Arianna Conca, Diversity&Inclusion and Wellbeing Manager del Gruppo Chiesi, ci racconta il ruolo del People Care in azienda

a cura della Redazione

Cari lettori, care lettrici,
vi invitiamo a passeggiare metaforicamente in questa città del benessere, dove ogni persona ha un ruolo fondamentale nel creare equilibrio e nel contribuire a un ambiente positivo. Fuor di metafora, quanto detto rappresenta il cuore del People Care in Chiesi”: prenderci cura di noi stessi e delle persone che lavorano con noi.

Con qualche sfida, naturalmente: come possiamo puntare al benessere del nostro Gruppo, caratterizzato da stili diversi e fasi della vita così variegate? E se aggiungiamo il fatto di essere dislocati, come azienda, in più punti geograficamente, lo scenario diventa ancora più complesso e stratificato, ma allo stesso tempo affascinante.

Vogliamo chiederci allora che ruolo abbia l’apparato del ’People Care’ in un momento in cui i confini tra lavoro e sfera privata rischiano di sovrapporsi.

Come possiamo offrire benessere in un momento in cui ‘fuori’ dalle città c’è tanta eterogeneità? Siamo davanti a un qualcosa che è presente ‘dentro’ le nostre esistenze e, prendere atto della difficoltà di conciliare gli impegni privati con i workloads.


Stare bene è alla base della performance.

Stare bene è una responsabilità di ogni persona verso se stessa, dell’impresa, del comparto manageriale, di ciascuna realtà con il proprio ruolo chiave nel creare un ambiente di fiducia e di serenità, condizioni necessarie per la salute mentale nel quotidiano.


Il benessere è un obiettivo strategico per Chiesi, che ha deciso di promuovere una strategia globale che esplicita i principi utili a porre il well-being al centro di ciò che facciamo.

Come specifica la nostra linea guida si tratta, nella fattispecie, “dell’impegno di creare un ambiente di lavoro, e un modo di lavorare, caratterizzato da positività, fiducia e benessere, basato sull’armonia tra lavoro e vita personale, e dove tutte le persone si sentano a proprio agio nell’esprimere se stessi e i propri talenti dando il meglio.”

Secondo tale approccio, gli stessi programmi di “people-care” rappresentano un tocco di generosità e di attenzione al singolo, e coprono ogni ambito della persona.
E in città, possiamo annunciarlo, dal 2022, ci sono un po’ di novità. Qualche anticipazione? Eccole:

Chiesi da sempre è interessata al people care e lo è a maggior ragione oggi, come Società Benefit e più grande azien- da farmaceutica internazionale certificata B Corp.

Uno dei nostri valori recita: ‘Agiamo come Una forza Positiva’ e ‘Ci prendiamo cura l’uno dell’altro perché sappiamo di essere responsabili del benessere reciproco’.
Prendersi cura quotidianamente dell’organico, e non solo, significa avere comportamenti coerenti con le direzioni di sviluppo senza dimenticare la centralità del paziente.

Cari lettori e care lettrici, si conclude così la nostra passeggiata urbana.
“Inutile stabilire se una Città sia da classificare tra le città felici o tra quelle infelici”. Ha senso piuttosto, attraverso le nostre azioni concrete, far sì che il luogo dove abitiamo, nel corso degli anni, e dinanzi ai continui cambiamenti, sappia dare forma ai desideri. Non smettiamo di prenderci cura della nostra Città del Benessere.

Let’s our people feel better.

di Valentina Dolciotti

Al Silos non c’ero stata mai. Benché sia stato inaugurato nel 2015 e io viva a un’ora da Milano. Che vergogna. Ma, forse, dovevo aspettare il momento giusto, e la sorpresa dell’inaspettato, che ti avvolge e ti scuote.


Il Silos è immenso. Svetta in via Bergognone, al civico 40, dove originariamente si trovava il deposito di granaglie di una grande industria multinazionale. L’edificio (costruito nel 1950 e ristrutturato in seguito) si sviluppa oggi su quattro livelli coprendo una superficie di circa 4500 metri quadrati. L’impatto alla vista è pulito, lineare, non freddo ma sobrio, minimalista. Nonostante la ristrutturazione il silos ha conservato la curiosa sagoma originaria - la forma ricorda quella di un alveare – e anche da questo spazio, in questo spazio, emerge la filosofia dello stilista che ricerca l’essenzialità, liberando i volumi, i luoghi (e gli abiti) da inutili orpelli e, in generale, da elementi superflui. Unico elemento distintivo è la finestra a nastro che segna il perimetro dell’edificio, quasi fosse una corona, sottolineandone la vastità.


Una volta attraversate le vetrate d’ingresso, come Alice attraverso lo specchio, si viene catapultati in un luogo altro, intriso di stoffa e storia, arte e attrazione, cinema e cultura. Uno spazio straordinario dove è possibile attraversare e rivivere la memoria complessa e articolata del lavoro di ricerca di uno degli stilisti italiani più amati e stimati nel mondo e, non a caso, questo luogo si colloca nella “sua” città, come ricorda e racconta il bellissimo documentario diretto da Martin Scorsese (Made in Milan, 1990), in cui Giorgio Armani confessa la sua relazione intima, profonda, famigliare con la città di Milano. Il silos offre l’occasione irripetibile di spostarsi su tutti e quattro i piani per sfogliare - come leggendo le pagine di un libro - quarant’anni di lavoro dello stilista, 400 abiti e 200 accessori selezionati.


Ho scelto di chiamarlo silos perché lì venivano conservate le granaglie, materiale per vivere.

E, così come il cibo, anche il vestire serve per vivere.

Giorgio Armani



La mostra è suddivisa secondo alcuni temi che hanno ispirato e che continuano a ispirare il lavoro creativo di Giorgio Armani: al primo piano ‘Androgino’, con una selezione di capi che racconta la quintessenza dello stile Armani, capace di coniugare semplicità e rigore con una sorprendente fluidità. Al secondo piano ‘Etnie’ evoca culture e paesi lontani che hanno acceso l’immaginazione dello stilista. All’ultimo piano ‘Stars’, che illustra il profondo legame di Giorgio Armani con il mondo del cinema e dello spettacolo facendo rivivere la magia delle notti hollywoodiane.

La scala centrale, che collega i quattro livelli e organizza il per- corso, attraversa un vano verticale lasciando percepire a chi sale/scende la grande altezza e dimensione della struttura. Lo spazio espositivo custodisce in sé anche l’archivio digita- le. Quest’ultimo raccoglie schizzi, disegni tecnici, materiale relativo sia alle collezioni di prêt-à-porter sia a quelle di alta Moda ed è dedicato a ricercatori, ricercatrici e appassionat* che desiderano approfondire l’universo stilistico di Giorgio Armani.

Situato all’ultimo piano, l’archivio è consultabile gratuita- mente e raccoglie circa 1.000 outfit suddivisi per stagioni e collezioni, 2.000 capi e accessori, numerosi bozzetti, video di sfilata e di backstage, immagini tratte da Emporio Armani Magazine, campagne pubblicitarie iconiche, fotografie di backstage. Tra le cose qui descritte si possono trovare raccontate in recensioni, comunicati stampa, e nel ricco sito web dedicato al Silos; ciò che invece non è possibile trovare in rete è quella sensazione di grandezza e insieme di semplicità che ti accompagna durante tutta la visita.

Come se ci fosse un sottile filo di Arianna che guida e rassicura e che, pur nell’immensità del lavoro descritto, nell’innumerevole quantità di proposte, idee, riferimenti che attraversano i cinque continenti, svariate epoche storiche e molteplici identità, ci fosse sempre stata – fin dall’inizio, fin da subito – un’idea chiara di tutto ciò che sarebbe stato. Una sola, semplice, cristallina idea.

UPMC celebra il Mese della Diversità e dell’Inclusione

di Maria Gebbia

Un ricco programma di appuntamenti online per attraversare con un approccio intersezionale l’importanza della diversità e dell’inclusione - che il Gruppo esprime attraverso due dei suoi valori fondanti, ‘Dignità e Rispetto’ - e porre l’accento sull’impegno di UPMC per dare vita a un ambiente sempre più accogliente, paritario e inclusivo.

E, soprattutto, per “costruire ponti” tra mondo clinico e amministrativo, e tra professionalità con competenze disparate. UPMC Italy ha scelto di celebrare così il mese di maggio, scelto dall’Unione Europea per sensibilizzare l’opinione pubblica e le aziende - e, appunto, costruire ponti - su Diversità e Inclusione.

Grazie a questa iniziativa, tutto il personale di UPMC in Italia – suddiviso tra Lazio, Toscana, Campania e Sicilia – ha potuto mettere a fuoco l’importanza e il valore che ogni persona ha nella sua unicità, attraverso le testimonianze di esperti, studiose, colleghe e colleghi.

Un unico, forte leitmotiv – essere uniti nelle nostre diversità – che ritroviamo in tutti i webinar che hanno attraversato il mese, suddivisi in quattro macro-aree raccontate da personale interno e ospiti esterni.

Gli appuntamenti di La diversità siamo noi hanno messo in luce quanto fatto da UPMC in ambito D&I.
A partire da Pittsburgh, sede centrale del gruppo, dove è attivo e in primo piano nelle strategie aziendali il Center for Engagement and Inclusion; per arrivare a Palermo, dove l’I- SMETT grazie alla particolare attenzione alle esigenze delle donne, riceve il ‘bollino rosa’ ogni due anni dal 2014. Sempre in Italia, è nato ‘We4Woman’, un progetto nato dal basso e che pone l’accento sulle esigenze del personale femminile in tre ambiti specifici, Equilibrio Vita-Lavoro, Crescita Professionale e Diritto alla Salute.

La sezione Formazione ha ospitato interventi con un taglio divulgativo e informativo, spaziando da webinar in cui ci si è interrogati sulle modalità in cui gli uomini possano agire in modo trasformativo per essere alleati delle donne nella costruzione di dinamiche di genere rispettose; a approfondimenti sulla medicina di genere, che indaga in che modo il genere sia correlato alle patologie e alla loro cura al confronto tra generazioni e a fenomeni globali quali la ‘Big Resignation’, che attraversa anche l’Italia e il settore della sanità.

Un workshop interattivo ha analizzato come le parole pos- sano ferire ma anche curare.
In Facciamo rete il dialogo è stato con le realtà con cui UPMC fa rete, come ValoreD, il coordinamento del Palermo Pride, e altre società legate al gruppo, come la Fondazione Ri.MED, ente di ricerca biomedica che ha UPMC tra i soci fondator accanto al CNR e alla Presidenza del Consiglio. Tutt* Inclus* la sezione dedicata alle persone di UPMC at- tive nella società civile, con particolare riferimento all’abili- smo, mito da sfatare.


Maria Gebbia

Diversity and Inclusion Expert

di Clara Carlini e Annalia Luciano

La crisi pandemica ha accelerato alcuni processi di trasformazione delle città e dei modi di vivere dei suoi abitanti. Questo processo di cambiamento riguarda sicuramente anche la moda nei confronti della quale ormai è stato definitivamente superato lo stereotipo che sia solamente “futile e frivola” per conferirle invece l’importanza culturale e sociale che merita e le compete. D’altro canto, uno dei padri fondatori della sociologia - Georg Simmel - nel suo famosissimo saggio breve “la moda”, già nel 1910 riteneva che il “ruolo fondamentale della moda fosse quello di essere al tempo stesso prodotto e motore della differenziazione sociale.”

La pandemia ha spostato il focus sulle fragilità del corpo umano ricordandoci che esso ha dei limiti che vanno rispettati; la moda, abituata a celebrare corpi belli, in forma, perfetti, dovrebbe prenderne atto. In questi ultimi anni due temi sono diventati fondamentali all’interno dei dibattiti nel circuito della moda e sono inclusione e diversità. Milano è una città che si impegna per dare risposte in questo senso. Già alla fine del 2020 Pierpaolo Piccioli, direttore creativo di Valentino, aveva evidenziato come fosse importante utilizzare la moda per parlare di inclusività sociale e culturale; lo stilista aveva infatti scelto per la sua sfilata 60 modelli e modelle dalle strade delle città di tutta Europa perché fosse rappresentata la bellezza in tutte le sue sfumature differenti.

Aveva celebrato la libertà rigettando l’idea che ci possa essere una dittatura nella moda; al contrario diceva Piccioli” ognuno deve sentirsi libero di indossare ciò che vuole nel modo che preferisce, usando l’abito come espressione di sé stesso, uno strumento per raccontarsi”. Anche la scelta della sede aveva un significato, Piccioli raccontava:” l’ex Fonderia Macchi è uno dei tanti simboli della Milano che ha reso grande l’Italia e che oggi più che mai, merita di essere celebrata come città d’innovazione. Vederla animarsi di bellezza è motivo di felicità, per me e il mio gruppo, e spero anche per tutte le persone che hanno visto lo show”.

Durante l’ultima settimana della moda lo scorso febbraio hanno sfilato abiti e accessori, si, ma soprattutto espliciti valori e ideali, di bellezza, di diversità, di accettazione; a questo proposito ha fatto parlare di sé ancora una volta (aveva già dimostrato la sua originalità di pensiero e il suo sentire nella sfilata primavera estate 2022) Marco Rambaldi, uno dei nomi del nuovo panorama italiano con la sfilata dal titolo emblematico Nuova Poetica Post-Romantica. L’amore è al centro del suo show, amore che deve essere per tutti e infatti il suo casting è inclusivo a 360 gradi, non ci sono limiti di gender, taglia o età. Il rossetto rosso viene indossato da uomini e donne perché non ci sono confini, tutto appartiene a tutti, un inno all’inclusività. Le collezioni di Rambaldi esprimono voglia di fuggire da certi retaggi obsoleti, un afflato di libertà per tutti coloro che non si riconoscono in una determinata categoria di genere.

Sembrano e sono a tutti gli effetti belle notizie ma soltanto un anno fa un sondaggio di Madame le Figaro ci raccontava una realtà un pochino diversa con Milano ultima nella classifica dell’inclusione rispetto a Parigi, New York e Londra e dove quest’ultima risultava invece la città più inclusiva per i rappresentanti delle black communities che desiderano studiare moda. Alla domanda su quanto è inclusiva la moda italiana Stella Jean, designer italo-haitiana rispondeva che l’inclusività in Italia è ancora “un’illusione”.

Un altro tema fondamentale su cui concentrare gli sforzi per ottenere effettivi ed efficaci passi in avanti è quello relativo alla disabilità e ai suoi rapporti con la moda. Bisogna risalire al 1999 quando a Londra il compianto Alexander Mc Queen fece sfilare l’atleta paraolimpica, attrice, modella e attivista Aimée Mullins, priva di entrambe le gambe, con indosso delle protesi di legno fatte su misura. Oppure ricordiamo Rebekah Marine conosciuta come la prima modella bionica perché nata senza un avambraccio e portatrice di protesi, che sfilò durante la settimana della moda di New York nel 2016 insieme a Leslie Irby, modella su sedia a rotelle.

In Italia siamo orgogliosi di Beatrice Maria Vio da tutti conosciuta solo come Bebe Vio, giovane schermitrice paraolimpica, vincitrice di più medaglie, tra cui due ori nel fioretto individuale, persona dinamica piena di energia ed entusiasmo. Bebe è testimonial de L’Oreal Paris per creme e make-up e quando viene truccata dai professionisti del marchio chiede di non nascondere le cicatrici che le ha la- sciato la meningite fulminante che l’ha colpita a undici anni perché coprirle con il fondotinta significherebbe cambiarla e lei non vuole, vuole rimanere sé stessa. Lei ama quelle cicatrici che rappresentano il suo vissuto, ciò che è diventata ed i risultati raggiunti. Un messaggio potente dell’amore per sé stessi che deve liberare la disabilità da vergogna e imbarazzo che ancora purtroppo l’avvolgono.

Esiste una moda per le persone disabili? Oggi si parla di Adaptive fashion, ma che cos’è esattamente? È una tipo- logia di abbigliamento che dovrebbe rendere più semplice l’atto del vestirsi e che si adegua alle necessità e ai bisogni di chi ha limitazioni fisiche, percettive o sensoriali. Chi è in sedia a rotelle, chi indossa protesi, chi è ipovedente solo per fare alcuni esempi, può trovare infinitamente difficile indossare un jeans, abbottonare una camicia o infilare una cintura. Un marchio inclusivo dovrebbe perciò sottolineare l’unicità di ogni corpo come aspetto di riconoscimento e inclusione.

Le origini della moda inclusiva risalgono agli anni Trenta del XX secolo negli Stati Uniti quando nelle cliniche per perso- ne con disabilità si era capito quanto fosse importante la relazione tra vestito e riabilitazione, in quanto il processo di vestizione e svestizione era un momento fondamentale per l’autosufficienza del paziente disabile.

Nel 2016 lo stilista americano Tommy Hilfiger è stato il primo a realizzare un’intera collezione per uomini e donne con disabilità; negli Stati Uniti e nel Regno Unito questa tendenza sembra procedere a passo spedito, in Italia no- nostante la moda sia considerata un esempio e motore di tutta la moda internazionale non ci sono marchi di spicco che si occupino di moda inclusiva, chi lo fa utilizza ancora un approccio medico o medicale alla questione. Si calcola che nel mondo ci siano più di 1,3 miliardi di persone con disabilità quindi si tratterebbe di sviluppare una vera e pro- pria strategia commerciale per rispondere alle esigenze di un gruppo numeroso di persone.

Qualcuno si è domandato se l’Adaptive fashion sebbene molto utile non sia un po’ ghettizzante, in realtà il suo fine ultimo è l’inclusione sociale delle persone diversamente abili o meglio l’integrazione delle stesse. Il desiderio di queste persone è quello di arrivare ad essere come tutti gli altri perché è nella diversità ed unicità che alla fine siamo davvero tutti uguali. La percezione delle disabilità e dell’inclusione a livello sociale è migliorata negli anni ma c’è ancora molta strada da fare per ridurre lo stigma e superare le barriere psicologiche e culturali. E soltanto quando la disabilità così come la diversità non faranno più notizia allora l’inclusione sarà raggiunta.

Vi è molto ancora su cui riflettere perché è chiaro che l’inclusione dovrebbe essere in primis un fatto culturale con- naturale alla società e alle città nelle quali viviamo. Tuttavia, fino ad oggi questo livello di consapevolezza non è ancora stato raggiunto nella sua completezza.


Clara Carlini.

1971, laurea in scienze politiche, former fashion correspondent.

Annalia Luciano

1971, fashion consultant, co-fondatrice di Amodino Milano.

Simbolo intelligente per viaggi inclusivi

a cura della Redazione

Si narra che il primo girasole apparso sulla terra fosse in realtà una giovane ninfa, Clizia, innamorata di Apollo, dio del Sole. Apollo, lusingato dal grande amore della giovane, in un primo momento ricambiò le attenzioni, ma successivamente la abbandonò. Clizia per la disperazione pianse ininterrottamente per nove giorni immobile in un campo, senza distogliere mai gli occhi dal sole. Secondo il mito nato più di duemila anna fa, il corpo della giovane si irrigidì trasformandosi in uno stelo, i suoi piedi divennero radici ed i capelli divennero una corolla gialla. Clizia in questo modo si trasformò nel primo girasole della terra, che ammira il sole tutto il giorno.

Questa è solo una delle tante leggende esistenti sul girasole, il fiore per eccellenza della bella stagione. Tra i simboli più contemporanei associati a questa pianta c’è anche quello dell’inclusione. A livello mondiale rappresenta disabilità nascoste, dette anche invisibili, come l’autismo, dolore cronico e difficoltà di apprendimento, nonché condizioni di salute mentale, mobilità, disturbi del linguaggio e perdita sensoriale come perdita della parola, perdita della vista, perdita dell’udito o sordità.

Le persone che vivono con queste patologie affrontano spesso ostacoli nella loro vita quotidiana, a cui si aggiungono la mancanza di conoscenza o comprensione da parte degli altri. Senza prove visibili della disabilità nascosta, è spesso difficile per gli altri riconoscere le sfide affrontate e, di conseguenza, la simpatia e la comprensione possono spesso scarseggiare. Per questo motivo è stato inventato il “Sunflower Lanyard”, un laccetto usato per aiutare con la dovuta discrezione le persone che ne fanno richiesta: infatti il laccetto girasole permette al nostro staff di riconoscere una necessità particolare e di prestare aiuto o di essere pronto a concedere un po’ di tempo in più al passeggero che lo indossa e ai suoi accompagnatori.

Tutto nasce nel 2016 dall’aeroporto di Gatwick, Londra, per poi diffondersi piano piano in gran parte dell’Inghilterra. Nasce per chi ha delle disabilità nascoste, quelle che non si vedono a colpo d’occhio; non è nato quindi specificatamente per l’autismo, ma per diversi tipi di disabilità come disturbi cognitivi, ansia, ADHD. Gatwick ambisce a diventare l’aeroporto più accessibile del Regno Unito e credo che non avrà difficoltà a raggiungere il suo obiettivo.


Sulla base del successo dei cordini negli aeroporti altre organizzazioni nel Regno Unito li hanno adottati, tra cui supermercati, stazioni ferroviarie, musei e impianti sportivi. Un Italia uno degli aeroporti che ha seguito l’esempio virtuoso di Gatwick è il Marco Polo di Venezia, in cui il braccialetto viene a chiunque ne faccia richiesta. In particolare, i passeggeri con disabilità invisibili, o gli accompagnatori di passeggeri con disabilità invisibili, possono chiedere uno speciale laccetto con i girasoli da indossare all’interno dell’aeroporto. È possibile reperirlo in tre aree: in sala Assistenza Speciale (primo piano landside), all l’ufficio Informazioni Arrivi (piano terra presso la zona arrivi) o all’addetto assegnato all’assistenza.

Una piccola accortezza che incide sul la qualità delle vita di tante persone – adult, bambin*, ragazz* - e famiglie. Quali sono i vantaggi? Innanzitutto, è uno strumento sia per il passeggero che per il personale, perché permette di identificare con chiarezza una persona che necessita di un’attenzione diversa e allo stesso tempo riduce notevolmente lo stress nel disabile grazie alle agevolazioni che sono previste. Basta infatti rivolgersi direttamente al personale e chiedere ciò di cui si ha bisogno.

Indossare il laccetto girasole è una scelta volontaria a disposizione del passeggero per vivere un’esperienza migliore. Un gesto semplice che vale più di mille parole.


Per maggiori informazioni visita il sito:

www.veneziaairport.it/info-e-assistenza/disabilita-invisibili.html

Il racconto di Stefano Bruzzese, delegato del Tonga alla simulazione ONU.

di Francesca Lai

Sarà alto poco più di 506 metri, avrà novanta piani e sorgerà su un terreno di 1,2 acri al 418 11th Avenue di Manhattan. L’Affirmation Tower, grattacielo proget-tato dallo studio di architettura di David Adjaye, diventerà il simbolo dell’inclusione socioeconomica per la città di New York.

Ancora non esiste, ma agli occhi (dell’immaginazione) di Stefano Bruzzese, 25 anni, dottorando in scienze agrarie, forestali alimentari all’Università di Torino, questo edificio è forse uno dei più innovativi e inclusivi mai esistiti.

Scelto tra più di tremila selezionat* per vestire i panni di codelegato del Tonga alla simulazione ONU, Stefano è rimasto colpito da una città in cui l’inclusione è tra le persone, tra le strade, nei palazzi e nei progetti architettonici.

Affirmation Tower non solo cambierà lo skyline e il paesaggio di New York City, ma sarà un potente motore economi- co per le minoranze e le donne: sarà destinato destinare il 35% della forza lavoro a persone di colore, per un totale di oltre un miliardo di dollari.

Da Collegno, provincia di Torino, a New York. Perché hai deciso di candidarti a questo progetto?
Il mio sogno era poter vedere e camminare nel celebre Pa- lazzo di Vetro. Purtroppo, non è andata così: in quei giorni, all’inizio della guerra in Ucraina, il palazzo era occupato per le sedute – quelle vere – degli stati membri. Per cui la settimana di attività si è svolta al New York Marriott Marquis, un centro congressi nel cuore di Times Square. È stata comunque una bellissima avventura: tre giorni pieni di attività due da turista.

Come ti sei preparato per affrontare le giornate di discussione?
Prima delle tre giornate abbiamo avuto l’opportunità di fare una formazione in cui abbiamo scoperto le fondamenta del sistema ONU: dagli organi, ai meccanismi di decisione, al public speaking.

Chi sono stati i tuoi “vicini di casa” all’ONU? Io ho lavorato nel comitato dell’Unicef insieme ad un code- legato, anche lui di Torino. A fianco a noi c’erano i delegati dell’Australia, delle Seychelles, e il Kiribati, piccolo paese dell’Oceania.

Com’erano organizzate le giornate? Le attività iniziavano alle 9 del mattino fino alle 16 e 30 del pomeriggio. Si lavorava da soli o in gruppo in diverse sessioni, si presentavano mozioni sull’ordine del giorno e si votava. Noi, essendo nel comitato Unicef, avevamo il compito di presentare strategie e strumenti volti all’introduzione di politiche giovanili post pandemia. Ogni sera ho partecipato ad eventi diversi. Il più bello è stato il concerto di Francesco De Gregori al Manhattan Center.

Prova a fare un bilancio della permanenza nella Grande Mela. Cos’hai portato con te in Italia?
È stato bello vedere l’affiatamento di tutti noi giovani. Dopo due anni di pandemia, ragazze e ragazzi da tutto il mondo insieme nel vivere giornate intense e fuori dall’ordinario. Si è sentito molto questo calore: non lo dimenticherò mai. Come non scorderò l’emozione di incontrare gli special guest intervenuti, l’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton e il grande Francesco de Gregori. E poi porterò con me per sempre la città, la sua grandezza, il senso di comunione costante, il via vai di gente a qualsiasi ora del giorno e della notte. New York non dorme mai e ha sempre qualcosa da offrire.

New York è una delle città più multietniche al mondo. Qui l’inclusività è di casa?
Chiunque può trovare il proprio luogo. New York è una città libera dove le etnie si incontrano tra loro senza distinzione. È qualcosa che noti subito.

Ci fai degli esempi? L’inclusione pervade la città a partire dai bagni pubblici (in alcuni non ci sono distinzioni di genere) fino all’architettura dei luoghi e dei palazzi. Questa è una tendenza del presente e del futuro. Tra le cose che più mi hanno colpito c’è sicuramente l’Affirmation Tower che sorgerà sul “site K” della città, ad un isolato dalla nota “High Line”, e sarà il simbolo dell’inclusione di sesso e di etnie. Progettato dall’architetto americano David Adjaye, il grattacielo prevede una struttura a parallelepipedi che crescono dal basso verso l’alto. Il significato è proprio l’inclusione: entrerà nella storia perché sviluppato e abitato soprattutto da donne, persone di colore e da tutte quelle “minoranze” spesso ai margini della società.

Consiglieresti ad altre persone di fare questa esperienza? Certamente. In primis viaggiare comporta sempre un arricchimento, in qualsiasi città del mondo. Per quanto riguarda la mia permanenza a New York, l’esperienza della simulazione ti permette di metterti nei panni di quello che i veri diplomatici fanno nella realtà, attività non banale. Non solo, il valore di questo viaggio sta nel poter lavorare con altre persone, diverse per lingua e cultura. In questa occasione ho allenato la mia capacità di leadership e di collaborazione in gruppo. Ecco perché la consiglio.

Sono (anche) affari nostri

a cura di Maschi che si immischiano

Perché non mi riconoscevo in una maschilità aggressiva: la pativo su di me e provavo empatia per le donne che la subivano”. “Perché ho capito che dovevo mettere in discussione tante superficiali certezze”. “Perché venivo da una famiglia “matriarcale” e non mi ero reso conto che all’esterno ci fossero tutte queste ingiustizie. Che ha subito anche mia figlia”. “Per...interesse: perché alla fine la banalità del patriarcato è una fregatura anche per l’uomo, e cambiare le cose conviene a tutti”...

Già: perché un piccolo gruppo di uomini con vari impegni e professioni dà vita ad una associazione dal titolo “Maschi Che Si Immischiano”? Nel provare oggi a richiedercelo, è emerso che la risposta dell’altro conteneva e allo stesso tempo completava la propria. Senza dimenticare un dettaglio, che oggi un po’ ci inorgoglisce e un po’ ci rode: abbiamo creato questa piccola associazione perché - se l’idea è stata di un uomo - a convincerci è stata...una donna. Che conoscevamo e che da allora fa da contrappunto e pungolo alle nostre riflessioni, creando quella alleanza che pensiamo sia l’unico modo per essere tutti e tutte liberi di essere ciò che vogliamo.

Era il 2016. La Parma ricca e felice che tanto spesso si vanta capitale lo stava ridiventando, come già dieci anni prima, anche dei femminicidi. E allora, alla vigilia della Giornata contro la violenza sulle donne, abbiamo capito che in quel 25 Novembre non avremmo più potuto lasciare sole le donne a sfilare in corteo. Quel giorno, e da quel giorno, abbiamo esibito e scandito la triste ma concretissima verità che ci fa da sottotitolo: “Il problema siamo noi”. E dunque, se lo vogliamo, anche la soluzione.
Sei anni dopo, possiamo dire di aver avuto sorprese in negativo e in positivo. Le prime: se le iniziative sono apprezzate, è molto più difficile far percepire quel discorso di introspezione che si traduce spesso - lo abbiamo sperimentato sulla nostra pelle di soci fondatori - in un vero e proprio ribaltamento delle proprie convinzioni e dei propri comportamenti quotidiani. Un esempio: siamo stati felici di veder crescere i followers della nostra pagina facebook fino a circa 3500, salvo poi scoprire che il 60% sono donne. Ancora: le porte a cui bussiamo si aprono facilmente, ma anche perché resiste una convinzione radicata: “io non picchio”, “la violenza non mi riguarda”, ovvero si pensa che ci sia una sorta di distanza tra le persone e quel problema, dunque non costa nulla aderire. Eppure si può scoprire che il femminicida, il violento o lo stalker era l’amico, il vicino o il collega di scrivania: forse solo in quel caso si capisce che il nemico vero è la cultura patriarcale e sessista che un po’ tutti ci portiamo inconsapevolmente addosso.

Ma ci sono state anche belle sorprese: ad esempio nel mondo dello sport. Ed è simbolico che i primi e più convinti interlocutori siano stati gli interpreti dello sport virile per eccellenza: il rugby, dove il concetto-simbolo di fair play si è allargato al tema del rispetto, parallelamente alla crescita che le squadre femminili stanno avendo nella palla ovale. Ma anche nel calcio le nostre iniziative non sono cadute nel silenzio: chi avrebbe detto, almeno fino al decennio precedente, che avremmo visto una squadra di serie B come allora era il Parma esibire una maglietta ancora crociata ma fucsia...? E il discorso si sta allargando ad alcune società giovanili di varie discipline: tema importantissimo, perché lo Sport ha uno straordinario potenziale educativo, non sempre sfruttato nel modo giusto.

Altre grandi ventate di limpidezza e di ottimismo ci vengono dai ragazzi che abbiamo incontrato nelle scuole. Quando si parte dalla vita di tutti i giorni e, ad esempio, li si pone di fronte alle differenti attenzioni che si debbono mettere in pratica quando si esce la sera (dall’abbigliamento alle precauzioni nel ritorno a casa se si deve camminare a piedi) a seconda che si sia ragazzo o ragazza, allora vien fuori trasparente e prepotente l’indisponibilità ad accettare questa e le tante altre quotidiane disparità di genere.

Poi, naturalmente, è diventato preziosissimo fare rete con le diverse associazioni al femminile che si occupano di violenza, di diritti, di pari opportunità, di teatro ecc. Dalla prima volta in cui abbiamo fatto sentire la voce altra, quella maschile, abbiamo visto intorno a noi un positivo stupore. A volte è stato necessario superare qualche comprensibile diffidenza: non eravamo lì per oscurare, ma al massimo per affiancare o stare anche un passo indietro. Ed è vero che non dobbiamo occuparci di tematiche che riguardano le donne: siamo nati per occuparci di noi uomini, della riflessione sulla maschilità e di come ingabbia noi e dall’altra parte, le donne della nostra vita. Niente proposte di corsi di autodifesa, e invece tentativi di rispondere alla domanda: come far sì che le donne non debbano difendersi?

Sui bus in giro per la città, sulle auto del Comune e di qualche cooperativa ha viaggiato la nostra campagna di comunicazione “Scegli che uomo sei” (“Un collega che riconosce o che svaluta le donne?”, ad esempio)

Discorsi che affrontiamo anche nelle aziende, sia con incontri-dibattito, sia con iniziative come la newsletter mensile con vignette “firmate” Gianlo in cui proponiamo di “immi-schiarsi” sulle tematiche della quotidianità condividendo, confrontandoci e ponendoci reciprocamente dei dubbi. Come ripetiamo spesso, l’obiettivo ultimo dei MCSI è... sciogliersi. Attraverso il nostro passaparola a chilometro zero, vorremmo diventare una associazione finalmente inutile rispetto a una presa di coscienza che deve essere collettiva e che ci pare ovvia e scontata, per un mondo migliore. Da costruire insieme, uomini e donne.


Maschi che si immischiano

Associazione nata nel novembre 2016

Mail: maschichesiimmischiano@gmail.com E

Facebook: Maschi Che Si Immischiano Aps

Intervista al Sindaco Matteo Lepore

di Francesca Lai

Sindaco Lepore, ora più che mai l’Italia vede la vera anima di Bologna, città inclusiva e rivoluzionaria. Il 22 febbraio 2022 è iniziato il percorso che porterà alla modifica dello statuto di Palazzo d’Accursio per introdurre simbolicamente il principio dello ‘Ius Soli’ e istituire la cittadinanza onoraria del Comune ai minori stranieri nati in Italia che vivono o studiano in città. Bologna è riuscita dove il parlamento non è arrivato nel 2017. Crede che anche altre città italiane seguiranno l’esempio de “La dotta”?

È quello che spero. In alcuni Comuni il dibattito è già avviato. Penso a Napoli, dove il Consiglio Comunale ha approvato un ordine del giorno con il quale si impegna l’amministrazione ad inserire lo Ius Soli nello Statuto comunale, o a Roma, dove qualche giorno fa l’Assemblea Capitolina ha approvato una mozione per attivare un impegno pubblico sul tema della riforma della cittadinanza. Sono segnali importanti. Così come lo sono stati i tanti messaggi di sostegno e apprezzamento che abbiamo ricevuto da tutta Italia, per la nostra iniziativa sullo Ius Soli. Credo sia una battaglia di civiltà, fondamentale, da portare avanti insieme. Un invito che rivolgo ai cittadini e ai sindaci italiani, soprattutto quelli progressisti e democratici. Perché si tratta di una proposta che guarda alla realtà del nostro Paese, che mira ad includere chi si sente, e di fatto è, italiano a tutti gli effetti, perché parla la nostra lingua, cresce nel nostro stesso contesto culturale, tifa per le stesse squadre di calcio o di basket. È importante che le città sollecitino il Parlamento a fare un passo avanti storico per l’Italia, approvando una riforma nazionale sulla cittadinanza. Oggi più che mai la democrazia deve allargare il fronte dei diritti e dei doveri. Su questo Bologna vuole fare la sua parte, come città dei diritti, coerentemente con la sua storia.

A seguito di questa iniziativa undici mila ragazz* diventateranno cittadin* bolognes*. Bambini e bambine, giovani che un giorno saranno adulti la cui vita sarà segnata da questa. Bologna sarà anche nelle loro mani. Da questo punto di vista, pensa mai alla città tra vent’anni? Come la immagina?

Si tratta di un atto simbolico forte con il quale diciamo che per noi queste ragazze e questi ragazzi sono bolognesi e italiani, e che devono avere gli stessi diritti dei loro coetanei. È giusto e bello che Bologna sia anche nelle loro mani e che possano partecipare attivamente alle scelte del futuro della città. Tra vent’anni mi immagino una grande Bologna. Una città più inclusiva, aperta, capace di attrarre talenti e valorizzare le diversità culturali. Una città pienamente europea capace di contribuire alle principali sfide future, da quella del lavoro, a quella sociale, sanitaria e climatica e sulle nuove tecnologie. Capace di dare risposte concrete e mettere al centro le persone e il loro benessere. Una città più verde e sostenibile, grazie all’importante lavoro che stiamo realizzando, per esempio, con la missione UE delle 100 città a impatto climatico zero entro il 2030. Per fare questo sarà importante affermare la “politica del noi”, avendo cura delle relazioni con le persone e stimolando la partecipazione attiva dei cittadini.

Lei si è definito un “sindaco tra la gente”. Non appena eletto ha introdotto una modalità nuova di ascolto della cittadinanza: il suo ufficio ha migrato per i centri civici di ogni quartiere al fine di raccogliere equamente l’istante di tutti i cittadini. Quanto la presenza sul territorio ha inciso sullo sviluppo della città dall’inizio del suo mandato? Che risultati sono stati ottenuti?

Ho sempre creduto in una politica che metta al centro le persone, i territori, l’ascolto. Quella stessa politica che, oggi, deve tornare a svolgere il ruolo per cui è nata. Cioè essere vicina ai cittadini. Da qui la scelta di voler spostare il mio ufficio, una volta al mese, in un quartiere diverso della città. Un nuovo modo di lavorare per tutta la Giunta e la macchina comunale. La presenza sul territorio in questi mesi è stata fondamentale. Ci ha permesso di toccare con mano cosa funzione e cosa non funziona, di ascoltare direttamente i cittadini e lavorare insieme sulle priorità, zona per zona. Così facen- do andiamo incontro ai problemi quotidiani delle persone, ne raccogliamo i bisogni e le priorità percepite e costruia- mo insieme possibili soluzioni. A spostarsi non sono solo il sindaco e il suo staff, ma anche gli assessori e i dirigenti comunali. Questo ci permettere di cambiare il punto di vista dell’amministrazione, conoscere ciò che accade in prima persona. Da questa conoscenza e dalla cura della comunità e dei territori nascono le risposte concrete da dare ai cittadini. Un metodo di lavoro basato sulla prossimità quindi, che porteremo avanti per tutto il mandato.



Matteo Lepore, sindaco di Bologna

Lo sviluppo di una città è determinato inevitabilmente dall’evoluzione del tessuto macro-sociale e micro. In questa crescita trovano spazio i progetti rivolti all’educazione, come la piazza scolastica di via Procaccini. Lei ha promesso che ogni quartiere ne avrà una. Di cosa si tratta?

La piazza scolastica di via Procaccini è la prima piazza scolastica pedonale di Bologna. 330mq di area pedonale interamente dedicati ai ragazzi di una scuola adiacente ed in generale a tutti quelli che frequentano la zona. Si tratta di uno spazio di socialità con giochi, panchine, scritte a terra con messaggi di inclusione in diverse lingue, piante officinali, rastrelliere. Un’area per garantire maggiore sicurezza stradale e più spazi per i giovani. L’allestimento, sul modello di un altro intervento simile realizzato in via Milano, è temporaneo, con una durata di 12 mesi prima di diventare definitivo. Questa piazza rappresenta il futuro di Bologna, il modo in cui vogliamo cambiare l’uso di alcune strade e spazi della città. Per far sì che lo spazio pubblico torni ad essere al servizio di tutte e tutti, pulito, sicuro, vivibile.

Racconti un altro progetto di inclusione che ha preso vita negli ultimi mesi.
Un altro importante progetto di inclusione, al quale tengo molto, è quello delle Case di Comunità da realizzare in ogni quartiere. Partiamo dal quartiere Savena, dove abbiamo già messo in campo un investimento da 7,5 milioni di euro di fondi PNRR. Nel periodo pandemico il diritto alla salu- te e la cura delle fragilità sono emersi in modo centrale. Per questo credo che oggi sia importante garantire a tutti i cittadini la possibilità di raggiungere un luogo accessibile a tutte e tutti, in cui trovare non solo medici ma anche infermieri e psicologi di comunità, assistenti sociali. In questo mandato vogliamo quindi ampliare le Case della Salute già presenti e trasformarle in uno spazio in cui sperimentare un nuovo modello di integrazione sociale e sanitaria.

Bologna città della conoscenza. Il progetto Tecnopolo, inserito in un quartiere già fertile, tra Università e centri di ricerca di eccellenza nazionali ed europei, ha una importanza strategica dal punto di vista internazionale nazionale. Secondo lei esistono anche i confini delle città? Dove inizia e finisce un territorio urbano?

Il Tecnopolo rappresenta un’infrastruttura strategica per tutto il Paese. Un progetto in cui crediamo molto e grazie al quale saremo al centro dell’Europa, diventando uno dei principali Big Data Hub europei. Una grandissima opportunità per la nostra città, che si inserisce nel progetto più ampio di Città della Conoscenza. La conoscenza e la ricerca sono fattori chiave che ci permetteranno di rendere il nostro terri- torio più attrattivo a livello nazionale ed internazionale. Viviamo in un mondo sempre più interconnesso, nel quale siamo chiamati ad affrontare sfide globali. Per questo credo che non si possa più parlare di confini in senso stretto, ma ci sia bisogno di ragionare in termini più ampi. A Bologna lo stiamo facendo, allargando il nostro orizzonte in ottica metropolitana. Per pensare e agire come un’unica comunità di oltre un milione di abitanti. Solo così saremo in grado di realizzare gli obiettivi futuri e di crescere insieme al nostro territorio.

Bologna città progressista e democratica. Dall’architettura delle idee nascono solide costruzioni. Un inedito punto di confronto a Bologna è la Nuova Fabbrica del Programma: come nasce? Come sta contribuendo e contribuirà alla crescita della città?

La Nuova Fabbrica è stata una iniziativa fondamentale per costruire il progetto per Bologna. uìUn percorso partecipato, che ci ha accompagnato fino alle elezioni, con il quale abbiamo definito insieme a migliaia di cittadini le priorità di Bologna per i prossimi dieci anni. La Nuova Fabbrica è stata caratterizzata da incontri tematici, di studio, momenti di approfondimento e di condivisione di idee e progetti. I lavori della Nuova Fabbrica ci hanno aiutato a fare sintesi e sono stati il punto di partenza prezioso che ci permette oggi di affrontare con maggiore determinazione e consapevolezza le grandi trasformazioni che la città di Bologna dovrà affrontare.

Da ultimo, una domanda che rivolgo alla persona, e non all’uomo delle Istituzioni. Bologna è la città della cultura, dei grandi cantautori, della musica che ha anche un valore sociale. È la città che fa innamorare studenti fuorisede e visitatori. Qual è la cosa che la fa innamorare ogni giorno di Bologna?

Questa è forse la domanda più difficile di tutte. Perché non è semplice scegliere una sola cosa. Dalle sue stradine piene di vita, alla sua storia e cultura diffusa, al suo essere sempre in prima linea quando c’è bisogno di aiutare gli altri. Tutto mi fa innamorare ogni giorno di questa città. Ma se proprio dovessi scegliere, direi la sua anima accogliente ed inclusiva, in grado sempre di sapersi innovare. Bologna è una città che sa dare forza alle persone, ai loro sogni e alle loro speranze. Una città che si batte ogni giorno per la giustizia e per combattere le disuguaglianze. Una città, insomma, che si alimenta costantemente della speranza che un mondo diverso e migliore sia possibile. E questa credo sia in assoluto la cosa più bella.

Lavorare per un futuro più inclusivo e sostenibile

La parità di genere, tema inserito come quinto goal del programma dell’agenda 2030, non è solamente un diritto, ma la condizione necessaria per costruire un mondo migliore.

Al centro di molti dibattiti, in Italia c’è ancora tanto da fare per cambiare il modello culturale e contrastare il gender gap, e i dati lo confermano. Il rapporto sull’indice di uguaglianza di genere 2021 diffuso da European Institute for Gender Equality (EIGE), evidenzia come in un contesto dove l’Europa cresce solo dello 0,6% sull’anno precedente, l’Italia si posizioni al 14mo posto (63,3 punti su 100), inferiore di 4,4 punti rispetto alla media UE. Fanno eco anche i dati di EWOB, l’associazione European Women on Boards, che sottolineano che la leadership femminile nel nostro Paese è ben lontana dall’essere bilanciata, con solo il 17% di donne nei livelli esecutivi, contro il più virtuoso 32% della Norvegia e il 24% della Gran Bretagna, e con il 3% di donne in posizione di CEO, percentuale scesa di un punto rispetto al 2021, il che posiziona l’Italia in fondo alla classifica.

In questo contesto, l’approvazione della Legge Gribaudo, che prevede modifiche al codice sulle pari opportunità tra uomo e donna, deve essere letta come un segnale della volontà di dare un’accelerazione a questo processo. Winning Women Institute, che dal 2017 ha dato vita alla prima Certificazione di parità di genere, ha l’obiettivo di aiutare le aziende a misurarsi e valutarsi sul tema delle pari opportunità nel mondo del lavoro premiando le aziende vir- tuose che raggiungono standard di eccellenza.

“Il nostro processo di Certificazione è distintivo ed esclusi- vo - spiega Enrico Gambardella, presidente di Winning Wo- men Institute -. Il percorso si basa su un’analisi oggettiva e da compiere, passo dopo passo, con la nostra consulenza. Ottenere la Certificazione per l’azienda si traduce in bene- fici effettivi come la diffusione di una cultura aziendale più equa e meritocratica e il posizionamento del proprio brand sia da un punto di vista etico che reputazionale.

È anche dimostrato che le imprese che raggiungono un obiettivo di gender equality sono più performanti in ter- mini di business e più interessanti per i mercati finanziari. Inoltre poiché le aree di indagine per ottenere la Certifica- zione Winning Women Institute sono coerenti con quelle

che chiede la Legge Gribaudo, le aziende che faranno il nostro percorso partiranno avvantaggiate”.
Il percorso di Certificazione consiste in un assessment strutturato che prevede un rigoroso processo messo a pun- to con l’innovativa metodologia Dynamic Model Gender Rating ideata dal Comitato Scientifico di Winning Women Institute, presieduto da Paola Corna Pellegrini, CEO di Allianz Partners.

L’indagine si basa sull’analisi di un set di Key Performance Indicator (KPI) finalizzati ad esaminare l’opportunità di crescita in azienda per le donne, l’equità remunerativa, le politiche per la gestione della gender diversity e inclusion, la tutela della genitorialità. Dall’analisi emergono i punti di forza, le aree di miglioramento e quindi i gap da colmare in termini di pari opportunità.

“C’è infatti ancora un’ampia distanza tra intenzioni e azioni concrete, - continua Gambardella - ed è per questo che ab- biamo studiato un processo di Certificazione, il cui risultato si raggiunge solo con impegno e convinzione. Dal nostro osservatorio, oggi solo 2 o 3 aziende su 10 sono da subito in grado di raggiungere la Certificazione. Per le altre occorre un piano di miglioramento che Winning Women Institute aiuta a preparare”.

Attualmente le realtà certificate sono A&C Broker, Allianz Partners, Amgen, Banca Ifis, Biogen, Bip, BNP Paribas Cardif, Bosch, Carter & Benson, Cameo, Challenge Network, Grenke, Humana, Ipsen, Michelin Italiana, Native, Sisal, Sanofi, Sas, ma ce ne sono almeno una trentina in ‘fase di miglioramento’.

Winning Women Institute ha stretto anche importanti alleanze con AICEO (associazione che conta più di cento CEO di importanti aziende italiane) e con Valore D (associazione di imprese in Italia impegnata sul tema della parità di genere), per una maggiore diffusione e sensibilizzazione della gender equality.

A sottolineare ulteriormente l’impegno verso uno sviluppo più sostenibile, etico, equo, responsabile nel quale il bene comune sia alla base del fare impresa, da gennaio 2022 Winning Women Institute è Società Benefit.

www.winningwomeninstitute.org

What do Germany, Croatia, Spain, Romania and Sweden have in common? The five countries are home to the 2022 European Capitals of Diversity and Inclusion. As part of the European Month of Diversity, which was celebrated last May, the European Commission wanted to recognise those towns and cities promoting diversity and inclusion in their public policies.

Cologne, Germany won the Gold Medal award in the cate- gory ‘Municipalities with more than 50,000 inhabitants’ for their strategy, Cologne’s Perspectives 2030+ which puts in place a plan for enhancing diversity and inclusion in the city. The Silver Medal award went to Gothenburg, Sweden and the Bronze to Barcelona, Spain. Koprivnica in Croatia was the Gold Medal recipient of the category ‘Municipality with less than 50,000 inhabitants’ for implementing an ef- fective strategy to support people with disabilities and mi- norities, followed by Ingelheim am Rhein. Germany (Silver Medal) and Antequera, Spain (Bronze Medal). Andalucía, Spain won the Gold award in the third category established specifically to address inclusion of the Roma gypsy community, for their Inclusion for the Roma Community Plan, with the Silver Medal going to Gothenburg, Sweden and the Bronze Medal to Gardinari, Romania.
Fundación Diversidad, as the organisation responsible for promoting the European Month of Diversity in Spain to- gether with the European Commission, we are very proud to see the Spanish cities and towns being highlighted. One third of the 22 finalist destinations have been Spanish with three of them (Andalusia, Antequera and Barcelona) taking top spots in their categories.

Internationally, one of the best known Spanish cities is Bar- celona. It is the second largest city in Spain and is where diversity is viewed as a source of richness by Barcelona City Council. This approach underpins all diversity and inclusion policies, which are set out in a series of Plans, including the Plan for Gender Justice and the Interculturality Plan. The Office for Non-Discrimination assists people who experien- ce discrimination, provides legal advice and raises public awareness. Its specific policies cover an LGTBI Centre, Pro- tocol for LGTBIphobia, real estate racism project, anti-ru- mour network, and accessibility.

Another destination well known for its tourism potential is the Spanish province of Andalucia. The south of Spain has a long history of policies promoting diversity and inclusion across the board. The Roma community is notably suppor- ted through initiatives such as the Inclusion of the Roma Community in Andalucia Plan, the Andalucian Roma Com- munity Council, and the Andalucian Roma Sociocultural Centre. The local Parliament also declared 20 November, Day of the Andalucian Roma.

The Capitals of Diversity Award is a unique opportunity for small localities to make their actions known and to be able to stand alongside the big cities, which usually have more budget and progress in diversity. For this reason, one of the winners that has caught our attention is the unknown Spanish town of Antequera. Located in the province of Ma- laga, the action plan Antequera, A City for Everyone targets groups facing discrimination because of their disability, sex, age, religion and racial or ethnic origin. The sports pro- gram Integrate Antequera focuses on those with physical, psychological and intellectual disabilities.

But cities will not be inclusive if companies are not inclusi- ve, and it is for this reason, the work done by private sector for inclusion and diversity is very important. Together with

France and Germany, Spain is in the top 3 countries with the most companies adhering to national Diversity Charter. Diversity and inclusion are essential allies for the Country Brand and the City Brand as they help to attract visitors, citizens, companies and investment.

Juanfran Velasco

Head of Communications at Fundación Diversidad

Il modello che da Parigi ha preso piede in tutta Europa

di Emanuele La Veglia

Una città inclusiva è un luogo che non solo accoglie chiunque, senza fare distinzioni di etnia, genere, età, ma in cui soprattutto ci si possa sentire a proprio agio. Quante volte, misurando la vivibilità magari di un capoluogo di regione, consideriamo, come parametro, ad esempio metropolitane o autobus? Tasselli che sono sicuramente fondamentali perché è estremamente importante capire il tempo che occorre per raggiungere le mete quotidiane.

Il discorso, apparentemente scontato, è stato teorizzato da un professore universitario, Carlos Moreno, che insegna a Parigi, alla Sorbona. Nato in Colombia, è un divulgatore noto a livello internazionale per il modello “Vile du quart d’heure”, concept con cui ha disegnato la piantina ideale, quella in cui, in soli 15 minuti, percorsi a piedi o in bici, si può arrivare, partendo dalla propria abitazione, ai principali servizi. 

Ridurre le distanze diventa un modo per velocizzare l’accesso a esigenze quotidiane come l’istruzione, il lavoro, l’assistenza sanitaria, i beni di prima necessità, ma anche le risorse per una maggiore cura di sé, e dunque shopping, divertimento, benessere e così via. Può sembrare qualcosa di assolutamente ideale, eppure l’urbanista, classe 1959, ha più volte dichiarato di ispirarsi a documenti diffusi da decenni, come le opere dell’antropologa e scrittrice Jane Jacobs. 

Ancora una volta ecco una figura femminile dietro un’idea rivoluzionaria, che vede appunto le sue origini nel libro in questione, uscito nel 1961 e intitolato “The Death and Life of Great American Cities”. E, analogamente, c’è una donna dietro la diffusione concreta del progetto, ovvero Anne Hidalgo, sindaca di Parigi, al suo secondo mandato e candidata alle ultime elezioni presidenziali. Una figura di spicco che ha fatto da traino a un obiettivo ambizioso che è adesso inseguito da tanti Paesi europei e non solo. 

Un’espressione ricorrente per definire il fenomeno è “localismo cosmopolita” perché la soluzione proposta sta nell’avvicinare tra loro determinati punti di interesse, piuttosto che trovare il modo per collegarli meglio. Un capovolgimento di prospettiva sperimentato con decisione durante la pandemia, poiché, per evitare contagi, si sono moltiplicati i sistemi di sharing, l’utilizzo di monopattini, biciclette e il tornare a essere pedoni quando possibile, evitando smog e traffico.

Le origini andaluse di Hidalgo ci conducono, in un viaggio ideale, nella penisola iberica, dove è Barcellona a fare da capofila con l’adozione dei “superblocks”, i raggruppamenti di più isolati in cui si riduce al minimo la circolazione delle macchine, per lasciare ampio margine a runner, parchi, aree gioco, mentre le code, e il conseguente inquinamento, restano all’esterno dell’area delineata. A fare eccezione, con stabiliti limiti di velocità, sono vetture di residenti e veicoli d’emergenza. 

La trasformazione può interessare, nel mentre, il singolo quartiere, orizzonte senza dubbio attuabile come hanno capito da tempo a Copenaghen, in Danimarca, dove è stato sperimentato il principio dei cinque minuti, entro i quali trovare ciò di cui si ha bisogno. E veniamo in Italia, a Milano, una metropoli che si presta a rispondere, in un futuro prossimo, ai parametri delineati. Al momento la maggioranza dei tragitti sono fattibili in mezz’ora, con i mezzi, ma resta una struttura a cerchi concentrici, in cui andando verso il più interno (dalle parti del Duomo per intenderci) sale il benessere economico e sociale. 

Diversa la distribuzione di Roma, dove i cosiddetti “municipi” sono estesi quanto piccole città. Un contesto variegato in cui il sindaco, Roberto Gualtieri, vuole portare il modello di Moreno. Cosa vi rientrerebbe? Una fermata del trasporto pubblico, scuola, almeno primaria e dell’infanzia, sport, coworking, acquisti base e aggregazione culturale. Intanto, per porsi obiettivi più raggiungibili, c’è chi preferisce puntare forse più “in basso”, ma con continuità, come Sidney, la “15-minutes city” che in Australia rappresenta un esempio di innovazione ambientale e logistica. 

Il post-Covid ha reso più semplice lo scenario tracciato poiché l’emergenza ha insegnato a valorizzare il vicinato, i piccoli negozi e a considerare cosa c’è intorno a noi, prima di spiccare il volo verso altri lidi. Cominciamo allora dal networking “di prossimità” e successivamente portiamone i frutti all’esterno, allargando gli orizzonti tra connessioni tramite i social e viaggi in giro per il mondo, tenendo alta la bandiera dell’inclusione.


Emanuele La Veglia

1992, laureato in editoria, culture della comunicazione e della moda, giornalista professionista.

Intervista a Franco Lepore

a cura di Synergie Italia

Quando si parla di disabilità e città, il tema principale è quello dell’accessibilità urbana, ma non si tratta solo di questo: una città inclusiva per le persone con disabilità necessita di azioni che garantiscano loro il diritto di essere cittadini attivi.

È per questo che abbiamo scelto di intervistare l’Avv. Franco Lepore, Disability Manager certifcato, Presidente dell’Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti (UICI) del Piemonte, socio fondatore della Fe.D.Man (Federazione Disability Manager), che ha prestato servizio per il Comune di Torino come Disability Manager da Giugno 2019 a Giugno 2021.
Il suo contributo ci permette di capire il valore e la necessità della figura del Disability Manager in ambito comunale, con l’obiettivo di un reale cambiamento culturale verso una cittadinanza inclusiva.

Grazie mille Avvocato Lepore per aver dato la sua disponibilità ad essere intervistato; secondo la sua esperienza maturata in Comune, quali sono le azioni che una città deve mettere in pratica per potersi definire inclusiva?

Prima di tutto ricordo che l’inclusione delle persone con disabilità si attua attraverso la collaborazione tra Istituzioni, Associazioni e cittadini. Pertanto anche i Comuni devono fare la loro parte. Una città, per considerarsi veramente accessibile e inclusiva, deve avere: edifci pubblici o aperti al
pubblico, spazi urbani, privi di barriere architettoniche o sensopercettive; un sistema di trasporto pubblico (mezzi e infrastrutture) pienamente accessibile e fruibile; un’offerta di proposte e programmi con itinerari accessibili; personale opportunamente formato e preparato a rispondere ai vari
tipi di esigenze. Ovviamente queste azioni, per essere veramente incisive, devono essere coordinate tra loro.

Ci sono alcuni aspetti e/o attività che sono considerate prioritarie nelle pubbliche amministrazioni?
Le politiche sulla disabilità, essendo trasversali rispetto a tutte le sfere della vita quotidiana, devono essere promosse da tutte le articolazioni delle Amministrazioni Comunali. Inoltre la disabilità è un tema specifco e molto delicato, pertanto è quanto mai opportuno affdarsi a fgure esperte e competenti come il Disability Manager. Infne occorre impegnare risorse adeguate al fne di eliminare le barriere architettoniche e sensopercettive, nonché per migliorare l’accessibilità e l’inclusione delle Città. Ricordo che le politiche sulla disabilità non portano giovamento solo alle persone con disabilità, ma in generale a tutta la cittadinanza, con un conseguente miglioramento della società.


Emerge la necessità in ambito comunale di figure come il Disability Manager, che abbiano competenze specifche e che possano collaborare con gli enti e le istituzioni del territorio, con l’obiettivo di promuovere una città che sia aperta, viva,inclusiva.


Ci vuole parlare di un’azione che è stata messa in atto dal comune e che si è rivelata importante ed efficace?
Nel corso del mio mandato ho intrapreso diverse azioniper promuovere l’inclusione delle persone con disabilità. Ci sono però due iniziative di cui vado particolarmente orgogliosi. In tema di mobilità, nel gennaio 2020 ho contribuito a far approvare dalla Giunta Comunale una deliberazione che consente alle persone con disabilità, titolari del contrassegno di parcheggio per disabili, di parcheggiare gratuitamente in tutte le aree di sosta a pagamento della città delimitate dalle strisce blu. Successivamente questo provvedimento, anche a seguito dell’aggiornamento della normativa vigente, è stato esteso a molte altre Città italiane. In tema di attività di sensibilizzazione, nel 2021 ho organizzato un percorso formativo per i dipendenti comunali. L’obiettivo è stato quello di fornire ai dipendenti che interagiscono maggiormente con i cittadini le nozioni di base sulle varie esigenze delle persone con disabilità. Inoltre si è voluto fornire ai dirigenti indicazioni specifche su come valorizzare le capacità residue dei lavoratori con disabilità per una loro piena inclusione lavorativa. Il percorso formativo, che ha visto la partecipazione di oltre 200 dipendenti, ha permesso di accrescere l’attenzione e la sensibilità che la Città deve riservare ai cittadini con disabilità.
Si tratta di una testimonianza preziosa che dimostra quanto si può e si deve fare per far sì che ognun* possa essere un* cittadin*. Emerge dunque la necessità in ambito comunale di fgure come il Disability Manager, che abbiano competenze specifche e che possano collaborare con gli enti e le istituzioni del territorio, con l’obiettivo di promuovere una città che sia aperta, viva, inclusiva.



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