Lucio Guarinoni

Non voglio piangere! – Marco ha 8 anni, e durante il laboratorio di teatro ha avuto un litigio con un compagno di classe. Non so quale sia il motivo, ma Marco è scoppiato in lacrime, e quando sono andato verso di lui per abbracciarlo e calmarlo, all’inizio mi ha lasciato fare. Poi mi ha spinto via. Le lacrime sono diventate singhiozzi di rabbia. Io chiedo cosa non va, provo a farlo respirare, a tranquillizzarlo. – Sono un maschio! Non voglio piangere!! – urla Marco. Piangendo. “Perché si parla di generi e non di genere? Di genere ne esiste solo uno: quello femminile. Il maschile non è un genere, il maschile è il generale.” Credo sia stato di fronte a questa frase, che ho iniziato a farmi domande sul maschile e sui maschili. Era il 2015 e la compagnia Atopos metteva in scena, al Teatro Ringhiera di Milano, lo spettacolo “Dell’umiliazione e della vendetta”, dove la regista Marcela Serli e sei attrici si raccontavano in quanto donne, e raccontavano anni di Storia e lotte portate avanti dalle donne sulla propria appartenenza di genere. Genere: quello femminile, riconosciuto in quanto tale proprio perché costruzione identitaria che ha attraversato anni di resistenze di fronte a quel generale, il maschile; che ha dovuto sfidare a viso aperto, per poter conquistare – almeno un po’ – di diritti e libertà. Il generale.

È una rappresentazione efficace perché non solo rimanda a qualcosa di ampio, che ingloba, che detta norma e differenza, ma porta anche alla mente un’immagine, quella di un uomo solo, (necessariamente maschio), in divisa dai colori un po’ grigi, il viso arcigno, e un’arma, a portata di mano. Su questo generale ho iniziato a interrogarmi, innanzitutto in quanto maschio, ma anche in quanto maschio che ogni giorno, per lavoro, incontra persone di età diversa, bambine e bambini, ragazzi e ragazze, donne e uomini, anziani e anziane, che in momenti diversi della propria vita sentono su di sé il peso e la libertà, la responsabilità e la creatività delle proprie appartenenze di genere, del proprio essere bambino e non bambina, ragazza e non ragazzo, uomo e non donna, anziana e non anziano.

Tutti noi, nel lungo processo (mai finito) che è la costruzione identitaria, siamo costantemente chiamati a riconoscerci appartenenti a un determinato genere, e il nostro essere maschi o femmine è determinante, sia a livello sociale che intimo. Questo riconoscimento può avvenire più o meno consapevolmente, possiamo cioè essere consci del fatto che apparteniamo a un genere che si configura innanzitutto come costruzione sociale, in quello che il mondo si aspetta da noi in quanto esseri umani connotati come maschi e femmine, oppure possiamo agire queste costruzioni sociali senza saperlo, riproducendo pratiche e modelli senza interrogarci sul perché li mettiamo in atto. “C’è un momento in cui non avreste voluto essere femmine?” chiedo a 12 ragazze adolescenti tra i 13 e i 20 anni.

È un gruppo di ricerca teatrale e stiamo lavorando da qualche mese sulle appartenenze di genere. Seduti in cerchio. O forse dovrei dire ‘sedute’, perché l’unica persona di sesso maschile presente nella stanza sono io. Rispondono subito. Tutte quante. “Quando ho le mie cose!” “Quando i miei fratelli non fanno niente in casa e io devo fare tutto!” “Quando torno la sera da sola e ho paura” “Quando vedo quanto soffre mia madre”. Una alla volta, raccontano pezzi di vita scomoda, e la fatica di appartenere a un genere di cui sono, chiaramente, consapevoli. Il progetto prevede di lavorare parallelamente con un gruppo maschile, per poi incontrarsi tutti e preparare una performance teatrale. Pongo la stessa domanda, qualche giorno dopo, al gruppo di ragazzi. “C’è un momento in cui non avreste voluto essere maschi?” Silenzio. Mi guardano smarriti. Provo a riformulare la domanda, forse non han capito. “C’è un momento in cui avete pensato, nella vostra vita: se potessi cambiare, io vorrei non essere maschio?” Muti. Persi. Mi rendo conto che per arrivare ad una risposta ci vorrà molto, molto tempo. Il silenzio e l’incapacità di rispondere, letti insieme alla risposta entusiasta del gruppo femminile, danno idea di quanto i maschi siano disabituati ad interrogarsi sulla propria appartenenza di genere. È difficile rispondere alla domanda perché manca una presa di coscienza, pur agendo e riproducendo comportamenti fortemente connotati dall’essere maschi, la maggior parte dei ragazzi non si è mai interrogata su questa appartenenza.

E questa mancanza porta conseguenze. Come scrive Giuseppe Burgio nel libro “Adolescenza e violenza”, tracciando un quadro preciso e intelligente dei comportamenti maschili in adolescenza, la mancata presa di coscienza della propria appartenenza di genere trova valvole di sfogo in quelle che Burgio definisce “pratiche citazionali”, ovvero tutti quei comportamenti che i maschi agiscono per ricordare (inconsapevolmente) a se stessi di essere maschi. Sono pratiche citazionali il costante toccarsi i genitali in pubblico, ma anche l’essere violenti, verbalmente o meno, escludendo tutto ciò che è ritenuto diverso, e quindi inferiore: il femminile, l’omosessualità, la differenza culturale, la differenza fisica e psichica. Tutto ciò che non aderisce a un modello irreale e idealizzato di maschile, a un maschio bianco, eterosessuale, muscoloso, occidentale… va eliminato, in un gioco al massacro, dove ci si ricorda di essere maschi per differenza, svilendo e agendo violenza nei confronti di chi maschio non è.

Non sto dicendo che il modello sopracitato sia l’unico modello di maschile possibile, al contrario, ma è quello su cui, spesso, si fonda la costruzione identitaria di molti ragazzi. Forse addirittura di molti bambini. Com’è possibile, allora, dare spazio a nuovi modelli di maschilità? Come costruire positivamente un’identità senza che questo necessiti di annientare le differenze per negazione?

Ho circa 16 anni. Sono a casa con mio padre, stasera siamo lui ed io soli, e non è cosa che capiti spesso. Siamo a tavola, abbiamo finito di mangiare. Lui è seduto a capotavola, io accanto. Parliamo di come va a scuola, del laboratorio di teatro che ho iniziato a seguire, delle notizie che sono passate al telegiornale. Poi, non ricordo come, il discorso si sposta su nonna, sua madre, che io non ho conosciuto perché morta quando papà era ancora un ragazzo. Chiedo di lei, di cui non so quasi nulla: per me è sempre stata un’immagine sfocata in una foto appesa al muro. Chiedo com’era, cosa faceva, cosa le piaceva. Mio padre sospira, e inizia a raccontare: di com’era quando erano bambini, di com’era la nonna, di quando al referendum del quarantacinque il nonno aveva votato Monarchia e lei Repubblica. E poi della notte in cui è morta, un infarto, senza preavviso. E della sera seguente, quando lui, suo fratello e nonno si sono trovati soli, in casa, senza sapere cosa fare. Cosa dire. E mentre racconta, piange. Io oggi so di essere “il maschio che sono” anche grazie a quel momento, grazie a mio padre, che ha avuto il coraggio di aprirsi a me e mostrarsi nudo, spogliato dalle convenzioni che spesso ci impediscono di entrare nella verità dell’altro, in una relazione autentica. Forse la sfida, per noi maschi, è abbattere muri per essere padri diversi, insegnanti diversi, imprenditori e dirigenti diversi. Uomini diversi.

Agire, attraverso i nostri comportamenti, nuovi modelli di maschile, insegnare a bambini e ragazzi che un uomo può pulire casa, può aver paura, può essere creativo, può sentirsi debole, può ballare (solo perché è bello farlo), può “essere figo” senza essere violento, senza fare a pezzi chi è diverso dall’ideale finto – e pericoloso – che lui stesso crede di dover raggiungere. Mostriamo, nel quotidiano, un modello diverso da quel Generale sempre pronto a sparare, a cui non scappa mai un sorriso. Insegniamo ai ragazzi del laboratorio, che dentro hanno parole per raccontarsi, se le ascoltano.

Diciamo a Marco che può, ogni tanto, non essere forte e lasciarsi andare in un abbraccio. Piangendo. Com’è possibile, allora, dare spazio a nuovi modelli di maschilità? Come costruire positivamente un’identità senza che questo necessiti di annientare le differenze per negazione?

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