare, etnica, linguistica…) diviene così un obiettivo importante di genitori, educatori e insegnanti innanzitutto: tali adulti hanno infatti la responsabilità di crescerli – in famiglia e nei servizi educativi e scolastici - coltivando consapevolmente non tanto la distinzione di sé dall’altro bensì il valore della diversità, esponendoli cioè in modo diffuso alla conoscenza e alla familiarizzazione con le diversità (di persone e relazioni, origini sociali, etniche e culturali, lingue e dialetti parlati, caratteristiche fisiche, strutture familiari, orientamenti sessuali, opinioni e punti di vista, abitudini alimentari e pratiche di vita…). Ovviamente ciò richiede altresì agli adulti la cautela di evitare subdoli meccanismi che comunicano gerarchie tra migliori e peggiori, tra gruppi dominanti e gruppi minoritari, tra modelli graditi e modelli meno accettabili (si pensi, ad esempio, ai messaggi impliciti inviati ai bambini di una classe in cui i libri presenti sono solo in una lingua e le foto appese rappresentano solo famiglie nucleari o bambini biondi e sorridenti dalla pelle bianca).

Uno dei punti di partenza più comuni in questa rubrica è la posizione dell’individuo nella società. Anche questa volta ci offre uno spunto per parlare di qualcosa di controverso e, in un certo senso, grigio strumento di inclusione: le carriere alias.

Prima di tutto: cos’è una carriera alias? Secondo il Vocabolario Treccani, “è un profilo burocratico, alternativo e temporaneo, riservato agli studenti (ma non solo! -ndr) transgender”. È dunque uno strumento interno a una scuola o università che permette a un suo frequentante e a chi lì lavora di usare il suo nome di elezione al posto del dead name (vecchio nome). In questo periodo alcune scuole e università hanno iniziato ad applicare la carriera alias e ciò ha ovviamente creato scalpore e sollevato polveroni.

Al di là della burocrazia e delle definizioni, la carriera alias è un espediente adottato in mancanza di una legislazione specifica sul tema al fine di permettere una maggiore inclusività all’interno di un ambiente formativo.

Questa prassi vuole tenere conto di una situazione molto particolare e delicata, permettendo un riconoscimento, non ufficiale, della difficoltà specifica della persona transgender, che già ha a che fare con numerose questioni dentro sé e con la società. Si è discusso (e ancora si discute, ma più in sordina ora che la notizia ha fatto la sua uscita sensazionalistica) di linguaggio inclusivo, dei suoi utilizzi e delle sue intenzioni. È, quella, una soluzione “popolare” su vasta scala, che dovrebbe consentire quindi la creazione, con il tempo di una normalizzazione condivisa della questione di genere. La carriera alias si propone come obiettivo di fare una cosa simile, ovvero di instaurare un ambiente comprensivo che è quindi capace di riconoscere la difficoltà della persona e sceglie dunque di toglierle parte delle preoccupazioni che possono venire da un ambiente come quello scolastico.

Gli anni dell’adolescenza e della giovane età sono anni duri e complessi per la salute mentale della persona, spesso creano già in una situazione normale problemi di inclusione tra coetanei, proprio per lo sviluppo che sta avvenendo. La difficoltà per un transgender è esponenziale. L’istituzione allora sceglie di farsi carico di tale difficoltà favorendo, con questa pratica che non è affatto complicata da attivare, la creazione di un ambiente in cui la persona viene tutelata per quello che è.

Ovviamente le carriere alias sono state criticate da una parte dell’opinione pubblica. Le motivazioni sono varie, ma le più notevoli sono forse due. La prima è che con le carriere si rischia di influenzare i pensieri dei giovani che non sono ancora sicuri del cambiamento in favore di una “propaganda gender”. A questa obiezione si può però contrapporre la definizione stessa di carriera alias, perché essa è “alternativa e temporanea”. Non essendo una pratica ufficiale ma una misura interna all’istituzione, è uno strumento che permette di tutelare l’individuo durante tutto il suo percorso di crescita in quell’istituzione, anche qualora dovesse rendersi conto di non aver bisogno di fare la transizione.

La seconda obiezione è di carattere giuridico, dice che non potrebbero esistere le carriere alias perché le scuole non hanno l’autonomia per creare un regolamento simile. Ma questa è più una mancanza del nostro sistema legislativo piuttosto che una trasgressione delle scuole. Ci sarebbe bisogno di una normativa che regoli e regolarizzi le carriere alias, permettendo così a tutti gli studenti di usufruirne, non solo ad alcuni in singole scuole superiori e università.

La carriera alias è un esempio di misura che viene presa pensando a chi ne potrà usufruire, che ascolta e tutela nel suo piccolo l’individuo e permette (cosa fondamentale) che negli ambienti di studio l’individuo possa essere sé stesso e chi gli sta attorno possa comprendere meglio le sfaccettature della società in cui viviamo.

“Non sapevo nulla di ciò che dovevo fare, ma ero entusiasta di mettermi alla prova”. “Dopo tanti anni di studio, avevo finalmente realizzato il mio sogno: entrare a far parte di una multinazionale”.

Il primo a parlare è Mario Mele, Instrumentation Sales Manager ABB SpA – Division Measurement & Analytics in ABB dal 1987.

La seconda è Francesca Fallucchi, Sales Analyst & Contract Specialist, 25 anni, entrata in ABB nel 2022. Entrambi ricordano in modo speciale il primo giorno di lavoro: l’incontro con persone nuove, le aspettative, i timori. Le loro carriere sono iniziate a trentacinque anni di distanza, nella medesima divisione di ABB, ma le emozioni restano le stesse anche se il mondo è cambiato totalmente e, di conseguenza, anche gli ambienti di lavoro.

ABB accoglie oggi quattro generazioni nello stesso ambiente di lavoro: Gen Z, Millennials, Gen X e Baby Boomers. Il 41% della popolazione è costituito da Millennials, il 36% dalla Generazione X e il 15% da Baby Boomers , l’8% dalla Gen Z. Poco più del 50% dei dipendenti ABB supera i 41 anni.

“La diversità generazionale riunisce l’esperienza, l’energia, la curiosità e l’ambizione di persone di età diverse – afferma Carolina Granat, Chief Human Resources Officer di ABB –. Le motivazioni che spingono ciascuna generazione a lavorare, il modo in cui affrontano argomenti come l’equilibrio tra vita privata e lavoro o lo sviluppo della carriera, variano da generazione a generazione; e questo è un aspetto che i datori di lavoro devono tenere presente”. Momenti storici diversi, prospettive diverse e, soprattutto, un mondo del lavoro completamente mutato. Come è cambiata in quattro generazioni la visione del lavoro?

ABB è impegnata – in un’ottica di valorizzazione delle unicità delle proprie persone – a creare un ambiente di lavoro estremamente inclusivo in cui ciascuno possa esprimere al meglio le proprie potenzialità in qualsiasi fase della propria vita professionale, portando il proprio contributo per il raggiungimento degli obiettivi che tutti condividiamo.

https://global.abb/group/en/about/diversity-and-inclusion


Mario, ricordi il tuo primo giorno di lavoro? Quali erano le tue aspettative?

Era il 26 gennaio 1987, una settimana dopo aver finito il servizio militare. Avevo 22 anni. Una volta arrivato in fabbrica, mi fu affidato il compito di leggere un catalogo dello spessore di almeno 15 cm.

Anche se non sapevo nulla della materia e capivo pochissimo di ciò che leggevo, fu una giornata bellissima: volevo mettermi in gioco. Iniziavo l’avventura in ABB da venditore interno junior: un sogno per l’epoca. Avevo un impiego vicino casa e un buon contratto.

Dopo 36 anni in ABB ritieni che il tuo lavoro sia parte integrante della tua identità? Come l’azienda è stata grado di valorizzare le tue potenzialità nel corso degli anni?

Sì, in ABB ho trascorso la maggior parte della mia vita. In questa lunga esperienza sono cresciuto, ho acquisito capacità di gestione e pianificazione del lavoro, ascolto e ho compreso l’importanza della condivisione. Il mio percorso si è sviluppato in modo naturale. Ho avuto la fortuna di fare un lavoro che amo. L’azienda mi ha sempre dato la possibilità di crescere professionalmente in ogni fase e io non mi sono mai tirato indietro.

Ti identifichi nei valori di ABB?

Assolutamente sì. Sicurezza, etica, inclusione, educazione: sono tutti valori che condivido e che perseguo nel mio quotidiano.

Com’è lavorare con persone della Gen Z?

Ci sono enormi differenze. Il mondo è cambiato. I ritmi sono più frenetici rispetto al passato e i giovani, cresciuti in mondo connesso e dalle risposte immediate, hanno un approccio che alcune volte li porta ad affrontare il mondo del lavoro senza prendersi il dovuto tempo per approfondire. Ai colleghi e colleghe più giovani dico: siate curiosi, identificate delle persone da cui imparare il mestiere, costruitevi delle solide basi di esperienza tramite le quali progredire.

Mario Mele

Francesca, dieci mesi fa è iniziata la tua avventura in ABB. Ci racconti il tuo primo giorno di lavoro? Quali sono state le aspettative?

È stato emozionante. Prima di iniziare la giornata, mi sono fermata davanti del Blue Building di Sesto San Giovanni. Durante gli anni dell’università guardavo quel palazzo e pensavo: chissà se un giorno potrò lavorare in quell’azienda? Quel momento è arrivato a 24 anni, due mesi dopo essermi laureata. Sono orgogliosa oggi di far parte di una grande azienda come ABB. Sono stata accolta dal mio responsabile e la persona che è stata la mia tutor fino al momento dell’assunzione e che ancora oggi è per me una persona di riferimento. La paura di non essere all’altezza di questa realtà l’ho vinta con la strategia più potente: essendo me stessa.

Secondo te, quali caratteristiche deve avere un’azienda per attrarre nuovi talenti?

Deve garantire formazione continua, offrire la possibilità di fare carriera ed esperienza all’estero se la persona lo richiede e ci sono le possibilità nell’area lavorativa in cui è inserita, contratti attrattivi in termini economici e di welfare. Noi giovani cerchiamo realtà in cui sia possibile lavorare in team e in cui venga rispettato il work life balance.

Ti identifichi nei valori di ABB?

Sì, altrimenti non mi sarei mai candidata per entrare a far parte di questa organizzazione. Condivido i valori di sostenibilità, integrità e inclusione che perseguo nella mia vita privata.

Come ti immagini tra trent’anni nel mondo del lavoro?

Una professionista, con una carriera che mi consenta di viaggiare per il mondo. Vorrei essere un punto di riferimento per qualcuno, come lo sono state la mia tutor e il mio responsabile per me.

Francesca Fallucchi

PREMESSA

Ci sono cose che molti di noi danno per scontate, come guardarsi allo specchio e riconoscersi senza pensare che la persona che stai vedendo non sia tu; almeno non quel tu che, nel profondo, riconosci come tale.

Comprendere questo tipo di sensazione è complesso se non si è avuto modo di “camminare nelle scarpe, nei vestiti e nella pelle” di chi con tutto questo ha convissuto da quando ne ha memoria.

In Agos stiamo lavorando attivamente a progetti di inclusione ormai da tre anni, stiamo organizzando iniziative di sensibilizzazione rispetto a temi quali le disabilità, la gender equality, il mondo e la cultura LGBTQIA+ … e in tempi “non sospetti”. O, almeno, non così maturi da avere un intero programma dedicato alla transizione di genere. Nel 2017, infatti, ci siamo trovati a rispondere all’esigenza di un collega che ci chiedeva di essere accompagnato nella sua transizione di genere.

Parliamo di sei anni fa, solo sei anni fa, eppure la richiesta ci colse totalmente impreparati e un po’ smarriti sia dal punto di vista della gestione delle Risorse Umane sia dal punto di vista burocratico: non esisteva, in realtà, una procedura amministrativa che indicasse cosa fare e non esisteva nemmeno una procedura tecnica che spiegasse al nostro IT quali comandi selezionare per consentire ai portali utili all’operatività del collega, di aggiornare ovunque il suo nome.

Perché parliamo del nome? Perché è centrale nell’identità di un individuo.

Un nome, un trag e, una rinascita.

Un nome, un grido: sono finalmente io! Ora mi vedete?!!


LA CONSAPEVOLEZZA

Nel 2017 Giovanni ha iniziato il percorso psicologico, obbligatorio in Italia per chi chiede una riassegnazione di genere; un cammino intenso fatto di domande che scavano nel profondo e ti mettono di fronte a chi sei, senza scuse.

A seguito del “benestare” dello psicologo, Giovanni è stato accompagnato da un endocrinologo nel comprendere come il suo corpo avrebbe reagito alla cura ormonale. Infine c’è stato il percorso terapeutico con uno psichiatra. Nel 70% dei percorsi di affermazione di genere, infatti, in Italia viene coinvolto uno/una specialista in psichiatria chiamat* a escludere potenziali condizioni di sofferenza che potrebbero alterare la percezione della persona che vuole affrontare la transizione, rendendola poco lucida in merito.

Affrontati e superati questi tre step fondamentali, vi è stato poi il passaggio giuridico: un avvocato incaricato da Giovanni ha presentato istanza al tribunale per il cambio di nome e in sede di sentenza un giudice ha deciso, sulla base della documentazione presentata e del colloquio sostenuto, di dare il proprio via libera al cambiamento.


IL VIA LIBERA ALLA FELICITÀ

Un via libera per attivare la lenta burocrazia italiana e richiedere una modifica di tutti i documenti e, solo alla fine, poter iniziare le operazioni chirurgiche per far sì che il corpo, finalmente, assumesse la forma dell’anima che lo abita.

La storia di Giovanni è una storia di coraggio, di grande determinazione nei confronti di un vissuto che, fin da piccolo, ti ripete che diventare chi senti di essere può dipendere anche dall’approvazione di qualcun altro/a.

In questo coraggio c’è stato solo un momento di paura: quello in cui Giovanni ha temuto di non essere accettato dalla propria famiglia, che aveva accolto con estremo disagio la decisione.

E sapete qual è stata la magia?

Che in quel momento la famiglia Agos si è sostituita a alla famiglia d’origine: “Giovanni, tu devi essere felice per te stesso. Quando la sera rientri a casa e ti chiudi la porta alle spalle, non conta quello che pensano gli altri, conta come stai tu”.


CONCLUSIONI

Giovanni concluderà il suo percorso di riassegnazione di genere nei prossimi mesi, dopo quasi 7 anni da che tutto ha avuto inizio, dopo circa 40 dalla sua nascita.

Abbiamo voluto raccontarvi questa storia sperando che, almeno in piccola parte, dalle nostre parole si percepisca cosa può significare morire dalla voglia di essere se stessi e avere la consapevolezza che per farlo bisognerà combattere a lungo.

Stiamo lavorando a una policy a tutela di chi in azienda vorrà iniziare un percorso come quello di Giovanni e lui ci sta supportando in questo perché, nonostante la crescente consapevolezza delle difficoltà che le persone transgender devono affrontare (sul luogo di lavoro e non solo), creare politiche e prassi inclusive non può prescindere dalla conoscenza personale, concreta e vissuta di chi, quella sfida, l’ha accetatta e vinta. E noi non vediamo davvero l’ora di scrivere quella nuova pagina.

In questo numero di DiverCity magazine dedicato alle identità, scegliendo una prospettiva originale e interessante, Boston Consulting Group ha deciso di interrogarsi sull’identità professionale, anzi, più precisamente, sull’identità di chi lavora in consulenza. Esiste uno standard a cui uniformarsi per essere consulente? Esisteva ma ora non c’è più? E quali caratteristiche aveva, se così fosse? Un buon modo per scoprirlo è chiederlo alle persone che in BCG lavorano, da molto o da poco tempo, e che possono contribuire con un punto di vista differente alla visione di insieme che anima l’azienda tutta.


Stefano Raisoni

EMESA DE&I Recruiting Coordinator, in BCG da 4 anni

“I network, cosiddetti ERG, sono un’espressione dell’appartenenza ad una comunità di persone che condividono interessi e bisogni comuni e, per questo, hanno a che fare con le identità. Chi non appartiene a una certa comunità, prendiamo ad esempio la comunità LGBTQ+, può trovare nel network un luogo in cui informarsi; mentre per chi ne fa parte il network offre un posto in cui esprimere liberamente la propria identità. Il concetto del true self at work non può più essere messo in secondo piano dalle organizzazioni. Essere costrett* ad esprimersi secondo schemi precisi incide negativamente sulla performance, sulla creatività, sulle relazioni. Fare rete, a questo punto, vuol dire anche fare chiarezza e informare. Un esempio: i binarismi (uomo/donna, eterosessuale/omosessuale, giovane/anzian*) non sono più rappresentativi della realtà, ma solo i due poli di uno spettro molto più ampio. Le persone devono saperlo ed essere pronte ad accettarlo”.


ENRICO NEGRI

HR Recruiting Specialist, in BCG da 18 anni

“Un super lavoratore, ingegnere con Master in Business Administration che delega la gestione della famiglia alla moglie o all’assistente: questo era lo standard del consulente 24 anni fa quando ho iniziato a lavorare. Poi il mondo è cambiato e, con esso, l’idea di consulenza. Oggi in BCG gli uomini hanno capito che possono lavorare meno e le donne che hanno possibilità di fare carriera. In azienda siamo al 50% di presenza maschile e femminile in entry level. Il mio stesso essere una persona con disabilità in BCG - partendo dall’esigenza di regolarizzarsi rispetto alle categorie protette - ora è invece percepito dal management come un valore; tutte le diversità lo sono”.


LAURA VILLANI

Managing Director & Partner at BCG, in BCG da 9 anni

“Quando sono entrata in consulenza, 21 anni fa, tre quarti dei colleghi erano maschi e fin troppo simili gli uni agli altri: ingegneri, economisti, ambiziosi, di buona famiglia, sposati e padri di famiglia. Era un microcosmo talmente stereotipato da apparire come una sorta di casta fino al punto da mettere in una posizione di svantaggio non solo le donne, ma anche i maschi che non erano sposati e con figli. Negli ultimi quattro/cinque anni la realtà in BCG è molto cambiata, tanti retaggi del passato sono stati finalmente sdoganati: anche i genitori single e le donne sono in aumento (non potevamo certo perdere così tanti talenti!). Ecco il bello della consulenza: quando un cambiamento invade la società esterna, noi riusciamo ad adattarci velocemente. Un aspetto che invece non cambierà mai è la curiosità che anima tutt* noi e la voglia di fare costantemente qualcosa di buono, sia per il cliente che per la società”.


SHENG XU

Consulente, in BCG da 2 anni

“Ancor prima di entrare in questo settore sapevo che c’erano dei forti pregiudizi, che idealmente c’era un consulente ideale a cui tutti si dovevano omologare. Ma le cose sono cambiate, oggi a chi lavora in consulenza strategica vengono richieste tre cose: competenza, motivazione, qualità personale. Lavorando così possiamo essere tutt* diversi, perché ci sentiamo accolt*. BCG è diventato un mondo accessibile e inclusivo per tutti i laureati e le laureate, un luogo in grado di rappresentare una opportunità per i giovani talenti, per cui è finalmente possibile essere se stess*”.


ELENA GALLIANI

Consulente, in BCG da 2 anni

“Prima il consulente era legato prettamente al modello maschile. Il professionista che amava lavorare tanto, che si portava il pc in vacanza, che dava buca agli amici, che era sempre di fretta e non riposava mai. Oggi i/le consulenti amano il cambiamento e il lavoro in team. Sono figure positive, lontanissime dal busy businessman di una volta. Sono persone sveglie, intelligenti, assertive. Persone a cui piace cambiare. Ci piacciono le deadline, cerchiamo di raggiungere tanti risultati nel breve termine, ma prosperiamo nel confronto con gli altri. Noi della nuova generazione di professionist* abbiamo valori diversi. Vogliamo essere felici nel presente, cercando un equilibrio tra il lavoro, da cui traiamo soddisfazione, e la vita privata, a cui non vogliamo rinunciare”.

Elena Galliani

MONIA MARTINI

People & HR Operations Executive Director, in BCG da 25 anni

“Se prima il 90% dei consulenti erano economisti e ingegneri, ora cerchiamo talenti ovunque. Non è più accettabile l’idea unica del consulente con valigia, giacca e cravatta. Il mercato e la società chiedono altro, giustamente. In BCG ci siamo resi conto che il punto di vista femminile poteva portare una prospettiva nuova, identificare esigenze diverse e punti di vista innovativi rispetto al passato. Ci siamo dati dei target da raggiungere: il 50% dei consulenti deve essere donna. Ma i numeri non bastano: serve che tutte le persone stiano bene, serve creare le condizioni per cui queste rimangano con noi. Con “Women@BCG” facciamo questo, poche precise azioni di valore estendibili a tutt*. (Ad esempio convertire la maternity policy in parental policy). E ciò che abbiamo fatto per gender e orientamento sessuale o affettivo, sarà fatto anche per ethnicity e disability. Il D&I team lavora su tutte queste tematiche a 360° in collaborazione con le risorse umane. Credo sia la strada giusta".

Monia Martini

SARA TADDEO

Diversity Equity & Inclusion Manager, in BCG da 6 mesi

“Due tratti distintivi di BCG sono darsi dei target e creare le giuste condizioni perchè i target divengano prassi di successo. Partire dai target è un traino fondamentale perchè diventa una spinta energetica attraverso la quale le persone si coalizzano tra loro e trovano unità d’intenti. Trovano un linguaggio comune. Questa logica, che ha grandi benefici in termini di raggiungimento dei risultati, deve andare di pari passo con il creare le migliori condizioni possibili per avere una popolazione varia e inclusa. In BCG abbiamo iniziato a lavorare a nuovi progetti che riguardano le diversità etniche perché dobbiamo saper valorizzare il fatto che in Italia vivono molt* giovani di seconda generazione o provenienti da altri Paesi che sognano una carriera lavorativa anche in consulenza. Per questo ci siamo dati un obiettivo di medio lungo periodo: scovare nuovi talenti e garantire loro l’accesso a un lavoro qualificato. Stiamo costruendo una rete di alleanze con realtà associative di giovani con background migratorio attive in tutta Italia. Ad esempio abbiamo lanciato un progetto realizzato con Sistech che permetterà a donne rifugiate di accedere a percorsi di reskilling di ambito STEM. L’inclusione delle diversità è possibile solo se si valorizzano le identità delle persone, che sono portatrici di storie uniche”.

Sara Taddeo

Collaboratori? Pazienti? Caregiver? Per quanto ci sforziamo di dividere il mondo in categorie, queste forse scompaiono nel momento in cui si parla di benessere e salute. Da oltre 85 anni Chiesi - azienda biofarmaceutica presente in trenta Paesi - si prefigge l’obiettivo di migliorare la qualità della vita di tutte le persone, generando un impatto positivo sull’ambiente e sulla società. Alla base di ogni azione intrapresa ci sono il concetto di “shared value”, (creare valore condiviso) e l’empatia. Come questi due elementi concorrono a migliorare la vita delle persone? Lo abbiamo chiesto a tre esponenti del Diversity&Inclusion Committee del Gruppo Chiesi.


CARMEN DELL’ANNA
Head of Global Medical Affairs

L’identità di Chiesi è da sempre legata alla ricerca scientifica, avendo l’azienda come principale obiettivo quello di migliorare la salute della popolazione tramite soluzioni terapeutiche innovative. Il Gruppo sta lavorando, tra le altre cose, per arrivare ad avere un approccio completamente patient-oriented, dove empatia e comprensione dei reali bisogni delle persone che convivono con una malattia sono le parole chiave. Come commenta questo percorso e quali le sfide ancora da affrontare?

La ricerca e la collaborazione con la comunità scientifica sono da sempre parte del nostro DNA, tanto che oltre il 20% del nostro fatturato è investito in ricerca. C’è un continuo scambio di conoscenze con tutti gli stakeholders, con lo scopo di portare innovazione a beneficio della salute dei/delle pazienti. Questi ultimi sono prima di tutto persone, non solo destinatari di cure. Del resto, il ruolo del paziente ha avuto importanti evoluzioni nel tempo, diventando sempre più protagonista nelle scelte relative alla sua salute. Crediamo che il concetto di cura debba andare oltre il mettere a disposizione farmaci, fino a comprendere l’esito delle nostre azioni sulla società. Quando parliamo di esigenze dei pazienti, avere una mentalità aperta alla diversità e all’inclusione diventa fondamentale: team diversificati che non seguono un pensiero omologato hanno maggior possibilità di essere innovativi e avvicinarsi in maniera empatica ai bisogni delle persone”. Solo dal costante ascolto dei pazienti, dunque, può prendere le mosse un’innovazione realmente utile e il dialogo con la comunità dei pazienti ci consente di pianificare strategie in grado di trovare risposte adeguate alle loro vere esigenze.

Non esistono però solo i pazienti, ma anche i cosiddetti caregiver, ovvero coloro che li assistono o che semplicemente stanno loro vicino: parenti, amici, colleghi. In tal senso, Chiesi come si sta muovendo per mettere al centro del proprio operato anche questo gruppo di persone?

Per Chiesi è fondamentale il coinvolgimento dell’intera comunità, quindi sia pazienti sia caregiver. La recente pandemia ha aumentato il carico assistenziale che grava su questi ultimi. In Italia, ad esempio, circa il 14% della popolazione è impegnata in attività di cura nei confronti di familiari fragili. Come azienda farmaceutica insistiamo sul processo di inclusione sistematica del punto di vista sia del paziente sia del caregiver e attiviamo programmi di supporto attraverso momenti di formazione dedicati a pazienti e familiari. Infine, per poter incidere realmente durante tutto il percorso del paziente, l’informazione e la sensibilizzazione attraverso i canali e gli strumenti digitali oggi a disposizione è fondamentale.


GIANLUIGI PERTUSI
BU Consumer Healthcare Director

Come si interfaccia Chiesi verso il tema della disabilità all’interno e all’esterno dell’azienda?

In Chiesi il tema della disabilità è stato oggetto di una profonda riflessione che ha visto la disabilità diventare il nostro principale focus D&I del 2023. L’obiettivo sarà creare un ambiente di lavoro dove le persone con disabilità, che siano queste temporanee o permanenti, possano sentirsi perfettamente incluse. Il Gruppo deve operare in contesti normativi molto diversi in base alle varie geografie. Dopo aver identificato la legge di riferimento, viene sviluppato un percorso di sensibilizzazione supportato da azioni che possano abbattere ogni tipo di pregiudizio e di barriera. Abbiamo, inoltre, istituito gli “Affinity Network”, gruppi volontari di colleghi e colleghe che sviluppano riflessioni relative a specifici ambiti di diversità. Vogliamo alimentare le conversazioni attraverso le proposte condivise dalle nostre persone, sia internamente che esternamente, e con la collaborazione di associazioni e realtà competenti. È importante, infatti, capire come altre organizzazioni stanno operando per conoscere nuove best practice a cui fare riferimento.

In Chiesi, naturalmente, tra gli oltre 6000 collaboratori sono molte le persone che sono loro stesse pazienti o caregiver. Secondo lei che prospettiva portano o potrebbero portare a un’azienda farmaceutica come voi?

La filosofia di Chiesi pone il paziente al centro. Il contributo delle nostre persone è perciò fondamentale perché consente all’organizzazione di avere un impatto maggiore e di cogliere più in profondità le aspettative di pazienti e caregiver. Il punto di partenza di ogni “Affinity Network” è quindi proprio l’esperienza quotidiana delle persone e l’ascolto di tutte le voci coinvolte, reso possibile attraverso workshop educazionali, che stimolano la riflessione e la consapevolezza. In tal senso un ambiente lavorativo accogliente ed inclusivo rappresenta il requisito necessario per la valorizzazione del vissuto di tutti i nostri collaboratori.


CECILIA PLICCO
Shared Value & Sustainability Manager

Chiesi, Società Benefit e azienda certificata B Corp, ha nel proprio DNA il concetto di attenzione alla comunità e persegue l’obiettivo di creare valore condiviso per le persone, la società e l’ambiente. Come questa identità si rispecchia in azioni volte a migliorare la qualità della vita delle persone (interne ed esterne) e delle comunità in cui Chiesi opera ed è presente?

Il concetto chiave per Chiesi è quello del “valore condiviso”, che guida le scelte aziendali con l’obiettivo di unire la creazione di valore per l’azienda al progresso sociale. Negli ultimi anni abbiamo, quindi, strutturato la nostra strategia di sostenibilità sulla base di questo concetto, per fare in modo che sia integrato ed applicato in tutte le dimensioni aziendali.

Ancor prima di intraprendere il percorso che ha portato Chiesi a certificarsi B Corp, era già forte l’attenzione dell’azienda alle proprie persone ed alla comunità. La funzione in cui lavoro, nata nel 2015, è stata inizialmente creata per occuparsi dell’impatto dell’azienda sulla comunità locale. E non solo! La finalità ultima di migliorare la qualità della vita di pazienti e persone e l’attenzione specifica alle comunità locali, sono state inserite nel nostro statuto quando Chiesi nel 2018 è diventata Società Benefit: questo vuol dire che l’azienda si è impegnata anche legalmente a raggiungere e verificare tali obiettivi.

In concreto, che cosa è fondamentale sottolineare se si pensa all’identità del Gruppo Chiesi e all’operato verso le persone più vulnerabili, come ad esempio chi convive con una disabilità? Come si inserisce questo tema nei valori dell’azienda e della comunità B Corp?

In questi anni stiamo sviluppando un percorso sempre più strutturato di inclusione delle diversità. Una particolare attenzione viene riservata al tema della disabilità, molto sentito da parte dei/delle collegh* e di tutta la comunità di Parma. Internamente, tra le varie azioni intraprese, a titolo di esempio, Chiesi ha attivato una job station, attraverso l’adesione al Progetto Itaca Parma che prevede l’inserimento in azienda di persone con una storia di disagio psichico.

Nell’ambito delle attività di sviluppo di comunità, sosteniamo e collaboriamo con realtà del territorio che rendono possibile l’inserimento lavorativo di persone con disabilità e abbiamo sostenuto l’attivazione di una rete di sostegno per persone fragili che vivono a Parma. Si tratta di un impegno complementare rispetto a ciò che fa l’azienda internamente, che rispecchia i valori attraverso i quali operiamo ogni giorno.

Secondo una ricerca di Harvard Business University, ben il 73% dei lavoratori si prendono cura di una o più persone care: un familiare, un figlio, un compagno (The Caring Company, 2019).

L’Osservatorio Vita - Lavoro di Lifeed ha rilevato che nella maggior parte dei casi, però, le persone non sono consapevoli del ruolo di cura che ricoprono: solo l’8% delle persone, infatti, si identifica in questo ruolo.

L’esperienza di cura coinvolge sempre più, in modo trasversale, le diverse fasce generazionali, impattando sulla vita delle persone dal punto di vista organizzativo e sull’equilibrio emotivo, influenzando così anche l’ambito professionale. Tuttavia, spesso il ruolo di caregiver resta invisibile in azienda.

“Per queste ragioni, il sostegno ai caregiver rientra negli obiettivi strategici della D&I del Gruppo CA: attraverso diversi momenti di ascolto di colleghe e colleghi, è emerso che i caregiver avevano bisogno di “uscire allo scoperto” e di parlare della loro dimensione di cura familiare - commenta Rosanna Maserati Responsabile D&I CAI -. Fondamentale è quindi sviluppare nei caregiver la consapevolezza di non essere un peso per l’azienda. Al contrario, riteniamo che le persone impegnate in un’esperienza di cura possano acquisire competenze utili anche sul lavoro”.

Rosanna, cosa mette a disposizione dei caregiver il Gruppo Crédit Agricole?

Riconoscimento, supporto psicologico e aiuto concreto con il servizio socioassistenziale. Infatti, in alcuni momenti di ascolto con i colleghi, è emerso che i bisogni, e quindi le aspettative delle persone che attraversano questa transizione di vita (maternità, paternità, diagnosi di non autosufficienza di un familiare…), possono essere ricollegati a tre ambiti. Il punto di partenza è stato il riconoscimento da parte dell’azienda del valore del tempo dedicato al lavoro di cura. A questo si aggiunge il supporto dal punto di vista emotivo e psicologico per affrontare il percorso di assistenza e cura con maggior serenità e consapevolezza; per sviluppare strumenti necessari per prendersi cura dell’altro e anche di sé; per ricevere consulenza psicologica ed avere un sostegno, uno scambio o un consiglio in un momento di difficoltà. Infine, il supporto dal punto di vista organizzativo per risolvere le necessità ed i problemi organizzativi, burocratici e logistici in continua evoluzione, attraverso servizi di supporto e accompagnamento, con l’obiettivo di trovare la soluzione più adatta alla situazione familiare e sociale del caregiver.

Come si concretizza il sostegno ai portatori di cura da parte di Crédit Agricole?

Attraverso il supporto alla genitorialità e ai caregivers. Dal 2016 è attivo 4PARENTS, un percorso di accompagnamento per i futuri e neogenitori per orientarsi tra le numerose attività da effettuare, conciliando così in modo sereno e consapevole il lieto evento e le esigenze connesse all’attività lavorativa. Inoltre, dal 2018, CAI sostiene la genitorialità attraverso il programma di formazione digitale di Lifeed che trasforma la maternità e paternità in un master, con l’obiettivo di rendere i genitori campioni in competenze soft essenziali anche per la crescita professionale. Quest’anno abbiamo esteso il congedo parentale ai padri, retribuito, a 21 giorni, che diventeranno 28 nel 2024. Dal 2022 è attivo “CARE”, il programma di formazione digitale di Lifeed che cambia il punto di vista su cura e vita lavorativa e permette di vivere il lavoro di cura come un vero e proprio master. Infine, da inizio anno è partito il servizio di supporto socioassistenziale di Stimulus, erogato a distanza o sul territorio da psicologi professionisti e care manager che forniscono supporto per la ricerca delle soluzioni socioassistenziali più adatte alle esigenze di ciascun Collega, accompagnando i caregivers attraverso l’aiuto di professionisti qualificati.

Quindi dal tuo punto di vista e dal punto di vista di CA come vedi la relazione tra welfare e inclusione?

Vi è un legame diretto tra welfare aziendale e inclusione. I due percorsi si incontrano generando un circolo virtuoso e realizzando il concetto di “benessere del/della dipendente” Abbiamo assistito nel corso degli anni a due evoluzioni: dal concetto di welfare a quello di well being, da quello di well being a strumento di inclusione.

Come altre aziende, CAI è partita da un ricco patrimonio di iniziative in tema di welfare che derivano da CCNL e dalla contrattazione aziendale “storica”; negli ultimi 5 anni è stato dato corso ad un’apertura verso nuovi strumenti di work&life balance (smart working, easy learning etc), per proseguire con un successivo allargamento, tra il 2018 e il 2019, a progetti di well being e con la collaborazione sempre più stretta con le aree che si occupano di diversità ed inclusione.

I beni e servizi welfare che aiutano nel lavoro di cura (asili nido, flessibilità orarie dedicate, ecc.) consentono di rimuovere gli ostacoli che ancora si frappongono sulla via della piena espressione del talento o più in generale del valore di ciascuna persona.

Come si crea un ambiente di lavoro inclusivo?

È possibile creare un clima di lavoro inclusivo solo se ognuno può portare al lavoro tutte le dimensioni della propria personalità (ivi compresa, nel caso specifico, la dimensione di caregiver) e le vede accolte e sostenute. Ecco come uno strumento di welfare diventa un importante strumento di inclusione.


Lifeed è la società di education technology a impatto sociale che trasforma le transizioni di vita delle persone in momenti di apprendimento e sviluppo delle competenze soft. Con il suo Osservatorio Vita - Lavoro, monitora e analizza le emozioni, le aspettative, i bisogni e i talenti delle 40.000 persone in 100 aziende coinvolte nei percorsi di apprendimento. L’azienda ha conferito a CAI il titolo di Caring Company, società che si è distinta per avere investito nello sviluppo delle proprie persone e nella valorizzazione della diversità.

L’introduzione del percorso Care di Lifeed per i caregiver di CAI, ha contribuito a creare consapevolezza del proprio ruolo, facendo luce sulla dimensione di vita che normalmente rimane nascosta nella sfera professionale ed anche a sé stessi.

Secondo i dati dell’Osservatorio Vita-Lavoro di Lifeed, mediamente solo l’8% delle persone che lavorano si identifica nel ruolo di Caregiver.

L’esperienza di CAI con Lifeed dimostra che il 20% delle persone di Crédit Agricole si sente Caregiver, rispetto al 15%, percentuale media registrata nelle aziende dello stesso settore.

Il network globale di Deloitte conta più di 415.000 persone, ed è presente in circa 150 paesi. In Deloitte Italia 11.000 persone lavorano in 24 sedi dislocate su tutto il territorio, e 3500 nuovi ingressi sono previsti entro maggio 2023.

L’incontro di diverse identità è parte essenziale del nostro DNA, caratterizzato da una moltitudine di culture, stili cognitivi e unicità. Una miriade di punti di vista e di idee si incontrano ogni giorno, in presenza o su zoom, in ufficio oppure a distanza di migliaia di chilometri, generando creatività e innovazione.

La risposta di Deloitte a questa intersezione di diversità è una strategia che promuove l’inclusione in maniera olistica, coinvolgendo ogni livello e settore dell’organizzazione, e generando un impatto anche sulla società. Per mettere in atto capillarmente i nostri valori “Take care of each other” e “Foster Inclusion”, il Team DE&I è supportato anche dall’allyship di chi si fa concretamente e instancabilmente portavoce dell’inclusione e dell’equità: le persone delle nostre Communities.

Nel 2019, è nata la rete dei Diversity, Equity & Inclusion Ambassador di Deloitte, un gruppo di persone di ogni area, diventate punto di riferimento per idee ed esigenze legate all’inclusione. Nicola Urbano, Manager di Deloitte Consulting, ci ha raccontato cosa lo ha spinto a ricoprire questo ruolo: “Lavoro in Deloitte da 9 anni e da circa 3 anni faccio parte dei/lle DE&I Ambassador. A dirla tutta, il ruolo di Ambassador non l’ho cercato io, ma è come se fosse lui ad aver cercato me. Sin dall’adolescenza ho sempre cercato di combattere gli stereotipi, ho provato sulla mia pelle cosa significa essere etichettati “sbagliati”, “diversi”.

Per questo, nel mio piccolo, ho cercato sempre di farmi portavoce del rispetto verso l’altrǝ, dell’accoglienza, rafforzando il concetto che ognunǝ è diversǝ, ed è per questo che la diversità ci rende tuttǝ uguali.

Recentemente sono stato coinvolto nell’organizzazione dell’evento “Break the bias – an unbiased breakfast”, che nasce dall’idea di avvicinare sempre più persone all’inclusione. È un’iniziativa che unisce un’esperienza formativa e interattiva, con un game sui bias cognitivo-comportamentali, ad un’esperienza sensoriale, attraverso una colazione firmata Viviana Varese, chef stellata dell’associazione VIVA/CADMI, che terminerà con una discussione interna sui comportamenti da correggere e incoraggiare”.

Stefania Silipo, invece, si definisce “un’entusiasta Business Designer in Deloitte Digital” ed è DE&I Ambassador dal 2021. Racconta di come ha scelto di diventare ambassador:

“Nel 2021 ho avuto l’opportunità di celebrare l’International Day of the Girl, partecipando all’organizzazione e facilitazione della terza edizione di “Girls Takeover”, un hackathon virtuale di design thinking in cui 120 ragazze provenienti da Europa e Medio Oriente hanno collaborato in team per risolvere una reale sfida di business lanciata da alcuni clienti di Deloitte.

Oltre alla metodologia di design, non c’è dubbio che la leva vincente di ciascun team sia stata la diversità culturale e creativa delle partecipanti. Ho conosciuto più da vicino il team DE&I, che con costante passione cerca e crea occasioni per diffondere i suoi valori e per diventare un punto di riferimento su tematiche di inclusione e esaltazione delle caratteristiche di ciascuno di noi. Mi sono rivista e riconosciuta nella vision del team DE&I ed ecco che la mia avventura da ambassador ha preso il via”.

Anche la Community delle Women in Tech è in prima linea nella promozione di una cultura dell’inclusione.

Nata per sensibilizzare sull’importanza di colmare il divario di genere nel mondo del Digital, oggi è un network che contribuisce ad avvicinare donne e ragazze alla tecnologia. Alessia Pergolato, Digital Strategist di Deloitte Digital, DE&I Ambassador e Woman in Tech, è stata la protagonista di una SheTech Breakfast, ovvero una Instagram Live, poi confluita in un podcast, realizzata da Deloitte insieme a SheTech, associazione che supporta le donne nel Tech. Alessia ci ha descritto la sua esperienza:

“Le nuove generazioni sono molto sensibili ai temi DE&I, e credo sia importante parlarne ricorrendo anche a strumenti come un podcast o una diretta Instagram.

L’intervista mi ha regalato un momento di introspezione: mi sono fermata a riflettere su quali valori voglio trasmettere alle persone con cui lavoro. Iniziative come questa stimolano la discussione e il confronto. Parlare di questi temi è sempre complesso, non possiamo scadere nel banale e parlare per massimi sistemi: per portare il cambiamento dobbiamo dare consigli concreti alle donne che vogliono intraprendere una carriera nel mondo STEM, e questa intervista mi ha permesso di farlo”.

Rimuovere gli ostacoli alle disparità di genere significa anche supportare la genitorialità condivisa.

Parents @Deloitte è la Community che dal 2020 permette a genitori e caregiver di condividere le proprie esperienze, idee e best practices. Del Comitato di questa Community fa parte Alessandro Renzulli, Senior Manager di Deloitte Consulting, che racconta:

“Nel 2022 in Deloitte è nato il Comitato Parents, di cui sono molto orgoglioso di far parte. Questo ruolo mi permette di contribuire alla realizzazione di iniziative dedicate a colleghi che, come me, hanno il duplice ruolo di professionisti e genitori. Per molti dei miei colleghi la genitorialità è, o potrà diventare nei prossimi anni, un tema centrale della loro vita. Mi piace pensare che, come manager e genitori, possiamo fare qualcosa per rendere questo importante cambiamento un po’ più agevole. Oltre a veicolare comunicazioni legate al tema della genitorialità, stiamo lanciando una serie di iniziative (es. giornate dedicate ad attività tra genitori e figli), favorendo il networking tra colleghi. Crediamo fortemente che per la definizione di iniziative mirate sia fondamentale strutturare i processi di ascolto. Per questo, abbiamo una survey dedicata alla genitorialità, che ci ha permesso di raccogliere in modo ancora più specifico le reali esigenze e priorità, allineando così la nostra agenda ai bisogni emersi e favorendo la nascita di nuove iniziative e soluzioni”.

GLOBE, invece, è la Community che dal 2019 supporta la comunità LGBT+ di Deloitte. Laura Rivella, che in Deloitte lavora nell’area Cyber Strategy di Risk Advisory e che in GLOBE fa parte del Comitato Operativo, occupandosi delle relazioni internazionali con altri gruppi GLOBE del network, racconta:

“Mi sento molto legata ad un progetto che ha coinvolto gruppi LGBT+ allies delle università di Milano, nato per creare un confronto con le nuove generazioni.

Penso sia estremamente importante non perdere il contatto con tutte le persone che si stanno per affacciare al mondo del lavoro. La presentazione, che abbiamo tenuto nella Green House della sede di Milano, ha suscitato molto interesse, e le domande poste hanno aperto una finestra sul come i giovani vedono, intendono e si aspettano il mondo del lavoro. Sentire i loro punti di vista è stato di grande impatto per me.

Del resto, non ho che una decina di anni più di loro e mi sembrano già così diversi. Trovo che sia proprio questo sforzo attivo nel capire chi potrà diventare un mio collega domani che permette a Deloitte e a gruppi come GLOBE di poterli sostenere.

Senza comprensione non ci potrebbe essere un effettivo supporto, e GLOBE è un gruppo che opera proprio a supporto di colleghǝ LGBT+ e dei loro allies.

Confesso che parte dell’orgoglio che provo nell’aver fatto da speaker per GLOBE deriva dal fatto che una decina di anni fa, quando ero nella loro posizione, avrei voluto sentire un messaggio simile da parte di un’azienda come Deloitte. In occasioni come queste, e non solo, dobbiamo essere consapevoli dell’impatto che possiamo avere sulle altre persone, un impatto that can matter, come recita il nostro purpose”.

Le voci delle centinaia di persone che, insieme a Nicola, Stefania, Alessia, Alessando e Laura, fanno parte di queste Communities, sono fonte di coraggio, ispirazione e fiducia per ogni altrǝ collega. Il loro impegno è ormai un imprescindibile e irrinunciabile tassello nella nostra strategia di inclusione.

“Ricordo ancora la prima volta in cui ho varcato il portone dell’Hotel Principe di Savoia, a Milano, poco dopo aver superato il colloquio di lavoro: sapevo bene di trovarmi in uno degli alberghi più prestigiosi d’Italia, in una realtà che sentivo molto lontana da ciò che ero. Quando mi hanno consegnato la divisa ho capito che grande possibilità mi venisse offerta”.

Inizialmente presentato alla Direzione del personale dell’Hotel da Comunità Nuova, Associazione parte della Fondazione Don Gino, Chilimbar Baron, protagonista di questa storia, è oggi una delle persone di riferimento della mensa dei dipendenti dell’albergo. Da quel giorno sono infatti passati quasi dieci anni e Chilimbar si è costruito una carriera.

“Oggi vivo la quotidianità di un luogo cui sento di appartenere, dove posso essere me stesso”.

Il senso di appartenenza (belonging) è infatti uno dei tre pilastri, insieme a diversità e inclusione, della filosofia We Care di Dorchester Collection che si prefigge di creare un clima aziendale in cui le persone possano crescere e prosperare.

Chilimbar, quando sei arrivato in Italia?

Quando avevo tre anni. Sono nato in Romania da mamma romena e papà brasiliano. In Italia sono stato affidato a una “casa famiglia” e ho perso il contatto con la mia famiglia d’origine.

Che ricordi hai di quel periodo?

Era come vivere in una grande famiglia. Noi bambini stavamo tutti insieme, giocavamo, andavamo a scuola. Avevamo ciascuno storie difficili, per cui la diversità era motivo di unione e non di discriminazione. Le prime difficoltà sono iniziate quando ho compiuto diciotto anni. Da quel momento la comunità non ebbe più le risorse per mantenermi. Ho dovuto rimboccarmi le maniche. Avrei voluto studiare, ma la vita mi ha portato su altre strade. A ventidue anni sono diventato padre e le mie priorità sono cambiate.

In che anno sei arrivato all’Hotel Principe di Savoia?

Nel 2014, avevo 24 anni. Mi sono subito sentito accolto dal team.

Grazie al rapporto quotidiano con colleghi e colleghe ho conosciuto i valori di Dorchester Collection: passione (amiamo ciò che facciamo, siamo determinati a offrire il meglio di noi stessi, ogni giorno); personalità (siamo unici e straordinari, incoraggiamo le personalità a brillare); rispetto (celebriamo e rispettiamo le nostre differenze, queste aggiungono splendore alla nostra cultura); lavoro di squadra (con una visione comune, fiducia reciproca e network di supporto, siamo più forti); creatività (approcciamo ogni giorno con estro per dilettare i nostri ospiti con novità, a ogni livello della loro esperienza di soggiorno). Tutti questi valori li ritrovo anche nella vita privata. Mia moglie ed io siamo “una squadra”, ci dividiamo i compiti, ci aiutiamo a vicenda.

Hai mai incontrato difficoltà nel tuo percorso?

Sì. A causa di un errore commesso ho dovuto scontare un periodo di detenzione in carcere. In quella fase difficilissima, l’Hotel Principe di Savoia e la mia famiglia hanno fatto ciò che lo Stato non è stato in grado di fare: dare assistenza e prospettiva a un percorso di reinserimento nella società.

Visti la mia condotta e il mio impegno pregressi, l’azienda ha acconsentito a preservare il mio posto di lavoro fino alla fine della pena. Non è scontato ricevere una fiducia tale dai propri datori di lavoro.

In che modo l’azienda valorizza il rispetto delle diversità, l’inclusione e il senso di appartenenza?

Con varie iniziative! Nei mesi scorsi il team People and Culture ha organizzato un incontro dedicato al tema delle identità. Le diversità non sono solo quelle di genere: tutto può essere diversità! È questione di punti di vista: se c’è pregiudizio, la diversità diventa un elemento negativo; se c’è inclusione la diversità si trasforma in un punto di forza.

Hai detto che all’Hotel Principe di Savoia senti di poter essere te stesso, perché?

L’azienda offre spesso la possibilità di “fare la differenza” nella comunità cui apparteniamo. Ad esempio, grazie alla collaborazione con la Fondazione San Francesco di Milano ho potuto partecipare a una giornata di volontariato presso Casa Santa Chiara che accoglie nuclei famigliari, monoparentali e donne sole richiedenti asilo politico.

Ho vissuto in una comunità per molti anni, come sai. Perciò sono stato colpito profondamente da questa esperienza, al punto da prendermi carico dell’attività di raccolta degli indumenti da donare ai residenti della struttura. Non solo: recentemente è stata avviata una partnership con Amsa (Azienda Milanese Servizi Ambientali) per ripulire le strade e i parchi del quartiere. Non manco mai a queste iniziative poiché in queste occasioni mi sento appartenente alla comunità e fiero di essere un dipendente dell’Hotel Principe di Savoia.

Io chi sono? Tre parole per una sola grande domanda.

Quanto potrà essere difficile trovare una risposta? Infinitamente difficile. La ricerca di sé è un percorso intenso, a volte doloroso, che può durare una vita intera.

Dopo aver chiacchierato con Silvia e Anna, una strana sensazione di completezza e leggerezza pervade la stanza. Due voci diverse, entrambe forti e determinate, hanno ricordato una verità non così scontata: serve coraggio per essere se stesse.

“Quando avevo tre anni e mezzo i medici hanno scoperto che ero sorda. Ho fatto un lungo percorso di logopedia che ha dato ottimi risultati e ora, anche grazie all’uso delle protesi, a modo mio posso sentire – spiega Silvia Bennardo,Solutions Developer Enel - Spesso le persone, quando mi incontrano per la prima volta, non si accorgono subito della mia disabilità: è invisibile, lo so, ma c’è!”.

“Sono una donna lavoratrice, madre di due splendidi figli, felicemente separata, innamorata della mia compagna – racconta Anna Abeniacar, Customer Stakeholder Manager Enel - E ho scoperto come una sola piccola vocale (“a” al posto di “o”) cambi il percepito delle persone. Oggi sono orgogliosa di aver accettato e condiviso la parte omosessuale di me, per troppo tempo lasciata in cantina”.

Silvia, ti sei mai sentita mal interpretata dagli altri? O che la tua identità venga subito “catalogata”?

A volte sembro una persona timida o che si dà delle arie - dice Silvia - ma in realtà, non lo sono. Semplicemente quando le persone mi parlano standomi alle spalle, non leggo il labiale quindi non rispondo. Oppure mi è capitato di sentirmi dire, una volta svelata la mia disabilità: “Sei una ragazza così bella! Non si direbbe che sei sorda”... ma le due cose non sono connesse!!!

A volte vorrei che la mia disabilità fosse immediatamente percepibile da tutt*. Questo accade quando gioco con la Nazionale di Beach Volley e Pallavolo in cui siamo tutte sorde. Tolgo le protesi, mi concentro sulla partita, sono me stessa: libera, serena, sicura di essere compresa dalle compagne di squadra.

Silvia Bennardo
Solutions Developer Enel

C’è un momento della tua vita in cui hai preso totale coscienza del fatto che essere sorda fosse considerato dagli altri come una disabilità?

Sì, è arrivato al termine di un lungo percorso psicologico che ho intrapreso ai tempi dell’università. Non riuscivo a integrarmi. Decidere di concentrare tutte le energie su me stessa è stata la scelta migliore: ho acquisito molta consapevolezza. Oggi ho molt* amiche e amici che sono udenti e riescono a farmi sentire a mio agio, pur non essendo una cosa semplice da realizzare, me ne rendo conto.

Anna annuisce alle parole di Silvia, e la domanda nasce spontanea: Anna cosa è successo dopo il tuo coming out?

Il coming out nella mia famiglia ha suscitato reazioni opposte: di rifiuto, come nel caso di mia sorella maggiore; di comprensione e amore da parte dei miei figli e del mio ex marito, che rimane fedele sostenitore della mia felicità.

È stata una rivelazione da gestire, lo so. Oggi c’è un nuovo equilibrio, stiamo tutti bene: io, i miei figli, il loro papà e la mia compagna.

Anche nel contesto aziendale il coming out è stato fondamentale. A giugno 2022, quando il team D&I ha organizzato un webinar sull’orientamento affettivo, ho preso coraggio e ho raccontato tutta la mia storia. Per me è stata come la divisione del tempo in due diverse ere. Al lavoro adesso sono più a mio agio e questo mi ha regalato una nuova assertività. Ho imparato che l’inclusione è possibile solo quando siamo tranquille, quando parte da noi stesse. La responsabilità del cambiamento è anche nostra: con serenità dobbiamo, ogni giorno, diffondere l’idea che la diversità è cosa buona e giusta. L’importante è circondarsi di persone termoconduttrici, per fare un esempio che ha molto a che vedere con la mia azienda, in grado di emanare calore e riceverlo. Uno scambio continuo.

Anna Abeniacar
Customer Stakeholder Manager Enel

Ci sono delle identità meno accettate delle altre, nel nostro Paese oggi?

Silvia: Percepisco con molta negatività la pressione dei social in cui viene costantemente veicolato il mantra dell’apparire perfetti - ma poi quale è la definizione di perfetto?! - Quando ero adolescente non accettavo la mia sordità. Molt* oggi soffrono perché non raggiungono quei canoni che i social, il consumismo e la società in generale ci hanno imposto ma che non ci definiscono. Siamo molto di più.

Anna: Mi torna in mente un episodio del passato. In televisione veniva intervistato un calciatore nero , ebreo e omosessuale.“Qual è la diversità che lo identifica maggiormente?”. Come veniamo percepiti è qualcosa che parte anche da noi, dalla nostra capacità di trasmettere tranquillità e dal coraggio di confrontarsi con chi ha paura delle diversità, con chi ha un pensiero differente dal nostro. Solo così si può raggiungere un cambiamento.

Qual è l’aspetto che più amate della vostra identità?

Silvia: La mia disabilità mi ha dato l’opportunità di vivere esperienze uniche, come far parte della nazionale sorde di beach volley e di partecipare alle Olimpiadi, sia in Turchia che in Brasile. La sordità mi ha resa ciò che sono: una giovane donna che prova per gli altri sensibilità ed empatia con assoluta spontaneità.

Anna: Sono orgogliosa di me stessa, di aver avuto il coraggio di far uscire allo scoperto una parte di me troppo a lungo negata a me stessa. Avrei potuto accorgermene prima? Certo. Avrei evitato dolori e scombussolamenti. Ma non avevo gli strumenti per farlo, sono cresciuta in una famiglia tradizionale, borghese, dove l’unica relazione pensabile era quella eterosessuale. I riti di passaggio sono dolorosi, ma imprescindibili: ora sono una donna soddisfatta, felice del calore dato e ricevuto dalle persone che amo. Se non mi fossi messa in gioco sarei stata una madre infelice, incapace quindi di crescere figli felici.

Prima di incontrare lui, Lara era una persona normale con una vita piena. Amava ballare, passare dalla movimentata allegria della compagnia ai momenti più solitari, interiori e riflessivi, vivendo a pieno esperienze ed emozioni. Poi si è innamorata dell’uomo che sarebbe diventato suo marito ed è tutto cambiato.

Cosa ti ha attratto di lui?

Mi ha colpita la sfrontata determinazione dei suoi sentimenti, unita ad una delicatezza ed un animo nobile, quasi d’altri tempi. In poco tempo si è mostrato essere la persona perfetta per me, quella che mi permetteva di essere autentica e che rendeva la mia vita migliore. Tutto di lui sembrava essere cucito sulla mia vita e sulla mia pelle: non avevo alcun dubbio che fosse la persona migliore che potessi incontrare.

Quando ti sei accorta che qualcosa non andava?

C’è voluto tanto tempo per riuscire a rendermi conto di cosa stesse realmente succedendo e di chi avessi accanto. Si fa l’errore di pensare che la violenza riguardi “solo” calci e pugni, ma c’è una forma di violenza ancora più difficile da riconoscere, persino per chi la vive: quella psicologica, emotiva ed economica. Inizia lentamente con l’allontanamento dalle persone a te care, con lo svilimento e la privazione dei tuoi interessi e passioni, con continui giudizi, critiche, umiliazioni. Una svalutazione continua, fatta di ricatti, insulti, controllo, inganni, punizioni e minacce che ti confondono perché, mentre ti distruggono, proprio un attimo prima che tu reagisca, si trasformano in scuse, promesse. Così ritorni a quei momenti felici ed incantati nei quali lui è di nuovo quella persona meravigliosa che ti ha fatto innamorare. Con la sua abilità nel ribaltare sempre le situazioni, ti induce a sentirti responsabile di quei suoi comportamenti, a dubitare di te stessa, a sentirti sbagliata, incapace, insicura, visionaria, malata e persino folle. Una volta avviato, questo processo diventa un’inesorabile escalation di drammi sempre più psicotici e sempre più agiti: alle urla e agli insulti seguono scatti d’ira che trovano sfogo prima sugli oggetti, poi con il passare del tempo, arrivano a te. Ci vuole veramente tanto tempo, tanta disperazione e tanto coraggio per riuscire ad aprire gli occhi e vedere la realtà per quella che è: una psicosi che non lascia scampo. Ma era mio marito ed io avevo giurato che mi sarei presa cura di lui: ho cercato di aiutarlo con ogni mezzo, nonostante lui vivesse nella negazione più totale del problema, proiettandolo su di me. Ogni volta, si ricominciava tutto da capo.

Come hai fatto a non accorgertene prima?

Questa è la domanda più dolorosa che pongo a me stessa, perché implica la mia responsabilità nell’essermi messa in questa condizione. Genera senso di colpa e profonda vergogna. Credo che una persona sana mai potrebbe immaginare simili forme di inganno, manipolazione, prevaricazione e violenza.

Come hai reagito?

Solo quando ho realizzato che anche i miei figli erano in pericolo, sono scappata e non mi sono più voltata indietro. Mi sono rivolta ad un Centro Antiviolenza, che mi ha aiutata a maturare la consapevolezza che non si può salvare chi non vuole essere salvato e che non avevo altra scelta che la separazione. Mi sono rivolta al tribunale, sicura che avrebbe fatto luce sui fatti inconfutabili e ben evidenti, ma il magistrato, pur riconoscendo i problemi e la pericolosità del soggetto, ha archiviato il caso, cosa purtroppo non infrequente. Così ho fatto ricorso in corte d’appello per portare avanti il procedimento penale a carico del mio ex marito: è iniziato un calvario fatto di vessazioni, distorsioni dei fatti, manipolazioni, dissertazioni volutamente distruttive, perizie false e screditanti nei miei confronti al fine di favore la rivalutazione del ruolo paterno in nome della bigenitorialità. Sotto il ricatto dell’affidamento dei bambini, ho dovuto ritirare tutte le denunce e imbavagliarmi: non potevo rispondere, difendermi, dimostrare, nemmeno respirare. Sono stati gli anni più dolorosi della mia vita: ho dovuto difendere me e i miei figli da chi dovrebbe tutelarci e lottare con tutta me stessa per riuscire a smentire quelle false accuse. Il mio ex marito ne è uscito immacolato ed è stato reso ancora più potente: sa che può tutto e ne approfitta per tormentarmi, strumentalizzando i nostri figli. Mi sono sentita cementata viva da false accuse: sono rimasta imprigionata per tanto tempo, nel dolore, nell’incredulità, nella solitudine, nella vergogna, nel terrore, nel timore di non essere creduta.

Quando hai iniziato a capire che potevi uscirne?

L’incontro con Igor Suran, il Direttore Esecutivo di Parks, ha rappresentato per me l’inizio di un lento e lungo processo di trasformazione interiore: ho compreso che il disagio, l’isolamento e la sofferenza che io ho provato sono comuni a tante persone. Tutti noi abbiamo la necessità di essere ascoltati, riconosciuti e accolti… prima di tutto da noi stessi. È importante condividere, anche nei momenti più difficili: ho perso tante persone in questo cammino; ho sentito la solitudine e l’abbandono. Non tutti sanno capire, non tutti vogliono esserci ed è doloroso. Ma se non ti chiudi, se dai la possibilità agli altri di scoprire chi sei veramente, scoprirai di non essere sola: Da questo preciso istante ho iniziato a togliere il primo strato di cemento in cui mi avevano seppellita: è un percorso faticoso e delicato, un intenso lavoro interiore su sé stessi. Io ho scelto di smettere di soffrire per ciò che ho subito e mi sto impegnando con tutte le forze per non essere schiava del terrore per ciò che potrebbero ancora accadere. Non posso cambiare ciò che è stato: so di aver fatto tutto il necessario con gli strumenti e le conoscenze che avevo in quel momento. Seppur ferita, ho reagito e ora posso camminare a testa alta: questo mi rende fiera. Non posso cambiare la realtà che mi circonda, ma posso e voglio cambiare il mio modo di affrontarla, sapendo bene quali siano le mie risorse, i miei valori, la persona che sono e che voglio essere, nonostante tutto. Ho imparato a cercare e riconoscere le “benedizioni nascoste”: quei piccoli segni e doni che, anche nel momento peggiore, riescono a farti essere grato per qualcosa o per qualcuno. Sono grata, perché ho l’opportunità di una nuova vita da costruire.

Vedo. Riconosco. Valorizzo: sono le tre parole-chiave alla base delle politiche in ambito Diversity & Inclusion del Gruppo Hera, una delle maggiori multiutility italiane operante nei servizi ambientali, idrici ed energetici, che ha appena ricevuto, per il quattordicesimo anno consecutivo, la certificazione Top Employer per i risultati raggiunti nell’ambito delle politiche lavorative.

Tre parole che tracciano i principi alla base della cultura aziendale e mettono in luce il tema profondo dell’identità, quella stessa identità che rende uniche le persone e che non può essere rinchiusa in strette maglie o categorie.

Ma cosa significano?

“Vedo la realtà e gli altri, al di là degli stereotipi che mi rendono miope”. “Riconosco le specificità e mi metto nei panni di chi ha caratteristiche e stile di pensiero diversi dal mio”. “Valorizzo i tratti distintivi di ciascuno ed elimino le barriere che possono essere fonte di esclusione”.

Per il Gruppo Hera vuol dire mettersi in ascolto e trasformare le diversità in un valore condiviso, comprendere il punto di vista dell’altro, favorendone l’inclusione, anche a partire dal linguaggio che scegliamo di usare e che dà forma al pensiero e a ciò che ci circonda. Perché le parole hanno un’incredibile forza: possono confortare o discriminare e in questa direzione, la multiutility - fra le tante iniziative interne all’azienda - ha proposto un’attenta riflessione sull’importanza della comunicazione inclusiva, nella quale ognuno possa sentirsi rappresentato e valorizzato. È quanto accaduto, per esempio, con il recente aggiornamento del Codice Etico aziendale nel quale, a 16 anni dalla sua prima introduzione, la parola “persona con la sua originaria e assoluta dignità” ha preso il posto del termine dipendente, per indicare lavoratori e lavoratrici nella loro interezza, in una dimensione che sappia coglierne l’identità come un valore al quale fare riferimento all’interno dei rapporti e della vita aziendale.

Si parte da un principio per reinterpretare tutti i processi del Gruppo, dal modello di leadership alla misurazione delle performance del management, fino all’individuazione dei talenti e alla selezione. Viene meno il concetto di ideale unico a cui tendere, a favore della valorizzazione delle eccellenze individuali e del contributo distintivo che ogni persona può apportare al risultato collettivo.

Quello sul valore dell’identità è un impegno che per la multiutility si traduce in modo trasversale nel portare avanti politiche e strategie inclusive che rendono protagonista la popolazione aziendale. Hextra ne è un esempio: il sistema integrato di welfare aziendale, introdotto nel 2016, è frutto dell’ascolto dei dipendenti, per meglio comprendere i bisogni e incrementare il loro benessere fisico, economico, familiare e psicologico. Su quest’ultimo tema, proprio a cavallo della pandemia, è stata intensificata la capacità di dialogo e supporto a lavoratori e lavoratrici con iniziative e attività dedicate: dai webinar agli incontri con psicologi e psicoterapeuti, passando per percorsi di supporto alla genitorialità e per la promozione di un equilibrio psico-fisico ed emozionale. Perché garantire dignità e identità sul posto di lavoro genera valore, ancor di più se parliamo di persone fragili, per le quali il Gruppo Hera ha messo a disposizione “Return to Work”: un percorso della durata di dodici settimane, diviso in più fasi e in collaborazione con psicologici, nutrizionisti, medici ed esperti di yoga e mindfulness, con l’obiettivo di promuovere stili di vita sani e coltivare l’equilibrio psico-fisico ed emozionale.

Il percorso intrapreso dal Gruppo Hera verso la direzione dell’inclusività e del benessere personale raccoglie costantemente riscontri positivi e i progetti vanno nella direzione di un cambiamento culturale sempre più distante da stereotipi e pregiudizi.

Ed è così, passo dopo passo, azione dopo azione, che la multiutility, attenta nel praticare politiche che riguardano l’uguaglianza di genere e la valorizzazione delle diversità nel luogo di lavoro, è ormai da tempo ai vertici del “Diversity & Inclusion Index” di Refinitiv (che analizza le performance delle società sulla base di molteplici fattori ESG e rappresenta uno dei riferimenti principali per gli investitori che guardano con favore alle realtà che adottano una politica orientata alla D&I) e, per il quarto anno consecutivo, anche nel Bloomberg Gender-Equality Index 2023, che valuta le prestazioni delle aziende impegnate nel sostenere l’uguaglianza di genere, attraverso lo sviluppo di politiche attive dedicate e la trasparenza nella divulgazione delle informazioni.

In Hera l’ascolto delle persone, delle esigenze e delle diversità, continua. La strada è ancora lunga e complessa, ma è necessario percorrerla per diventare portatori di un vero cambiamento sociale.

Registrazione Tribunale di Bergamo n° 04 del 09 Aprile 2018, sede legale via XXIV maggio 8, 24128 BG, P.IVA 03930140169. Impaginazione e stampa a cura di Sestante Editore Srl. Copyright: tutto il materiale sottoscritto dalla redazione e dai nostri collaboratori è disponibile sotto la licenza Creative Commons Attribuzione/Non commerciale/Condividi allo stesso modo 3.0/. Può essere riprodotto a patto di citare DIVERCITY magazine, di condividerlo con la stessa licenza e di non usarlo per fini commerciali.
magnifiercrosschevron-down