
Quando lo sport è inclusione? Se è alla portata di tuttə
Tra autoironia e gratitudine, Andrea De Beni racconta il suo percorso sportivo e umano. Dalla scoperta del basket all’incontro con il CrossFit, la storia di un atleta che si pone sempre nuovi obiettivi. Più volte panelist di State Street Bank in eventi con tematica di Inclusion, Diversity & Equity, oggi la sua ultima sfida è rendere l’intero ecosistema accessibile.
Lo sport fa parte di me da sempre. Anche quando, alla nascita, mia mamma ha scoperto che il femore destro non si era formato. Immerso nel body le sarò sembrato un omino del calciobalilla. Ipoplasia congenita, una malformazione abbastanza comune; tra le malformazioni, s’intende. La mia disabilità mi permette di salire su un palco e presentarmi sempre con la stessa formula: «Mi chiamo Andrea De Beni e ho 45 anni per gamba. Su di me il calcolo è facile: basta fare 45 x 1».
Fino ai 13 anni non è stato così: lo sport abitava la mia testa, non il corpo. Era motori, piloti, era Senna, Ferrari, Monza. Il motorsport: un mondo così lontano dalle mie possibilità da permettermi di non confrontarmi con i miei pari. Loro amavano il calcio e giocavano a calcio. Amavano la pallavolo e giocavano a pallavolo. Io amavo la Formula Uno e la guardavo in tv. Non è che pensassi di non essere in grado di fare sport: proprio non riuscivo a immaginarmi nell’atto di farlo. Fino a che, in terza media, arriva un professore di educazione fisica che mi dice: «Perché non provi con il basket?». Il dono del prof. Dario Morra è stato permettermi di visualizzare: nella mente ora correvo, saltavo, tiravo, segnavo, gioivo. Così ho iniziato a giocare a pallacanestro. In piedi. Insieme ad altri esseri umani di tipologia bipede. Mentre giochi, non conti quante gambe abitano i calzoncini: sei nel flusso, nel gioco, attacco e difesa, passaggio e palleggio. Era la metà degli anni ‘90 e, con 20 anni di anticipo sui tempi, vivevo l’inclusione agita, nativa, quella che oggi è sulla bocca di (quasi) tutte le persone.
Immerso nel mio mondo fatto di palle a spicchi e retine bucate il mio corpo cambia, cresce. Tranne il femore, ovvio. Il resto però mi permette di vivere per 24 anni nel mondo del basket, fino alla Serie D e qualche allenamento in C. Non sono le Paralimpiadi, ma per me è già tanta roba. Verso la fine di questo viaggio capisco che è ora di restituire. A ogni partita, avversari, parenti, pubblico e arbitri restano ipnotizzati dal mio zoppicare sul campo. Inclusione è crescita e non mi serve che a dirlo siano le statistiche, le analisi di mercato: l’ho visto da quando sono un ragazzino. Decido che è ora di mettere la mia esperienza a servizio degli altri e lo faccio ideando lo script di un video. È il 2017, Ettore Messina è a capo della Nazionale di basket. Risponde alla mia mail in pochi minuti: «Figata, facciamolo». Il video diventa uno spot televisivo, proiettato al cinema e su tutti i monitor digitali degli stadi. Si chiama Lo sport dà a tutti una possibilità e il protagonista è un bambino che tira, sbaglia, segna, ride. Vive.
Ho 37 anni e quelli sono i titoli di coda nel basket. Inizia una nuova fase: il CrossFit, una metodologia di allenamento in cui un coach ti guida tra movimenti tratti dalla pesistica e dalla ginnastica. Obiettivo? Creare, idealmente, l’atleta perfetto: quello che non eccelle in nulla, ma è bravo in tutto. Ricomincio da zero. Dai miei limiti. Imparo tutto da capo sul mio corpo: muovo pesi impensabili, salto con la corda, volteggio alla sbarra e agli anelli, corro, vogo, cammino sulle mani. Scopro un nuovo me.
Di nuovo, scatta la molla della restituzione. Scopro che le persone con limitazioni motorie, sensoriali e cognitive quando entrano in una palestra ricevono molti più no che sì. Ma i rifiuti rappresentano una motivazione solo per poche persone. Le altre desistono, pensano di aver fatto una richiesta assurda: non possono praticare sport. È necessario lavorare sull’ecosistema: formazione per allenatori, preparatrici, studenti di Scienze motorie, titolari di palestre e centri sportivi. Trasformo quel no in sì, è complicato… Ma insieme ce la possiamo fare e la tua presenza sarà anche di stimolo per tutte le altre persone.
Oggi lo sport per persone con disabilità è entrato in una nuova era: gli eventi che vediamo in televisione non sono più inclusivi ma esclusivi. Per uno che ci va, dieci stanno a casa. È l’evoluzione della competizione. Sembrerebbe una questione risolta, ma non è la visibilità sempre più elevata delle competizioni internazionali che porta al “e vissero tutti felici e contenti”. Adesso è ora di lavorare sulla base, sulla partecipazione di massa, sulle infrastrutture, sulla scuola, sui centri sportivi, sull’accessibilità insomma. Anche le aziende possono essere un mezzo per diffondere l’inclusione: come avviene in State Street, azienda che mi ha invitato varie volte durante la loro Diversity Awareness Week e mi ha permesso di raccontare le mie esperienze e sensibilizzare su questa tematica. Perché un bambino con disabilità può fare sport sognando di diventare un atleta paralimpico. Ma può anche crescere sentendosi solo un ragazzino con un sogno, quello di giocare e avere qualcosa da raccontare a scuola il giorno dopo. E lo sport deve permettere tutto questo, senza ostacoli.